Cass. Sez. III n. 6738 del 12 febbraio 2018 (Ud 28 nov 2017)
Presidente: Ramacci Estensore: Reynaud Imputato: PG e PC in proc. Montanarella
Urbanistica.Parcheggi pertinenziali
L’art. 9, comma 1, e non comma 3, della legge 122/1989 stabilisce che «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti». Letta unitamente all’art. 41-sexies legge 1150/1942 – secondo cui nelle nuove costruzioni debbono essere riservati gli spazi obbligatori di parcheggio ivi indicati – questa norma significa soltanto che la deroga agli strumenti urbanistici per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in linea con le finalità della legge, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare detti spazi e purché i nuovi parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno degli edifici. Non significa, invece, che i parcheggi pertinenziali obbligatori che debbono essere realizzati nelle nuove costruzioni ai sensi dell’art. 41-sexies legge 1150/1942 possano derogare agli strumenti urbanistici, giacché – se questa fosse stata l’intenzione del legislatore – la possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente in quella disposizione
RITENUTO IN FATTO
1. E’ stato proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari del 26 luglio 2016 che, assolvendo Savino Montanarella da tutti i reati a lui ascritti perché il fatto non sussiste, ha accolto il gravame dal medesimo proposto avverso la sentenza con cui il G.u.p. del Tribunale di Bari l’aveva ritenuto responsabile per due reati di abuso d’ufficio (commessi in concorso con Giovanni Zelano, responsabile dell’ufficio tecnico del comune di Sant’Agata di Puglia, e Carmelo Mazzeo, progettista e direttore dei lavori, entrambi separatamente giudicati), nonché per le contravvenzioni di abuso edilizio ex art. 44, comma 1, lett. b) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e di violazione della normativa antisismica ex art. 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001. I reati ritenuti in primo grado consistevano, in particolare, in: un primo delitto continuato di abuso d’ufficio per aver istigato o comunque determinato il tecnico comunale Zelano a non notificare al medesimo Montanarella, quale amministratore unico della società committente Sarmont di Montanarella Savino & C. s.a.s., così intenzionalmente procurando a quest’ultima un ingiusto vantaggio patrimoniale, l’ordine motivato di non effettuare i lavori di cui alle d.i.a. del 29 luglio 2008 e del 3 febbraio 2009, che comportavano profonde modifiche all’intervento edilizio di costruzione di edificio residenziale di cui alla concessione edilizia n. 11/2003 del 21 febbraio 2003 illegittimamente rilasciata in contrasto con le previsioni urbanistiche, ordine che sarebbe stato ex lege dovuto trattandosi di varianti che richiedevano il previo rilascio del permesso di costruire perché incidenti sui volumi, le sagome, i prospetti, i balconi e le superfici edificate in modo peraltro difforme dalle prescrizione del P.R.G. e senza il prescritto parere preventivo dell’Autorità di bacino; un secondo delitto di abuso d’ufficio consistente nell’aver quindi istigato il pubblico ufficiale Zelano a rilasciare alla società dell’imputato, in assenza del prescritto parere preventivo dell’Autorità di bacino ed in violazione dell’art. 12, comma 1, d.P.R. 380/2001, l’illegittimo permesso di costruire del 30 luglio 2009 in variante rispetto alla suddetta concessione edilizia n. 11/2003, consentendo la realizzazione di un ulteriore piano rispetto alle precedenti previsioni progettuali, e così di nove piani rispetto ai tre autorizzabili secondo il P.R.G., violando altresì le prescrizioni in quest’ultimo stabilite quanto ad altezza massima complessiva del fabbricato e volumetria totale dell’edificio; un’ipotesi di abuso edilizio per aver quindi avviato e realizzato sino alla data del 18 gennaio 2011 (allorquando fu sequestrato il manufatto), in base ai suddetti titoli edilizi illegittimi e/o illeciti perfezionati tra il febbraio 2003 e il luglio 2009, un fabbricato ad uso residenziale in contrasto con le suddette prescrizioni urbanistiche e che peraltro fuoriusciva dall’area edificabile e dai lotti di proprietà della società committente occupando una porzione di suolo pubblico comunale; due contravvenzioni alla disciplina in materia antisismica per aver eseguito tali lavori, in zona sismica e in modo difforme dal progetto depositato nel 2003, senza darne preavviso scritto al competente ufficio tecnico regionale e senza la preventiva autorizzazione scritta di competenza di quest’ultimo.
1.1. In primo grado, il Tribunale di Bari, giudicando con rito abbreviato, sulla scorta di una perizia affidata all’ing. Placido Munafò, la quale aveva accertato numerosi profili di contrasto tra le previsioni urbanistiche ed i progetti di cui ai menzionati titoli edilizi, nonché reiterate violazioni della normativa anche procedurale relativa alle pratiche edilizie, era giunto all’affermazione della penale responsabilità di Savino Montanarella per tutti i reati al medesimo ascritti, e, riuniti gli stessi nel vincolo della continuazione, lo aveva condannato alle pene di legge ed al risarcimento in forma generica dei danni cagionati alle parti civili Giuseppina Cutolo e Associazione Italia Nostra, disponendo altresì la demolizione dell’opera abusiva.
1.2. A seguito di rinnovazione della perizia, in appello affidata all’ing. Giuseppe Gorgoglione, e sulla scorta di quest’ultima – che aveva invece escluso le principali difformità in primo grado ritenute tra i progetti e le opere realizzate e le previsioni urbanistiche e aveva evidenziato l’irrilevanza di altre minori difformità ai fini della valutazione circa la sussistenza delle fattispecie incriminatrici - la Corte di appello di Bari ha totalmente riformato la sentenza di primo grado, assolvendo l’imputato da tutti reati al medesimo ascritti e revocando l’ordine di demolizione dell’opera.
2. Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso sia il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bari, sia la parte civile Giuseppina Cutolo, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3. Con i primi due motivi, il Procuratore generale ricorrente deduce i vizi di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla valutazione della perizia tecnica e violazione delle norme giuridiche in materia urbanistica con riguardo all’applicazione dell’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001 e degli artt. 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001. Sotto il primo profilo, si lamenta che la Corte d’appello non abbia indicato in modo specifico le ragioni che l’avevano indotta a condividere integralmente le conclusioni del perito ing. Gorgoglione e a disattendere le conclusioni della perizia effettuata in primo grado. Sotto il secondo profilo, si censura la decisione per aver escluso la sussistenza del reato di abuso edilizio (e delle contravvenzioni alla normativa antisismica) benché lo stesso perito Gorgoglione avesse riconosciuto almeno tre profili di non conformità del manufatto rispetto alle previsioni urbanistiche e al regolamento edilizio e si deduce l’erronea applicazione di un criterio illegale di calcolo delle altezze dell’edificio ricavato sulla scorta delle previsioni di cui all’art. 7, punto 7, commi 3 e 4, N.T.A., tra loro incompatibili, e ancorato a dati apparenti in tal modo ricavati (quali una linea di terra “ideale” e “pareti fittizie di riferimento”), anziché a dati certi ed oggettivi, nonché l’erroneità della considerazione al fine del calcolo del volume, in spregio alle previsioni delle N.T.A. e del Regolamento edilizio, dei soli volumi, incidenti sul carico urbanistico, riguardanti le parti destinate ad uso residenziale.
