Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 5084, del 9 novembre 2015
Urbanistica.Definizione d’immobile prospiciente su aree o spazi pubblici
Da un lato, è innegabile che l’immobile sia “prospiciente”, perché s’affaccia, guarda e prospetta sulla pubblica via senza alcuna barriera materiale interposta che escluda o limiti tutte o alcune di tali attività, sì da consentire al proprietario di guardare ed affacciarsi comodamente sulla strada e di vederla senza usare strumenti artificiali ed in tutte le direzioni che la linea d’orizzonte consente. Dall’altro lato, affaccio e prospetto non sono sinonimi di adiacenza, tant’è che, a seconda della conformazione fisica della veduta, la prospectio e l’inspectio si possono protendere al di là del fondo attiguo (o adiacente, che dir si voglia) e spaziare oltre, negli ovvi limiti della comodità della persona normale e senza l’ausilio di strumenti anomali. È appena da soggiungere che tali attività vanno accertate con riferimento al fondo dal quale la veduta si esercita e non già al fondo oggetto della veduta stessa, tant’è che per quest’ultimo si deve intendere una qualunque parte, anche minima o marginale, ma che possa esser guardata comodamente e con agevole (o non disagevole) affaccio. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 05084/2015REG.PROV.COLL.
N. 10582/2010 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso n. 10582/2010 RG, proposto da Giuseppe Bottino, rappresentato e difeso dagli avvocati Alberto Marconi, Marcello Bolognesi e Luca Gabrielli, con domicilio eletto in Roma, via F. Nicolai n. 70,
contro
il Comune di Finale Ligure (SV), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Massimiliano Rocca e Diego Vaiano, con domicilio eletto in Roma, lungotevere Marzio n. 3,
per la riforma
della sentenza del TAR Liguria, sez. I, n. 7551/2010, resa tra le parti e concernente il rigetto della domanda attorea per l’autorizzazione al cambio di destinazione d'uso d’un immobile;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune intimato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore all'udienza pubblica del 14 luglio 2015 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti gli avvocati Federico (per delega di Bolognesi) e Vaiano;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO
Il sig. Giuseppe Bottino assume d’esser proprietario d’un negozio di ca. mq 60 e dell’antistante cortile di dimensioni analoghe, al p.t. del fabbricato sito in Finale Ligure (SV), loc. Varigotti, alla via del Capo n. 15 e ricadente in zona ACR 4 (ambito di conservazione e riqualificazione) del piano urbanistico comunale – PUC vigente.
Il sig. Bottino dichiara altresì che tal negozio confina solo con il suo cortile, il quale, a sua volta, confina a S con la viabilità pubblica ed ai lati con proprietà di terzi e non è gravato da alcuna servitù pubblica o di pubblico passaggio.
Per il negozio stesso, il sig. Bottino chiese al Comune di Finale Ligure il rilascio d’un permesso di costruire – PDC con cambio di destinazione d’uso (da commerciale a residenziale) e con opere interne. Il Comune, dopo alcune vicissitudini e con nota n. 29749 del 15 dicembre 2008, respinse l’istanza del sig. Bottino perché, pur riconoscendo la natura privata dell’immobile, «… la porzione tra l’edificio e la strada è comunque da considerarsi di uso pubblico essendo evidentemente stata realizzata per favorire l’accesso al pubblico al negozio o ai negozi occupanti il piano terreno…».
Avverso tal diniego il sig. Bottino si gravò allora avanti al TAR Liguria, con il ricorso n. 165/2009 RG, deducendo la violazione delle NTA per la zona ACR 4 (che vieta il cambio di destinazione d’uso a residenziale, nella loc. Varigotti, per i locali a p.t. prospicienti su aree pubbliche) e l’eccesso di potere per disparità di trattamento rispetto a casi analoghi. Con sentenza n. 7551 del 4 settembre 2010, l’adito TAR respinse il ricorso del sig. Bottino in quanto la norma del PUC, che s’assunse violata, in realtà vietava nelle zone di riqualificazione, da considerare quindi come conservazione ed auspicato recupero ad altre destinazioni dei locali a p.t. via via trasformati in abitazioni, quella a residenza di tali locali se prospicienti su aree o spazi pubblici. A detta del TAR, quindi e sebbene l’immobile del sig. Bottino fosse privato e confinasse con, ma non prospettasse su un’area o spazio pubblici, la lettura complessiva delle norme del PUC ed il significato e la funzione di esse non avrebbero comunque consentito il tipo di opere che egli avrebbe voluto realizzare.
