Cass. Sez. III n. 4140 del 29 gennaio 2018 (Ud 13 dic  2017)
Presidente: Fiale Estensore: Ramacci Imputato: Giugliano ed altro
Urbanistica.Abuso di ufficio

In tema di abuso d’ufficio, il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un immobile la cui edificazione non è consentita o il mantenimento di un immobile abusivo mediante l’omessa adozione dei provvedimenti finalizzati alla sua eliminazione ovvero mediante sanatoria in assenza dei presupposti di legge determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale ingiusto nei confronti del privato il quale, in forza del titolo indebitamente conseguito o dell’inerzia del pubblico ufficiale, costruisce o mantiene in essere un manufatto che, oltre ad incrementare il valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può essere successivamente alienato, locato o destinato comunque ad utilizzazioni economicamente vantaggiose.


RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 14/2/2017 ha confermato la decisione con la quale, in data 13/11/2013, il Tribunale di Torre Annunziata aveva affermato la responsabilità penale di Michele GIUGLIANO e MIRANDA Nunzio in ordine al reato di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen., accertato in Striano il 6/5/2011 e concretatosi nel rilascio da parte del primo, dirigente dell’ufficio tecnico comunale, in favore del secondo, proprietario e progettista, di un permesso in sanatoria in contrasto con la disciplina di settore e per opere non sanabili e per aver omesso di procedere alla revoca del permesso di costruire in precedenza rilasciato ed alla conseguente emissione dell’ordinanza demolitoria.
Avverso tale pronuncia i predetti propongono separati ricorsi per cassazione tramite i rispettivi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2. Michele GIUGLIANO deduce, con un unico motivo di ricorso, la violazione di legge ed il vizio di motivazione, lamentando che i giudici dell’appello, nel confermarne la responsabilità per il reato contestato, non avrebbero considerato la giurisprudenza di questa Corte in ordine al dolo intenzionale richiesto per la configurabilità dell’abuso di ufficio, non essendo emerso dall’istruzione dibattimentale che egli avesse posto in essere una condotta illecita al fine di ottenere, quale diretta ed immediata conseguenza, un ingiusto vantaggio patrimoniale per il coimputato.

3. Nunzio MIRANDA deduce invece, con un primo motivo di ricorso, il vizio di motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata lo ritiene istigatore e privato beneficiario della condotta posta in essere dal coimputato, ritenendo il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale lacunoso ed, anche, contraddittorio, avendo gli stessi giudici dell’appello dato atto dell’inesistenza di pregressi rapporti con il pubblico ufficiale.
Aggiunge che la richiesta di “variante” sarebbe stata dettata dalla buona fede e dalla intenzione di adeguarsi alle risultanze della consulenza disposta dalla Procura della Repubblica e che non avrebbe potuto considerarsi quale istigazione la mera proposizione di una istanza, la quale non dimostrerebbe neppure la sussistenza di un pregresso accordo criminoso.

4. Con un secondo motivo di ricorso lamenta il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

5. Entrambi insistono, pertanto, per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi ed il conseguente annullamento della decisione impugnata.   
               


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Va preliminarmente rilevato che entrambi i ricorrenti non si confrontano, se non in minima parte, con le argomentazioni sviluppate dalla Corte territoriale, limitandosi, per lo più, al mero richiamo di principi ai quali i giudici del merito non si sarebbero adeguati, tralasciando peraltro di considerare, nel far ciò, il ruolo avuto nella vicenda da un terzo soggetto (Alfonso SERAFINO) costituitosi parte civile, il quale, come evidenziato nella sentenza impugnata, ha subìto le conseguenze delle condotte poste in essere dagli imputati.
La vicenda processuale trae infatti origine da un articolato iter amministrativo concernente il rilascio di diversi titoli abilitativi per la realizzazione di interventi edilizi, dei quali si dirà in seguito ed ha visto impegnato anche il giudice amministrativo.

3. La sequenza degli avvenimenti, peraltro impeccabilmente delineata nel capo di imputazione e puntualmente ricostruita dai giudici del merito, può essere qui sintetizzata come di seguito per una migliore comprensione della vicenda.