3.1. Con il terzo motivo il Procuratore generale deduce l’inosservanza e/o l’erronea applicazione dell’art. 323 c.p. e delle norme in materia urbanistica sulla legittimità dei titoli abilitativi, nonché la mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità delle motivazione in relazione a due questioni. In primo luogo, con riguardo all’affermazione secondo cui mancherebbe la prova di rapporti singolari o atipici tra Savino Montanarella ed i concorrenti Zelano e Mazzeo da cui poter desumere l’esistenza di accordi di natura illecita che potrebbero legittimare l’affermazione del contestato concorso in abuso d’ufficio con il pubblico ufficiale. Il ricorrente osserva, a tal proposito, che la prova del concorso si desumerebbe dalla manifesta illegittimità e abnormità dell’intervento edilizio e dalla prolungata inerzia dell’ufficio comunale, secondo quanto accertato in primo grado senza che la Corte d’appello abbia evidenziato carenze o aporie della motivazione del tribunale, limitandosi a sostituire una propria diversa ricostruzione del fatto a quella operata dal primo giudice. In secondo luogo, con riguardo alla riconosciuta non illegittimità dei titoli edilizi, si richiamano le censure più sopra illustrate sull’essersi la corte territoriale limitata ad aderire alle conclusioni del perito nominato in appello.
4. La parte civile Giuseppina Cutolo ha proposto cinque motivi di ricorso. Con il primo motivo si deduce l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza in relazione agli artt. 501, 508 cod. proc. pen. e 111 Cost. per avere la Corte d’appello rigettato, concluso l’esame del perito nominato in appello, la richiesta di acquisizione della relazione di consulenza tecnica di parte redatta dal proprio c.t., il quale aveva partecipato alle operazioni peritali, limitandosi ad acquisire memorie difensive.
4.1. Con un secondo motivo, si lamenta mancanza di motivazione sia con riguardo alla decisione di disporre la rinnovazione della perizia, sia con riguardo all’omessa indicazione dei motivi sottesi all’adesione alle conclusioni rassegnate dal perito nominato in appello. A quest’ultimo proposito, la parte civile – come il Procuratore generale – si duole del fatto che, a fronte di conclusioni peritali diametralmente opposte, la Corte d’appello, con formule di stile di circa la puntualità ed accuratezza del giudizio reso dal perito da essa nominato, abbia in toto aderito a tali valutazioni e conclusioni, operando un integrale rinvio per relationem a tale perizia (la quale non accennerebbe neppure agli esiti di quella svolta in primo grado), senza compiere un esame critico dei due, divergenti, elaborati. La motivazione della sentenza impugnata sarebbe dunque, sul punto, meramente apparente.
4.2. Con un terzo motivo, la parte civile ricorrente lamenta inosservanza e/o erronea applicazione di norme giuridiche di cui occorre tener conto nell’applicazione della legge penale in relazione ai criteri di calcolo delle altezze, dei volumi e del numero dei piani stabilite dalle N.T.A. del comune di Sant’Agata di Puglia e vizio di motivazione con riguardo all’interpretazione delle stesse N.T.A.
4.3. Con un quarto motivo si deduce inosservanza della legge penale e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’esclusione delle ipotesi di abuso d’ufficio oggetto di contestazione ai capi A) ed E) dell’imputazione.
Con riguardo al delitto contestato sub A), la parte civile ricorrente rileva come, trattandosi di interventi in variante che modificavano profondamente il progetto assentito con concessione edilizia n. 11/2003, si sarebbe dovuto procedere non con d.i.a. ma richiedendo il rilascio di un permesso di costruire. Sull’oggetto di tale contestazione la sentenza sarebbe del tutto silente.
Con riguardo al delitto contestato al capo E), relativo al rilascio del permesso di costruire del 30 luglio 2009, si pone in luce come lo stesso sarebbe stato illegittimo perché relativo ad opere già realizzate in forza delle due d.i.a. indicate al capo A).
Con riferimento ad entrambi i capi di imputazione, che contemplavano quale autonomo profilo di violazione di legge l’assenza del preventivo parere dall’Autorità di bacino, si lamenta l’erroneità della valutazione circa la non necessità del medesimo.
4.4. Con un quinto ed ultimo motivo si deduce inosservanza della legge penale e vizio di motivazione con riferimento all’assoluzione per le contravvenzioni previste dagli artt. 93-95 e 94-95 d.P.R. 380/2001 rispettivamente contestati ai capi I) e L) della rubrica. Benché la Corte d’appello abbia espressamente riconosciuto che gli elaborati progettuali per la realizzazione della variante sottotetto e di una rampa esterna, nonché la variazione della dimensione di alcuni pilastri, non erano presenti tra gli atti a suo tempo depositati al Genio Civile e furono presentati ed approvati soltanto successivamente, si sarebbe pervenuti ad assoluzione sull’erroneo assunto che – essendo state dette varianti definite come “non essenziali” dal Genio Civile – non vi sarebbe stato obbligo di comunicazione e autorizzazione preventiva, così violando la fattispecie di cui all’art. 95 d.P.R. 380/2001, che è reato di pericolo.
5. Con memoria depositata ai sensi dell’art. 611 cod. proc. pen. in data 10 novembre 2017, la difesa dell’imputato ha presentato osservazioni sui due ricorsi, chiedendone il rigetto e contestando specificamente tutti i punti fatti oggetto di doglianza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Appare pregiudiziale l’analisi di uno degli aspetti dedotti nel secondo motivo del ricorso della parte civile, vale a dire la censura circa l’omessa motivazione sulla rinnovazione peritale. Trattandosi di giudizio abbreviato, la ricorrente osserva che la rinnovazione istruttoria in appello potrebbe essere disposta soltanto per le acquisizioni documentali assolutamente indispensabili ai fini del decidere, dovendosi escludere la possibilità di ricorrere all’integrazione per far fronte a ordinarie lacune probatorie nel merito ed essendo inammissibile la rinnovazione della perizia sul mero presupposto che le conclusioni raggiunte dal primo perito non siano condivise dal giudice del gravame.
Il motivo è infondato.
Va al proposito premesso che è consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui in tema di giudizio abbreviato, al giudice di appello è consentito disporre d'ufficio i mezzi di prova – documentali e non - ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, potendo le parti solo sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice del gravame (Sez. 5, n. 11908/2016 del 23/11/2015, Rallo, Rv. 266158; Sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, Stasi, Rv. 258320). Ovviamente, la decisione di procedere, in tali casi, alla rinnovazione dell’istruzione deve essere specificatamente motivata, occorrendo dar conto dell'uso del potere discrezionale, derivante dalla maturata consapevolezza circa la rilevanza dell'acquisizione probatoria (Sez. 6, n. 5782 del 18/12/2006, Gagliano, Rv. 236064).