Appella dunque il sig. Bottino, con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità di tal sentenza per: A) – non aver colto il vero oggetto del contendere, posto dal provvedimento impugnato, cioè se il cortile, sul quale affaccia il negozio per la cui trasformazione chiese il PDC, potesse, o non, esser considerato soggetto ad uso pubblico, mentre esso è ed è sempre stato privato e non è gravato da alcuna servitù pubblica (al più fu adoperato dai soli clienti di detto negozio), dato, questo, non tra le parti controverso; B) – aver così incentrato il decisum sulla prospicienza, o meno, del negozio sulla strada pubblica, insistendone sulla definizione come possibilità di vedere e dimenticandone gli altri significati, vale a dire quelli di affaccio e di prospetto, che presuppongono l’adiacenza; C) – aver ritenuto che il PUC avesse scelto il significato di «prospiciente» quale sinonimo di «che guarda», con ciò ampliandone la norma fino a comprendere ogni negozio che comunque veda una strada pubblica, mentre detto piano non obbliga, ma auspica il recupero dei negozi alla destinazione commerciale. Resiste in giudizio il Comune intimato, conclude per il rigetto dell’appello.
Alla pubblica udienza del 14 luglio 2014, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.
DIRITTO
L’odierno appellante chiese al Comune di Finale Ligure (SV) il cambio di destinazione d’uso (da commerciale a residenziale) con opere per un negozio posto al p.t. d’un fabbricato colà ubicato e ricadente in zona ACR 4 del vigente PUC, ma la richiesta fu respinta in base al divieto stabilito per detta zona per le ristrutturazioni, altrimenti ammesse, che comportassero la «… destinazione a residenza dei locali a piano terreno prospicienti su aree o spazi pubblici…», donde il presente contenzioso.
L’appello non è meritevole d’accoglimento, per le considerazioni di cui appresso, pur se alcune precisazioni preliminari appaiono, ad avviso del Collegio, assai opportune.
Anzitutto, non è controversa tra le parti la natura privata del negozio e dell’antistante (a quanto consta, senza evidenti soluzioni di continuità) cortile, né che solo quest’ultimo prospetti in modo diretto su una via pubblica.
In secondo luogo, neppure sembra che tal cortile non fosse servito, fintanto che l’ormai dismesso esercizio commerciale rimase ubicato nel vano negozio, al comodo accesso di chiunque a questo. In tal caso, pare al Collegio che vi fosse un uso collettivo dell’intera area e non certo un uso limitato in via di fatto, quale mera pertinenza o quale parte comune dell’edificio o, più in generale, ai soli proprietari ed a coloro che avessero avuto occasione d’accedere al fabbricato stesso per esigenze connesse alla loro vita privata. È materialmente vero che il predetto cortile, il quale NON è corte interna dell’edificio ov’è sito il negozio, fosse la porzione di stacco tra il fabbricato e la pubblica via e che così fu considerato dall’impugnato diniego, ma anche che fosse «… comunque… di uso pubblico essendo evidentemente stata realizzata per favorire l’accesso al pubblico al negozio o ai negozi occupanti il piano terreno…». Sicché tal dato, che in sé sarebbe forse stato irrilevante, non lo è in realtà in quanto, per la sua funzione, poté esser adoperato da chiunque, senza restrizioni, per accedere al negozio, sì da determinarne un uso collettivo libero. Quest’ultimo, ovviamente, è un asservimento di area privata che non può esser confuso con quello delle strade private soggette alla servitù di passaggio propriamente detta, perché essa ha il solo scopo di garantire la circolazione, ma che serve a garantire il libero accesso dalla strada pubblica al negozio.
Infine, ed al di là di quanto l’impugnato diniego affermò (ad avviso del Collegio correttamente), la questione della prospicienza, che l’appellante contesta al TAR quale argomento estraneo all’oggetto del contendere, non è soltanto uno degli elementi considerati dalle norme urbanistiche di zona ACR 4 per la regolazione dei predetti cambi di destinazione d’uso. Essa fu introdotta pure da lui, quando precisò di non incorrere nel divieto del PUC, giacché, a suo dire, il suo negozio non era prospiciente sulla pubblica via. Invece, una volta verificato l’uso pubblico (come fece il Comune nel negare all’appellante il permesso di costruire), la prospicienza non solo non è estranea alla lite in esame, ma è argomento tanto centrale che l’appellante ne affronta il significato e la funzione per contestare sia il diniego, sia la sentenza appellata.