4. Il GIUGLIANO, quale dirigente dell’ufficio Tecnico del Comune di Striano, rilasciava, il 26/2/2008, un permesso di costruire (n. 9/2008) in favore di Carolina FABBROCILE e Nunzio MIRANDA, per la realizzazione, su terreno di loro proprietà, di immobili destinati a civili abitazioni.
In data antecedente (4/1/2008) Alfonso SERAFINO, parte civile nel procedimento penale e proprietario di un fondo confinante, aveva a sua volta presentato analoga richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un fabbricato per civili abitazioni rispetto alla quale l’amministrazione comunale non aveva ancora provveduto al momento del rilascio del titolo abilitativo edilizio n. 9\2008.
Il 16/1/2009 il SERAFINO invitava l’amministrazione comunale a provvedere sull’istanza e, non avendo ottenuto risposta, impugnava il silenzio innanzi al giudice amministrativo, il quale ne dichiarava l’illegittimità con sentenza del 8707/2009, affermando l’obbligo, per l’amministrazione, di provvedere.
Il SERAFINO, dopo che erano iniziati i lavori sul fondo del MIRANDA, presentava denuncia alla competente Procura della Repubblica, corredandola con una relazione tecnica nella quale si evidenziava che il titolo abilitativo da questi conseguito era stato illegittimamente rilasciato  sulla base di un elaborato progettuale, redatto dallo stesso MIRANDA, di professione ingegnere, contenente rappresentazione tecnica della realtà difforme dal vero, in particolare per ciò che concerneva la superficie dei lotti da edificare e la loro ubicazione, incidente sulla distanza minima da rispettare secondo lo strumento urbanistico, che avrebbe comportato la costruzione dei manufatti, almeno in parte, in zona E agricola e non interamente in zona C residenziale come indicato nel progetto.
A seguito della denuncia, i manufatti in costruzione venivano sottoposti a sequestro preventivo e le successive indagini, disposte in riferimento ai reati di cui agli artt. 44 d.P.R. 380\01 e 44, 479 cod. pen., dimostravano, anche sulla base di altra consulenza disposta dal Pubblico Ministero, la mendace rappresentazione dello stato di fatto e di progetto da parte del MIRANDA, il quale, tuttavia, in data 10/2/2001, presentava al Comune una richiesta di “variante in sanatoria” allo scopo dichiarato di adeguare il manufatto alle disposizioni di piano regolatore e secondo le volumetrie indicate dalla Procura della Repubblica e dal suo consulente.   
Il 6/4/2011 il SERAFINO richiedeva formalmente al Comune l’annullamento del permesso di costruire 9/2008 e diffidava l’amministrazione dall’accogliere la richiesta di variante presentata dal MIRANDA, provvedendo successivamente, in data 8/4/2011, a sollecitare ulteriormente la medesima amministrazione a provvedere sulla sua richiesta di permesso di costruire presentata nel 2008.
Ciò nonostante, il successivo 6/5/2011 l’Ufficio Tecnico, nella persona del GIUGLIANO, in accoglimento della richiesta del MIRANDA, rilasciava il permesso in sanatoria n. 9/2011, mentre in data 14/6/2011 emetteva un formale provvedimento di definitivo diniego della richiesta di  permesso di costruire del SERAFINO, sul presupposto che il manufatto sarebbe stato realizzato senza rispettare le distanze dal confine stabilite dal PRG in ragione della preesistenza del manufatto in corso di costruzione da parte del MIRANDA in base al permesso di costruire n. 9/2008.
Nel frattempo, nel separato procedimento per falso ed abuso edilizio interveniva il rinvio a giudizio dei due imputati disposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torre Annunziata (il 14/2/2012), mentre il permesso in sanatoria 9/2011 veniva annullato dal giudice amministrativo,   adito dal SERAFINO, perché ritenuto illegittimo.
Ciò nonostante, l’amministrazione comunale, sebbene ulteriormente sollecitata dal SERAFINO, non annullava la sanatoria né, tanto meno, adottava i dovuti provvedimenti sanzionatori.

5. Sulla base di tale ricostruzione, la Corte territoriale osserva anche che l’istruzione dibattimentale in primo grado era consistita nella acquisizione di una corposa documentazione e dell’elaborato redatto dal consulente del Pubblico Ministero previa concorde rinuncia alla sua audizione,  mentre l’escussione della parte civile aveva riguardato soltanto l’illustrazione delle varie iniziative intraprese nell’ambito del procedimento amministrativo che la riguardava. Non vi era stato inoltre esame degli imputati, né gli stessi risultavano essere stati interrogati nel corso delle indagini.

6. Come anticipato in precedenza, a fronte di una descrizione della vicenda fornita dai giudici del merito, che già nella sua esposizione e nella sequenza temporale evidenzia in modo lampante  l’obiettiva atipicità dell’iter procedimentale seguito nell’adozione dei vari provvedimenti da parte del GIUGLIANO, specie se correlata alle contestuali iniziative poste in essere dal SERAFINO, che subiva le dirette conseguenze di tale singolare condotta, i ricorrenti, come pure si è detto, oppongono generiche censure lamentando l’inosservanza, da parte della Corte territoriale, di principi dei quali la stessa ha, invece, fatto buon uso.
La Corte di appello ha, in particolare, dato atto della circostanza che i contenuti della relazione di consulenza, acquisita sull’accordo delle parti consentivano di confermare la presenza di dati non rispondenti al vero negli elaborati prodotti dal MIRANDA e la piena conoscenza di tale stato di cose da parte del GIUGLIANO, il quale aveva tuttavia omesso di applicare quanto inequivocabilmente disposto dall’art. 62 del Regolamento Edilizio, che prescriveva come obbligatoria la revoca del permesso di costruire  se rilasciato sulla base di elaborati di progetto alterati o, comunque, non riflettenti lo stato di fatto esistente all’atto dell’inizio dei lavori, nonché di  attivare la procedura sanzionatoria di cui all’art. 27 d.P.R. 380\01.