Nel caso di specie, la ricorrente osserva come – sia nell’ordinanza pronunciata nel giudizio d’appello, sia nella sentenza – il giudice abbia motivato la ritenuta necessità di rinnovare la perizia “in ragione dell’oggettiva contraddittorietà (nonché della scarsa persuasività, sotto i profili che saranno nel prosieguo messi in rilievo) delle valutazioni e conclusioni formulate dai tecnici (consulenti delle parti ed ausiliario del giudice) occupatisi della vicenda in primo grado”. La motivazione – reputa il Collegio – è adeguata e logica, essendo innanzitutto indiscutibile che la perizia tecnica abbia costituito, anche in primo grado, l’atto istruttorio determinante per la decisione del caso e non essendo parimenti dubbio che sui punti qualificanti dell’accertamento peritale vi fosse oggettiva contraddittorietà tra le conclusioni del perito e dei consulenti di parte; in secondo luogo, diversamente da quanto allegato dalla parte civile ricorrente, nella motivazione della sentenza si evidenziano diversi profili circa la ritenuta “scarsa persuasività” della perizia dell’ing. Munafò (cfr. i rilievi a proposito della ritenuta esclusione della superficie della strada ai fini dell’individuazione della cubatura edificabile a p. 52, nt. 10, ovvero sull’utilizzabilità del criterio di calcolo delle altezze a p. 56, nt. 20). Deve inoltre aggiungersi che la necessità della rinnovazione dell’istruzione non è stata questione dibattuta nel giudizio d’appello, essendo la richiesta stata sollecitata dal Procuratore generale e non essendovi stata opposizione di alcuna delle parti (come si legge a p. 44 della sentenza, sul punto non contestata).
2. Quanto al primo motivo del ricorso proposto dalla parte civile, lo stesso è inammissibile, perché manifestamente infondato e comunque generico.
Questa Corte - sia pur con riguardo al disposto di cui all’art. 507 cod. proc. pen., ma la questione è analoga - ha già affermato che nel caso di assunzione di ufficio di nuovi mezzi di prova è riconosciuto alle parti il diritto alla prova contraria, la cui istanza di ammissione integra a tutti gli effetti una richiesta ai sensi dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., con l’avvertenza che ai fini del vaglio dell’ammissibilità della stessa sotto il profilo della non manifesta superfluità o irrilevanza ai sensi dell'art. 190 cod. proc. pen., la parte istante ha l'onere di indicare specificamente i temi sui quali verte la controprova richiesta, atteso che quest'ultima, a differenza di quella articolata su temi indicati dalle parti, deve riferirsi ai fatti sui quali il giudice ha ritenuto indispensabile il supplemento istruttorio ai fini della decisione (Sez. 5, n. 28597 del 07/04/2017, Pennestrì e a., Rv. 270242). Nel caso di specie, quest’ultimo requisito poteva ritenersi soddisfatto, essendo evidente che la relazione del c.t. di parte di cui si chiedeva l’acquisizione a seguito della rinnovazione della perizia aveva ad oggetto i temi in quest’ultima trattati.
Il punto è – osserva il Collegio - che a fronte della mancata ammissione di una prova, la legge ammette il ricorso per cassazione soltanto se questa sia decisiva e, secondo un consolidato orientamento, neppure la mancata effettuazione di un accertamento peritale può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove la norma citata, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A. e a., Rv. 270936). Se, dunque, non è decisiva la perizia, non può esserlo neppure la consulenza tecnica di parte, tanto più che i temi tecnici affrontati dal perito nominato dalla Corte d’appello erano i medesimi già trattati in primo grado e sui quali la parte civile aveva già avuto modo di interloquire. Del resto, la ricorrente non allega neppure – ed in ciò il motivo è generico – per quali ragioni la consulenza tecnica di parte che si intendeva produrre in appello avrebbe avuto carattere di decisività e, nel quadro descritto, può ragionevolmente escludersi che così potesse essere, posto che deve ritenersi decisiva, secondo la previsione dell'art. 606, 1° co., lett. d) cod. proc. pen., la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323).
3. Sono invece fondati, nei limiti di cui si dirà, i primi due motivi del ricorso del Procuratore generale e il residuo aspetto del secondo motivo nonché il terzo motivo del ricorso della parte civile, da trattarsi congiuntamente stante la sovrapposizione degli stessi. Nella sentenza impugnata sono di fatti riscontrabili sia vizi di motivazione, sia violazione di norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale quali certamente sono, nel caso di specie, le previsioni urbanistiche contenute nelle Norme Tecniche di Attuazione (d’ora in avanti, N.T.A.) e nel regolamento edilizio del Comune di Sant’Agata di Puglia.
Va premesso che secondo consolidati principi di diritto che vanno qui ribaditi, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di condanna pronunciata in primo grado, nella specie pervenendo a una sentenza di assoluzione, deve, sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie che ne giustificano l'integrale riforma (Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu e a., Rv. 261327). In sostanza, in caso di riforma, in senso assolutorio, della sentenza di condanna di primo grado, sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, il giudice d’appello è tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte (Sez. 4, n. 4222/2017 del 20/12/2016 Ud., Mangano e a., Rv. 268948; v. anche Sez. 3, n. 43242 del 12/07/2016, C.P.M., Rv. 267626). Quando – come nel caso di specie – le ragioni dell’integrale riforma siano riconducibili ad una diversa valutazione tecnica dei medesimi elementi di fatto che il perito nominato in grado d’appello abbia dato rispetto a quello nominato in primo grado, quest’onere di motivazione rafforzata implica la necessità che il secondo perito, ovvero il giudice d’appello che ritenga di fare proprie le sue considerazioni, spieghi perché le diverse valutazioni date dal primo perito e recepite dal giudice di prime cure non siano condivisibili, essendo carente la motivazione della sentenza d’appello che si limiti a sostituire queste ultime con quelle di opposto segno senza confrontarsi criticamente con le prime e senza convincentemente spiegare perché le stesse siano a queste preferibili e debbano dunque condurre all’integrale riforma della sentenza emessa in primo grado e fondata sulla perizia in allora svolta.
Nella vicenda in esame, reputa il Collegio che siano fondate le censure mosse da entrambi i ricorrenti per vizio di motivazione e violazione di norme giuridiche di cui deve tenersi conto nell’applicazione della legge penale con riferimento al giudizio sulla conformità dei lavori eseguiti alle previsioni urbanistiche e regolamentari date dal perito ing. Gorgoglione (e acriticamente recepite dalla Corte d’appello), in difformità da quelle date dal perito ing. Munafò e recepite nella sentenza di primo grado, quantomeno con riguardo ai profili delle altezze, dei volumi e del numero dei piani.