Ciò posto, mentre vanno confermati tutti gli argomenti usati dal TAR adoperati per respingere la pretesa attorea, se ne deve correggere quella frase (pag. 4 della sentenza) nella quale detto cortile non è gravato da servitù di passo d’uso pubblico. Tal dato è ben lungi dall’esser pacifico tra le parti, tant’è che costituisce, come s’è visto, la ragione dell’impugnato diniego. Appunto per questo il Comune, contrariamente a quanto dice l’appellante (pag. 7), non ebbe bisogno di smentire alcunché, all’uopo bastando il contenuto del relativo provvedimento.
Fermo, quindi, questo dato, rettamente poi il TAR precisa sia l’elemento fisico della prospicienza del negozio su un’area o spazio pubblico pur nella presenza del predetto cortile, sia il significato di tal concetto alla luce delle norme di zona recate dal PUC.
Invero, da un lato, è innegabile che detto negozio sia “prospiciente”, perché s’affaccia, guarda e prospetta sulla pubblica via senza alcuna barriera materiale interposta che escluda o limiti tutte o alcune di tali attività, sì da consentire al proprietario di guardare ed affacciarsi comodamente sulla strada e di vederla senza usare strumenti artificiali ed in tutte le direzioni che la linea d’orizzonte consente (arg. ex Cass., II, 17 gennaio 2002 n. 480). Dall’altro lato e checché ne dica il ricorrente, affaccio e prospetto non sono sinonimi di adiacenza, tant’è che, a seconda della conformazione fisica della veduta, la prospectio e l’inspectio si possono protendere al di là del fondo attiguo (o adiacente, che dir si voglia) e spaziare oltre, negli ovvi limiti della comodità della persona normale e senza l’ausilio di strumenti anomali. È appena da soggiungere che tali attività vanno accertate con riferimento al fondo dal quale la veduta si esercita e non già al fondo oggetto della veduta stessa, tant’è che per quest’ultimo si deve intendere una qualunque parte, anche minima o marginale, ma che possa esser guardata comodamente e con agevole (o non disagevole) affaccio (arg. ex Cass., II, 23 novembre 1987 n. 8626). Alla luce di tali strumenti ermeneutici sul concetto di prospicienza, è facile al Collegio confutare il paradossale (e, dunque, inutile) argomento attoreo secondo il quale, per far scattare il divieto de quo, basterebbe una visione purchessia, anche da assai lontano, della strada pubblica.
Per la stessa ragione, non può esser condivisa l’interpretazione attorea che si discosta dalla lettura finalistica della norma di divieto. Infatti, non solo essa non si limita a leggere la prospicienza dei locali terranei alle aree e spazi pubblici come possibilità di mera visione, da qualunque distanza, di questi da quelli, ma la intende piuttosto, e di ciò dà atto il TAR, come uno strumento di governo del territorio atto a scongiurare la desertificazione dei locali commerciali, fenomeno assai diffuso nella località Varigotti, invece utili in un’area a forte vocazione turistica. Inoltre, la norma urbanistica è ben chiara tanto nel porre il divieto, quanto nell’orientare le scelte edificatorie ammesse fuori dal campo residenziale, per raggiungere la finalità predetta. Sicché l’“auspicio” del recupero dei piani terranei, trasformati a suo tempo in abitazione, non è che la facoltà accordata, in pratica senza soverchie condizioni, per le ristrutturazioni con cambio (sarebbe meglio dire: con ripristino) d’uso non residenziale.
In definitiva, l’appello va respinto. Le spese del presente giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. IV), definitivamente pronunciando sull'appello (ricorso n. 10582/2010 RG in epigrafe), lo respinge nei sensi di cui in motivazione.
Condanna l’appellante al pagamento, a favore del Comune resistente e costituito, delle spese del presente giudizio, che sono nel complesso liquidate in € 3.000,00 (Euro tremila/00), oltre IVA, CPA ed accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 14 luglio 2015, con l'intervento dei sigg. Magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore
Antonio Bianchi, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 09/11/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)