7. E’ appena il caso di ricordare, a tale proposito, che il citato Testo Unico prevede un preciso potere – dovere di vigilanza sull’attività urbanistico edilizia per l’autorità comunale, stabilendo infatti l’articolo 27, comma 1 che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve esercitare, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico - edilizia nel territorio comunale di competenza al fine di assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.      
Si tratta, come è evidente, di un preciso obbligo e non di una facoltà, che presuppone, in determinati casi, un’attività repressiva comportante la demolizione diretta dell’abuso e il ripristino dello stato dei luoghi, senza alcun margine per valutazioni discrezionali da parte del funzionario competente e l’applicazione di provvedimenti cautelari di sospensione dei lavori (art. 27, comma 3).
L’ordinanza di sospensione dei lavori ha, peraltro, natura provvisoria, spiegando i suoi effetti fino all’adozione e notificazione dei provvedimenti definitivi (quali l’ingiunzione alla demolizione), cui lo stesso ufficio deve provvedere entro i successivi 45 giorni.
Entro i successivi 15 giorni dalla notifica dell’ordinanza sospensiva, inoltre, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere.
L’ingiunzione alla demolizione è uno dei provvedimenti che il responsabile dell’ufficio tecnico comunale adotta dopo l’ordinanza di sospensione, opera in tutti i casi diversi da quelli di demolizione diretta disciplinati dall’articolo 27, comma 2 e riguarda interventi in assenza di permesso di costruire, in totale difformità, con variazioni essenziali, comportando significative  conseguenze in caso di inottemperanza.
Il terzo comma dell’articolo 31 d.P.R. 380\01 stabilisce, infatti, che se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dalla notifica dell'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, oltre a quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune.

8. Della mancata adozione di tali provvedimenti da parte del GIUGLIANO, pur a fronte di una comprovata falsità dei contenuti degli elaborati presentati dal MIRANDA, viene dato conto nella sentenza impugnata, correttamente osservando come la evidenza della situazione riscontrata non avrebbe richiesto, per l’adozione dei provvedimenti omessi, una pronuncia del giudice penale sul reato di falso per il quale il MIRANDA era stato rinviato a giudizio.

9. Stigmatizzato, dunque e ritenuto accertato il comportamento omissivo tenuto dal GIUGLIANO dopo il rilascio del permesso di costruire n. 9/2008, i giudici del gravame prendono in considerazione, con altrettanta precisione, la palese illegittimità del successivo provvedimento di sanatoria n. 9/2011.
Tale illegittimità, osserva la Corte territoriale, risulta affermata dal giudice amministrativo, il quale  non soltanto aveva escluso la natura di variante in senso proprio dell’intervento autorizzato in sanatoria, che qualificava, invece, come variante essenziale, ma anche la sussistenza del necessario requisito della “doppia conformità” richiesto dall’art. 36 d.P.R. 380\01 ed, inoltre, rispondendo all’obiezione delle difese che avevano rilevato come la decisione del TAR fosse stata impugnata,  rileva che, anche a voler accedere alla tesi sostenuta nel ricorso al Consiglio di Stato, della scarsa rilevanza delle opere assentite, la sanatoria sarebbe stata comunque impedita dalla originaria mendace rappresentazione della realtà nella formulazione della richiesta che aveva portato all’emissione del permesso di costruire n. 9/2008.