3.1. Con riguardo al primo dei menzionati profili, l’art. 7.7 N.T.A. – integralmente riportato a p. 50 della sentenza impugnata – prevede, per quanto qui rileva, che:
- «l’altezza delle pareti di un edificio non può superare i limiti fissati per le singole zone dal PRG e da particolari norme vigenti, ad eccezione dei soli volumi tecnici» (comma 1) [deve inoltre rammentarsi che l’altezza massima edificabile nella Zona parzialmente edificata B, in cui ricade il fabbricato in esame, è fissata, dal successivo art. 16 N.T.A., in m. 10,80, aumentabile al massimo di due metri per gli eventuali volumi tecnici];
- «l’altezza di una parete esterna è la distanza verticale misurata dalla linea di terra (definita, per gli edifici allineati a filo strada, dal ciglio del marciapiede o, in mancanza del piano stradale, dal piano di sistemazione esterna dell’edificio, se arretrato dal filo stradale) alla linea di copertura….» (comma 2);
- «laddove le linee suddette non siano orizzontali si considera la parte scomposta in elementi quadrangolari e triangoli, o multilinei, e per ogni elemento si considera la media delle altezze, la maggiore di tali altezze, per ciascuno degli elementi di cui sopra, non potrà però superare del 20% né di due metri, l’altezza massima consentita» (comma 3);
- «l’altezza di una parete in ritiro è misurata dalla linea di terra ideale che si ottiene collegando i due punti nei quali il piano della parete incontra il perimetro esterno dell’edificio in corrispondenza del piano stradale o di sistemazione esterna o, in mancanza, il piano di raccordo tra le due strade o sistemazioni esterne più vicine» (comma 4).
Avallando l’interpretazione della citata disposizione data dal perito ing. Gorgoglione, la Corte d’appello ha ritenuto che nel caso di fabbricati, come quello in esame, realizzati non su suolo pianeggiante ma completamente su un pendio al di sotto della strada pubblica l’altezza andrebbe calcolata ai sensi dell’art. 7.7, commi 3 e 4, N.T.A., vale a dire, da un lato, scomponendo l’edificio in elementi quadrangolari, triangolari o multilinei, d’altro lato calcolando l’altezza media di tali elementi con riferimento ad una linea di terra ideale ottenibile collegando i due punti nei quali il piano della parete incontra il perimetro esterno dell’edificio in corrispondenza del piano stradale o di sistemazione esterna, ovvero, in mancanza, il piano di raccordo fra le due strade o sistemazioni esterne più vicine. Il perito ha così individuato sei “pareti ideali”, verificando che l’altezza media di esse non superava mai i mt. 12,80. Questo criterio – si legge in sentenza (alla già citata nt. 20 a p. 56) – sarebbe preferibile rispetto a quello utilizzato dall’ing. Munafò nella perizia effettuata in primo grado, poiché quest’ultimo, avendo misurato l’altezza dell’edificio tra il punto in cui la linea orizzontale che parte dal punto di alto del fabbricato incontra ad angolo retto la linea verticale che parte dal punto più basso del fabbricato, quantificandolo così in poco più di 30 mt., sommerebbe le pareti dei due corpi di fabbrica, quello a monte e quello a valle, in cui l’edificio si scompone: secondo il giudice d’appello questo «criterio di calcolo (che porta quasi a traslare i corpi di fabbrica a monte, posizionandoli idealmente su quelli a valle) appare non rispondente all’art 7 punto 7) N.T.A. (come persuasivamente chiarito dal perito Gorgoglione nel suo elaborato scritto nonché dinanzi alla Corte all’udienza del giorno 08/04/2016)».
Questa motivazione – che richiama “persuasive ragioni” che appaiono imperscrutabili (la sentenza, di fatti, non riporta né le dichiarazioni rese dal perito all’indicata udienza, né i rilievi – magari la pagina – dell’elaborato scritto) – è meramente apparente, tale essendo quella che si limiti ad indicare le fonti di prova del convincimento del giudice, senza contenere la valutazione critica ed argomentata degli elementi su cui il medesimo si fonda (Sez. 3, n. 49168 del 13/10/2015, Santucci, Rv. 265322). Per altro verso, il cervellotico criterio adottato “combinando” le due prescrizioni di cui ai commi 3 e 4 dell’art 7.7. N.T.A., che individua delle “pareti ideali”, appare - oltre che sfuggente e tutt’altro che chiaro – incompatibile con il disposto normativo e contrario alla ratio che evidentemente lo ispira, che è quella di porre un limite, peraltro piuttosto contenuto (vale a dire, al massimo, mt. 12,80) all’altezza degli edifici nel piccolo paese di Sant’Agata di Puglia, i cui amministratori, nell’individuare i criteri costruttivi, hanno evidentemente inteso delineare uno sviluppo urbanistico del territorio che impedisse la costruzione di manufatti di notevoli dimensioni. In sostanza il giudice di appello ed il perito da esso nominato hanno creato un nuovo criterio di calcolo delle altezze che l’art. 7.7 N.T.A. non prevede e che consentirebbe, nel caso di costruzione su pendio, di edificare manufatti che si sviluppino ininterrottamente in altezza per decine e decine di metri, purché l’altezza media delle singole “pareti ideali” in tal modo ricavabili non superi mt. 12,80. L’illogicità di tale criterio e il suo insanabile contrasto con la lettera e la ratio della previsione urbanistica citata appaiono di palmare evidenza: nella specie la sua applicazione ha condotto a ritenere rispettato il limite massimo di altezza dei fabbricati di mt. 12,80 per un edificio che si sviluppa verticalmente lungo un pendio per ben nove piani parzialmente sovrapposti. Né rileva il fatto, rimarcato in sentenza, che il fabbricato insiste sul pendio sottostante alla Via XXIV Maggio, sia perché se quello fosse il criterio da adottarsi per calcolare le altezze dei fabbricati costruiti sui pendii lo si dovrebbe applicare pure se il medesimo insistesse su un pendio collocato a monte della pubblica via, sia perché non si può valutare l’impatto urbanistico di una costruzione scegliendo un punto di osservazione arbitrariamente individuato (nel caso della sentenza impugnata: quello di chi si trovi sulla Via XXIV Maggio) piuttosto che quello, corretto, del piano di campagna antistante la base del fabbricato ed in cui il medesimo si apprezza in tutto il suo sviluppo verticale.
L’errore interpretativo di fondo – che neppure i rilievi della parte civile colgono appieno – sta nell’aver utilizzato (non già il criterio delle pareti in ritiro di cui all’art. 7.7, comma 4, N.T.A., ma) il criterio di cui all’art. 7.7, comma 3, N.T.A. Come lo disposizione chiaramente statuisce, esso riguarda il caso in cui una costruzione insiste bensì lungo un piano inclinato, ma in senso orizzontale e non (come nella specie) in senso verticale; ovvero riguarda il caso in cui l’edificio poggia su una linea di terra pianeggiante (e quindi orizzontale), mentre tale non è, per le particolarità architettoniche del manufatto, quella di copertura; o, ancora, abbia una linea di copertura orizzontale mentre tale non è quella di terra perché l’edifico appoggia su un piano inclinato. Solo così si giustifica la ideale scomposizione del fabbricato in elementi quadrangolari, triangolari o multilinei, onde verificare le altezze per ciascuno di essi facendone poi la media, media che dovrà rispettare il limite massimo di mt. 10,80 (salva la deroga per i volumi tecnici) con l’ulteriore limite che, in ogni caso, l’altezza di ogni singolo elemento non deve superare mt. 12,80. La scomposizione dell’edificio in elementi di cui parla la norma, cioè, è una scomposizione orizzontale e non già una scomposizione verticale, che, invece, porta – come fatto nella decisione impugnata – a legittimare costruzioni in altezza potenzialmente infinite.
Per contro, appare invece corretto il criterio utilizzato dal perito di primo grado ing. Munafò e che effettivamente conduce – non prevedendo l’art. 7.7. N.T.A. un diverso criterio di calcolo delle altezze per gli edifici che si sviluppino verticalmente sui pendii – a calcolare, e sommare, le altezze di tutte le pareti dei livelli di fabbricato (sia pur parzialmente) sovrapposti. Non rileva, poi, il fatto che il fabbricato si trovi pressoché integralmente al di sotto del piano della Via XXIV Maggio, posto che l’art. 7.7, comma 1, N.T.A. prevede espressamente che per gli edifici non allineati a filo strada, l’altezza si calcoli dal piano di sistemazione esterna dell’edificio. Quanto al rilievo – contenuto nella memoria difensiva depositata nell’interesse dell’imputato – secondo cui questo criterio sarebbe connotato da inaccettabile discrezionalità poiché avrebbe portato l’ing. Munafò a individuare tre o quattro diverse linee di terra, a parte il fatto che in tutti i casi l’altezza massima risulta di gran lunga superata, si tratta di un problema di fatto che nella fattispecie era ricollegato alla mancata sistemazione del terreno alla base dell’edificio e che non intacca invece la correttezza e oggettività del criterio di calcolo previsto dalla norma urbanistica ed erroneamente disatteso dal giudice d’appello.
3.2. Quanto al calcolo del volume, richiamandosi le previsioni di cui all’art. 7.8 N.T.A. e 27.11 del Regolamento edilizio, nel ricorso della parte civile ci si duole del fatto che si sarebbe dovuto tener conto di tutti i volumi che emergono dal terreno sistemato, indipendentemente dalla loro destinazione d’uso, laddove la corte territoriale – aderendo anche in questo caso all’interpretazione dell’ing. Gorgoglione – avrebbe considerato soltanto i volumi produttivi di carico urbanistico, individuati come quelli aventi destinazione d’uso residenziale. Sarebbero quindi stati indebitamente esclusi dal computo dei volumi il c.d. “sottotetto di valle” (dal giudice d’appello ritenuto caratterizzato da ambienti non abitabili nonostante quei locali fossero dotati di impianti tecnologici, servizi igienici e finiture identiche a quelli degli immobili adibiti a residenza) ed i piani seminterrati adibiti a parcheggio, e ciò in base all’errato richiamo all’art. 9 della legge 24 marzo 1989, n. 122 (c.d. legge Tognoli), che – osserva la ricorrente - consentirebbe la deroga agli strumenti urbanistici esclusivamente per la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza delle costruzioni già esistenti e non anche per i parcheggi delle nuove costruzioni, regolate invece dall’art. 2 della stessa legge.
Tale doglianza è fondata.
L’art. 7.8 N.T.A. (riprodotto a p. 57 della sentenza impugnata) stabilisce che è considerato volume «quello del manufatto edilizio o dei manufatti edilizi che emergono dal terreno sistemato secondo il progetto approvato, con esclusione dei volumi porticati se destinati ad uso collettivo. E’ compreso, però, il volume relativo al parcheggio obbligatorio ai sensi delle leggi vigenti (7) se coperto». La sentenza impugnata osserva che l’indicazione, tra parentesi, del numero 7 rimandava ad un elenco delle leggi vigenti al momento della redazione del P.R.G., tra cui non figurava – perché successivamente approvata – la legge n. 122/1989, la quale, si osserva, oltre ad aver modificato il rapporto tra parcheggi obbligatori e volume delle nuove costruzioni (stabilito in almeno 1 mq. a fronte di 10 mc. dal nuovo testo dell’art. 41-sexies legge 17 agosto 1942, n. 1150, sostituito dall’art. 2, comma 2, della legge Tognoli), avrebbe consentito, all’art. 9, comma 3, l’esecuzione di parcheggi da destinare a pertinenza delle abitazioni anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, sicché gli stessi non potrebbero più essere considerati ai fini del calcolo dei volumi. L’interpretazione e la conclusione sostenute in sentenza – ad avviso del Collegio – sono errate.
Ed invero, la disposizione richiamata – che è l’art. 9, comma 1, e non comma 3, della legge 122/1989 – stabilisce, per quanto qui rileva (l’evidenziazione in corsivo è aggiunta per enfasi), che «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti». Letta unitamente all’art. 41-sexies legge 1150/1942 – secondo cui nelle nuove costruzioni debbono essere riservati gli spazi obbligatori di parcheggio ivi indicati – questa norma significa soltanto che la deroga agli strumenti urbanistici per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in linea con le finalità della legge, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare detti spazi e purché i nuovi parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno degli edifici. Non significa, invece, che i parcheggi pertinenziali obbligatori che debbono essere realizzati nelle nuove costruzioni ai sensi dell’art. 41-sexies legge 1150/1942 possano derogare agli strumenti urbanistici, giacché – se questa fosse stata l’intenzione del legislatore – la possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente in quella disposizione. Semmai, il combinato disposto degli artt. 41-sexies legge 1150/1942 e 9, comma 1, legge 122/1989 può consentire, anche nelle nuove costruzioni, l’esecuzione di parcheggi in deroga alle norme urbanistiche e quindi, per quanto qui rileva, dei volumi realizzabili, soltanto se ulteriori a quelli obbligatori. Avendo, dunque, il Comune di Sant’Agata di Puglia legittimamente deciso di considerare i parcheggi coperti (non interrati) ai fini del calcolo del volume massimo edificabile – e non essendo detta previsione incompatibile con la successiva legge Tognoli – quei volumi si sarebbero dovuti computare quantomeno con riferimento alla quota-parte di parcheggi obbligatori richiesti dall’art. 41-sexies legge 1150/1942 rispetto al restante volume dell’edificio, potendosi soltanto escludere, ai sensi dell’art. 9, comma 1, legge 122/1989 – sempre che collocati nel sottosuolo o al piano terreno - i volumi degli eventuali ulteriori parcheggi realizzati in aggiunta a quelli obbligatori, per i quali varrebbero le limitazioni di trasferimento previste dall’art. 9, comma 5, legge 122/1989, disposizione che, facendo espressamente salva la previsione di cui all’art. 41-sexies legge n. 1159/1942, conferma come la speciale disciplina valga soltanto per i parcheggi diversi da quelli obbligatori. La giurisprudenza amministrativa, peraltro, è consolidata nell’affermare che la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, sez. IV, n. 4645 del 26/09/2008; Cons. Stato, sez. IV, n. 6065 del 11/11/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 1608 del 29/03/2006; Cons. Stato, sez. V, n. 1662 del 29/03/2004; TAR Lazio, sede di Roma, sez. I, n. 3259 del 16/04/2008; TAR Campania, sez. II, n. 15731 del 23/06/2010).
Né può condividersi la (nuova) tesi interpretativa affacciata nella memoria depositata nell’interesse dell’imputato secondo cui dovrebbe ritenersi inapplicabile (o comunque implicitamente abrogata) la disposizione di cui all’art. 7.8 N.T.A. a seguito dell’entrata in vigore della c.d. legge Tognoli, sul rilievo che l’art. 11 di tale legge avrebbe trasformato la natura giuridica dei parcheggi da mere opere pertinenziali ad opere di urbanizzazione escluse dal calcolo di onerosità ai fini del rilascio del permesso di costruire e, dunque, dalla suscettibilità d’essere considerati ai fini della volumetria. E’ ben vero, di fatti, che, nel prevedere che «le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28 gennaio 1977, n. 10» - disposizione, quest’ultima, abrogata dall’art. 136, comma 2, lett. c), d.P.R. 380/2001 e testualmente riprodotta nell’art. 17, comma 3, lett. c), del medesimo testo unico - l’art. 11, comma 1, legge 122/1989 esclude i parcheggi obbligatori dal calcolo degli oneri di concessione (cfr. Cons. Stato, n. 6154 del 22/11/2011), ma il beneficio economico, che si giustifica per la ritenuta finalità di interesse pubblico che i parcheggi (pur privati) assolvono, non incide invece sulla disciplina degli standards urbanistici, la quale risponde ad altre finalità. Salva diversa previsione, infatti, le opere indicate nell’art 17, comma 3, d.P.R. 380/2001 devono rispettare gli standards urbanistici, ivi compresi i limiti di cubatura edificabile.
Parimenti censurabile, a fronte del chiaro disposto di cui all’art. 7.8 N.T.A. è la apodittica asserzione – che la sentenza impugnata mutua dalla relazione del perito ing. Gorgoglione – secondo cui nel calcolo dei volumi dovrebbe tenersi conto della «definizione di “volume insediato” condivisa dalla letteratura tecnica (secondo cui il volume insediato è quello che produce “carico urbanistico”, nel caso de quo riconducibile alla destinazione d’uso residenziale)», ciò che nella situazione in esame, come si comprende dalla relazione dell’ing. Gorgoglione a cui la sentenza fa rinvio, ha determinato la mancata considerazione addirittura di un piano di fabbricato emergente dal terreno, vale a dire il c.d. sottotetto di valle, sul rilievo che i locali (che lo steso perito riconosce essere dotati di servizi, come la parte civile ricorrente ha indicato) non potrebbero ottenere l’agibilità ai fini abitativi. Come si diceva, diversamente dalla non meglio identificata “letteratura tecnica” che fonda la conclusione (del perito e) della Corte d’appello, la norma urbanistica, contemplando addirittura i parcheggi coperti, certo non limita la considerazione dei volumi ai soli ambienti che potrebbero essere ritenuti abitabili.
3.3. Quanto, da ultimo, al numero dei piani, la parte civile ricorrente lamenta che la Corte si sarebbe limitata a concludere come essi non siano superiori a tre, indicandosi come interrati i piani del corpo di fabbrica a valle, laddove i piani fuori terra – escludendo i seminterrati - sarebbero invece sette, come precisato nella memoria di parte civile in atti senza che tali argomentazioni siano state confutate.
In effetti, al punto in questione la sentenza impugnata dedica (a p. 58) una laconica ed assertiva chiosa alla relazione peritale ed alle dichiarazioni rese dal perito nell’esame: «il perito Gorgoglione ha coerentemente concluso affermando: che “dai rilievi planimetrici e dai profili rilevati si evince che il numero dei piani si identifica con quelli abitabili” sicché “il numero massimo di piani fuori terra non è superiore a tre, nel rispetto del R.E. e delle N.T.A.” e ciò sia nei corpi di edificio a monte sia nei corpi di edificio a valle, come precisato in udienza». Posto che nulla aggiunge l’espresso richiamo alla pp. 64 e 75 della relazione peritale effettuato in nt. 25 a p. 58 della sentenza – l’ing. Gorgoglione si limita, invero, a scrivere quanto riportato dalla Corte d’Appello – la conclusione è incomprensibile e manifestamente illogica tenendo conto del fatto che il fabbricato, come già osservato e come dettagliatamente indicato nella stessa relazione del perito nominato in secondo grado, si articola in ben nove livelli sovrapposti, nessuno dei quali risultava completamente interrato. Dalla riportata affermazione sembrerebbe comprendersi che la corte territoriale abbia scomposto l’edificio, ai fini del giudizio sul rispetto della norma urbanistica in esame, in due (o forse quattro) corpi di fabbrica distinti, ma – a fronte del diverso accertamento effettuato in primo grado, la cui sentenza (integralmente riportata in quella impugnata) dà atto che il fabbricato era da considerarsi unico e composto di nove piani – non si spiega come sia possibile giungere ad avallare la conclusione del perito. Al proposito, premesso che il numero dei piani nella specie non poteva superare i tre, giusta la previsione di cui all’art. 16 N.T.A., l’art. 7.9 N.T.A. impone di computare «il numero dei piani fuori terra, compreso l’eventuale piano di ritiro (attico) ed il seminterrato, se abitabile ai sensi del Regolamento edilizio». Posto che dei nove piani di cui si compone l’edificio (v. tabella a p. 60 della relazione peritale dell’ing. Gorgoglione) soltanto gli ultimi due piani seminterrati (definiti 4° e 5° livello interrato) non erano adibiti ad abitazione, risultano altri sette piani abitabili e/o fuori terra, di cui quattro – tutti fuori terra - nel corpo di fabbrica a monte. La conclusione del rispetto di tale parametro urbanistico cui sono giunti il perito e la Corte d’appello – quand’anche si volesse separatamente considerare i due corpi di fabbrica a valle e a monte - appare dunque contraddittoria e manifestamente illogica (quantomeno, nell’eventualità poco sopra descritta, per il corpo di fabbrica a monte).
4. Le censurabili valutazioni della sentenza impugnata di cui si è dato conto supra, sub n. 3 incidono sul giudizio circa la sussistenza del reato urbanistico contestato al capo h) e dei delitti di abuso d’ufficio contestati ai capi a) e b).
4.1. Quanto alla contravvenzione urbanistica, la conclusione è evidente. La contestazione, di fatti, muove dall’assunto secondo cui deve considerarsi avvenuta in assenza di titolo edilizio – e dunque riconducibile al reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001 – l’attività edificatoria realizzata sulla base di titoli illeciti o macroscopicamente illegittimi, quali nella specie ben potrebbero essere la concessione edilizia n. 11/2003, le d.i.a. del 29.7.2008 e 3.2.2009 ed il permesso di costruire in variante prot. 6641 del 30.7.2009 se fossero ritenuti sussistenti i contestati profili di macroscopica illegittimità più sopra analizzati con riguardo all’edificazione di un numero di piani ben superiore a quello consentito ed all’edificazione di volumi assai più consistenti di quelli massimi previsti (il capo h – a differenza dei capi a e b – non considera invece il profilo relativo alle altezze).
Che il reato urbanistico in parola sussista laddove il permesso di costruire – pur formalmente rilasciato – sia illecito perché frutto di attività criminosa (nella specie, quanto al permesso di costruire in variante, è contestato l’abuso d’ufficio in concorso tra Savino Montanarella ed il suo progettista Carmelo Mazzeo ed il responsabile dell’ufficio tecnico comunale Giovanni Zelano) ovvero anche soltanto macroscopicamente illegittimo è conclusione affermata da consolidata giurisprudenza di legittimità che qui non viene neppure contestata (cfr., di recente, Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, Cervino e a., Rv. 263916). Si consideri, al proposito, che il permesso di costruire in variante rilasciato il 30.7.2009 aveva in particolare ad oggetto la realizzazione di un ulteriore piano, sicché – anche a voler prescindere dal fatto che lo stesso non avrebbe aumentato la volumetria qualora fossero state osservate le prescrizioni al proposito effettuate dall’Ufficio Tecnico Comunale, vale a dire la demolizione di alcuni muri perimetrali e la destinazione del nuovo piano quale porticato ad uso collettivo – certamente incrementava ulteriormente l’altezza ed il profilo di difformità dalle norme urbanistiche quanto al numero dei piani edificabili.
Quanto, poi, alle d.i.a., trattandosi di lavori in variante rispetto a quelli autorizzati con la concessione edilizia n. 11/2003, pure questi si collocavano nel solco di quelli originari e – parzialmente incidendo sia sui volumi, sia sulle altezze – ne postulavano (una nuova verifica ai fini di accertare) la conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente (v. art 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, sul punto non mutato con la sostituzione operata dall’art 1, comma 1, lett. f, n. 2, d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222). Conformità che, per quanto sopra detto, era palesemente assente, soprattutto con riferimento alla d.i.a. del 29 luglio 2008, che incideva in modo pesante sul progetto. Oltre a ciò – sempre con maggiore evidenza in quella da ultimo menzionata - difettavano pure i requisiti previsti dall’art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, posto che è possibile effettuare con d.i.a. (oggi s.c.i.a.) lavori in variante a permessi costruire soltanto se si tratti delle c.d. “varianti leggere”, vale a dire quelle che, oltre a non violare eventuali prescrizioni contenute nel permesso, «non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni» (le parole in corsivo sono state aggiunte dall’art. 30, comma 1, lett. e, d.l. 21 giugno 2013, n 69, conv., con modiff., nella legge 9 agosto 2013, n. 98, sicché all’epoca dei fatti per cui è processo il requisito della non alterazione della sagoma era richiesto per qualsiasi tipo di edificio). Ed invero, la stessa sentenza impugnata, richiamando le valutazioni del perito nominato in secondo grado, dà atto (v. pp. 84 s. e pp. 87-92 relazione peritale ing. Gorgoglione cui si fa espresso rinvio) che la prima d.i.a. in variante:
apportava modifiche alla sagoma del fabbricato nel corpo di monte a Nord (non rilevando ai fini di escludere la natura di variante “pesante” di tale modifiche e la necessità che fossero assentite con permesso di costruire il fatto che le stesse sarebbero state necessarie per assicurare il rispetto delle distanze tra il fabbricato e la villetta comunale oggetto di generiche prescrizioni riportate a penna sulle tavole allegate al progetto originario, approvato con la concessione edilizia del 2003);
incideva sulla volumetria (sia pur apparentemente riducendola, ma sempre senza ricondurla nell’ambito di quella effettivamente realizzabile sulla base delle previsioni urbanistiche correttamente interpretate);
introduceva significative modifiche alle distribuzioni interne degli spazi, modificandone la destinazione d’uso.
La Corte d’appello (p. 100 sentenza) dà altresì atto che le due denunce d’inizio attività ed il permesso di costruire in variante sono successivi all’approvazione, avvenuta dopo il rilascio della concessione edilizia originaria, del Piano di Assetto Idrogeologico, e ciò nondimeno per nessuna di dette opere fu richiesto l’obbligatorio parere preventivo dell’Autorità di bacino: un’altra palese difformità sia delle d.i.a. sia del permesso di costruire alle previsioni urbanistiche che la Corte territoriale supera con l’argomentazione, manifestamente illogica, secondo cui, trattandosi di varianti che non comportavano aumento di volumetria, le stesse non avrebbero inciso sull’assetto idrogeologico del suolo. Ed invero – a prescindere dal fatto che l’aumento di volumetria è soltanto uno dei potenziali parametri da prendersi in considerazione per quel giudizio - così motivando la Corte territoriale ha arbitrariamente sostituito la propria valutazione a quella riservata invece all’Autorità di bacino, a cui debbono essere sottoposti tutti i progetti che anche solo potenzialmente incidono sull’assetto idrogeologico del suolo, quale certamente era l’ampia modifica del progetto originario oggetto della d.i.a. presentata nel 2008 (nella sentenza di primo grado riportata dalla sentenza impugnata a pag. 29 si parla di realizzazione di nuovi terrazzamenti prospicienti la villetta comunale, della costruzione di una seconda rampa di accesso ai box auto del primo piano interrato, della realizzazione di una piccola cappella, della previsione di un nuovo livello per box auto nel corpo di fabbrica a monte, con realizzazione di un solaio tra due dei piani interrati) e la costruzione di un ulteriore piano, il nono, sulla sommità del fabbricato, piano porticato destinato ad uso collettivo e, pertanto, al calpestio di un numero potenzialmente elevato di fruitori.
Questi lavori, dunque, da un lato non si sarebbero potuti fare con d.i.a. in variante, essendo invece necessario procedere con permesso di costruire, ciò che – al di là del diverso, e più garantito, iter amministrativo - avrebbe imposto di riconsiderare l’intero progetto alla luce delle previsioni delle norme tecniche di attuazione al P.R.G. e regolamentari più sopra illustrate e di bloccare le attività edificatorie essendo il manufatto palesemente contrario alla disciplina urbanistica sostanziale. D’altro lato, per le stesse ragioni, non avrebbero dovuto condurre al rilascio del permesso di costruire in variante del 30.7.2009. Si trattò, dunque, di lavori eseguiti in forza di titoli edilizi manifestamente contra legem, da considerarsi quindi in assenza di permesso di costruire con conseguente integrazione del reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001. La sentenza impugnata, che – pur dando atto dei suddetti profili di contrasto quantomeno della d.i.a. presentata nel 2008 con l’art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001 – non si cura di trarne le dovute conseguenze e, a fronte delle corrette valutazioni al proposito fatte nella sentenza di primo grado, laconicamente afferma che «appare mancante e/o comunque contraddittoria la prova della loro illegittimità» incorre dunque certamente in violazione di legge e vizio di motivazione.
4.2. Le argomentazioni svolte al punto che precede rendono altresì ragione degli analoghi vizi che affliggono il provvedimento impugnato in relazione al giudizio assolutorio pronunciato con riguardo al concorso nei delitti di abuso d’ufficio di cui ai capi a) ed e) di imputazione, relativi, il primo, al non aver il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale Zelano notificato a Montanarella, ai sensi dell’art. 23, comma 6, d.P.R. 380/2001, l’ordine motivato di non effettuare i lavori oggetto delle due d.i.a. contra legem e, il secondo, all’aver rilasciato l’illegittimo permesso di costruire in variante del 30 luglio 2009. La Corte d’appello, di fatti, ha escluso la sussistenza dei contestati reati – oltre che richiamando giurisprudenza di legittimità che impone comunque la prova di rapporti singolari o atipici tra il privato (nella specie, Montanarella per il tramite del professionista di fiducia Mazzeo) e il pubblico ufficiale (Zelano) che violando norme di legge o regolamento avrebbe procurato al primo un ingiusto vantaggio patrimoniale – anche osservando come, in radice, non sussistesse l’abuso d’ufficio proprio per la legittimità e conformità alle previsioni urbanistiche e regolamentari della concessione edilizia originaria, delle d.i.a. e del permesso di costruire in variante. Trattandosi di presupposto erroneo, occorre dunque riconsiderare anche la sussistenza dei reati di cui all’art. 323 cod. pen., onde verificare se la macroscopica illegittimità degli atti e la loro reiterazione possano fornire prova logica della collusione, come ritenuto nella sentenza di primo grado.
5. Del pari fondate sono le doglianze dei ricorrenti – e della parte civile specialmente - relative all’assoluzione dalle contravvenzioni in materia di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, quale pacificamente è il comune di Sant’Agata di Puglia, previste dagli artt. 93-95 e 94-95 d.P.R. 380/2001 rispettivamente contestati ai capi i) e l) della rubrica. La Corte territoriale, invero, ha riconosciuto che gli elaborati progettuali per la realizzazione della rampa esterna di cui alla d.i.a. del 29 luglio 2008 e del piano sottotetto di cui al permesso di costruire in variante del 30 luglio 2009, nonché la variazione della dimensione di alcuni pilastri, non erano presenti tra gli atti a suo tempo depositati al Genio Civile e furono tardivamente presentati, dopo l’esecuzione delle opere, soltanto il 25 settembre 2009 ed approvati il 31 marzo 2010. Il giudice d’appello, tuttavia, ha assolto l’imputato sul rilievo che l’Ufficio del Genio Civile aveva approvato i progetti osservando che i trattava di varianti “non sostanziali”, sicché le stesse, non comportando un mutamento dell’impatto statico del manufatto, non sarebbero state soggette al deposito preventivo del progetto, potendo invece essere presentate successivamente prima della fine dei lavori.
Detto rilievo – in alcun modo motivato in diritto – è indubbiamente errato e contrario al chiaro principio espresso nell’art. 93, comma 1, d.P.R. 380/2001, secondo cui nelle zone sismiche «chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico», non potendo iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico regionale a norma del successivo art. 94, comma 1, d.P.R. 380/2001. La disciplina penale in parola, invero, è applicabile a qualsiasi opera in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità (Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano, Rv. 263376; Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola e a., Rv. 253056) e non v’è dubbio che ciò ricorra nella variazione delle dimensioni dei pilastri di sostegno di un manufatto di rilevanti dimensioni come quello di specie, nella costruzione di una rampa in cemento armato adibita al transito veicolare, addirittura nella sopraelevazione di un intero piano del fabbricato (tipologia di opera, quest’ultima, espressamente contemplata nell’art. 93, comma 1, d.P.R. 380/2001). Essendo le ultime menzionate due opere nuove, non contemplate nell’originario progetto, non v’è dubbio che non possa riconoscersi alcuna rilevanza alla precedente denuncia dei lavori ed alla relativa autorizzazione, essendo fuori di luogo parlare di “varianti non sostanziali” ovvero – come pure fa la Corte d’appello – richiamare il concetto di variazione non essenziale ricavabile dall’art. 32 d.P.R. 380/2001, disposizione che riguarda esclusivamente la legittimità urbanistica dell’opera rispetto al contenuto del permesso di costruire. Trattandosi di reati di pericolo, poi, nessun rilievo può riconoscersi alla verifica postuma della compatibilità dell’opera con le norme tecniche costruttive, essendo del pari pacifico il principio secondo cui, in tema di reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile competente, che attesta la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta dal competente ufficio tecnico regionale (Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro, Rv. 264201).
6. Con riguardo a tutti i reati, dunque, la sentenza impugnata dev’essere annullata. L’annullamento opera senza rinvio ai fini penali per essere i reati estinti per prescrizione, ed invece con rinvio al giudice civile competente quanto alla domanda risarcitoria avanzata dalla ricorrente Cutolo Giuseppina.
6.1. Per tutti i reati, di fatti, è maturato il termine di prescrizione, pur computandosi i periodi di sospensione indicati nella sentenza impugnata a p. 43, nota 2 (63 giorni in primo grado e 133 in appello). Dovendosi considerare per i delitti il termine massimo di sette anni e mezzo e sommandosi gli ulteriori 196 giorni di sospensione di cui si è detto, i due episodi di abuso d’ufficio di cui al capo a) si sono prescritti al settembre 2016 e al marzo 2017, mentre il delitto di cui al capo e) si è prescritto nell’agosto 2017. Quanto alle contravvenzioni, mentre quelle urbanistiche di cui al capo h) – da considerarsi consumate con il sequestro del cantiere avvenuto il 18 gennaio 2011 - si sono prescritte nell’agosto 2016, quelle alla disciplina antisismica, permanenti sino all’avvenuto rilascio dell’autorizzazione postuma il 18 marzo 2010, sono prescritti nell’ottobre 2015.
6.2. A norma dell’art 622 cod. proc. pen., applicabile anche quando sia accolto il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, deve rinviarsi per nuovo giudizio sull’azione di risarcimento danni avanti al giudice civile competente per valore in grado di appello (v. Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087), in tal modo dovendo procedersi tutte le volte che sia riconosciuto un vizio della sentenza impugnata che richieda una nuova valutazione di merito ai soli fini civili, essendo l’aspetto penale invece definito per estinzione dei reati conseguente a prescrizione (Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva e a., Rv. 267844; v. anche Sez. 3, n. 46476 del 13/07/2017, Ostuni e a., Rv. 271147). Detto giudice provvederà altresì al giudizio sulle spese sostenute nel presente grado dalla parte civile ricorrente.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere i reati estinti per prescrizione e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello. Spese al definitivo.
Così deciso il 28/11/2017.