10. Anche sul punto le argomentazioni della Corte di appello risultano ineccepibili.
Correttamente i giudici del merito hanno tenuto conto di quanto affermato dal giudice amministrativo (TAR Campania, Napoli Sez. II n. 3847 del 11/9/2012) riguardo alla qualificazione degli interventi autorizzati in sanatoria con il provvedimento n. 9/2011.  
Ricorda infatti il Tribunale Amministrativo che “la consolidata interpretazione giurisprudenziale formatasi sul punto ha distinto le varianti in senso proprio, cioè quelle che si riferiscono a modifiche quantitative e qualitative di limitata consistenza e di scarso rilievo rispetto al progetto originario, da quelle che, pur chiamate varianti nel linguaggio usuale del termine, tali non possono essere considerate perché, fuori dai limiti ora ricordati, richiedono la realizzazione di un quid novi e, quindi, la necessità di un nuovo titolo abilitativo: in questa seconda categoria vanno ricondotte, appunto, le variati cc.dd. "improprie" o "essenziali", (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 25 novembre 1988 n. 745; 2 aprile 2001, n. 1898; 22 gennaio 2003, n. 249).
In particolare, gli elementi che distinguono una variante essenziale (parificata ad un nuovo titolo edilizio) da una mera variante sono costituiti dalle modificazioni all'originario progetto di rilevante consistenza, riguardanti la superficie coperta, il perimetro, il numero dei piani, la volumetria, le distanze dalle proprietà confinanti nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Rispetto a questi parametri, sussiste un'effettiva variante solo se le modifiche quantitative e qualitative, in una valutazione complessiva dell'erigendo edificio, risultano sostanzialmente irrilevanti, in modo da poter ritenere che la costruzione sia ancora regolata dal primo titolo che, quindi, conserva intatta la sua efficacia ex tunc (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 30 luglio 2002, n. 4081). Al contrario, il nuovo provvedimento, anche se definito di variante, ha il carattere di vero e proprio nuovo permesso di costruire se vengono autorizzate opere edilizie sulla base di un progetto modificato in modo notevole in alcuno degli elementi sopra indicati (cfr. T.A.R. Liguria, Sezione I, 1 aprile 2005, n. 410; T.A.R. Piemonte, Sezione I, 7 febbraio 2005, n. 269; T.A.R. Campania, Sezione IV, 16 gennaio 2008 n.241; Sezione I, 7 giugno 2010 n.12677)”.

11. Tali considerazioni coincidono, peraltro, con quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale le “varianti in senso proprio” non determinano un sostanziale e radicale mutamento della progettazione originaria (come accade, ad esempio, nelle ipotesi di sensibile spostamento della localizzazione del manufatto, aumento del numero dei piani, creazione di un piano seminterrato, modifica del prospetto esterno etc.) e si sostanziano, quindi, in modificazioni qualitative o quantitative di irrilevante consistenza rispetto al progetto originario.
Il titolo abilitativo che le riguarda, inoltre, viene rilasciato con lo stesso procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire e si pone, rispetto al titolo originario, in rapporto di accessorietà e complementarietà.
Le “varianti essenziali” si distaccano, invece, dalla progettazione originaria in modo radicale sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo e si risolvono nella realizzazione di un’opera completamente diversa da quella assentita. Esse non sono specificamente disciplinate e presuppongono, per la loro realizzazione, un diverso e autonomo permesso di costruire (in questi termini, Sez. 3, n. 7241 del 9/2/2011, Pmt in proc. Morozzi e altri, Rv. 249544).

12. Il TAR ha inoltre posto in evidenza le discrasie emerse dalle consulenze disposte dapprima dal Pubblico Ministero e poi dal Giudice per le indagini preliminari nel procedimento per falso ed abuso edilizio e consistenti in “una errata determinazione della superficie fondiaria edificabile del lotto ricadente in zona C (quantificata negli elaborati progettuali in mq. 950 anziché in mq.829 con conseguente eccesso di volumetria e di superficie copribile, da rideterminarsi in circa 248 mq.) e da una altrettanto inesatto posizionamento degli edifici, che sono risultati ricadere parzialmente in zona E agricola”.
Ha inoltre osservato come il progetto in variante prevedesse, tra l’altro, la demolizione della porzione dei due fabbricati ricadenti in zona agricola (per una fascia avente una profondità di m. 5,00 per il fabbricato A e di mt. 4,40 per il fabbricato B), la riduzione della volumetria e della superficie coperta nonché di tutte le opere necessarie a riportare le costruzioni entro i parametri consentiti dal P.R.G. ed ha qualificato tali interventi come “modifiche sostanziali all’originario progetto edificatorio, tali da non consentirne la configurazione quale semplice variante propria, ma quale variante impropria (o essenziale)” comportando un consistente mutamento di superficie, volumetria, sagoma, posizione e distanza dai confini.
Il giudice amministrativo, inoltre, ha radicalmente escluso la sussistenza del requisito della “doppia conformità” necessario per la sanatoria di cui all’art. 36 d.P.R. 380\01, a causa della necessità di interventi volti a ricondurre le opere alle previsioni del PRG.

13. Anche in questo caso si tratta di considerazioni pienamente coincidenti con quanto ripetutamente affermato da questa Corte, che ha sempre escluso la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l’articolo 36 d.P.R.  380\01 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria. Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (v. Sez. 3, n. 51013 del 5/11/2015, Carratu' e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 7405 del 15/1/2015, Bonarota, Rv. 262422; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973; Sez. 3, n. 19587 del 27/4/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3 n. 23726 del 24/2/2009, Peoloso, non massimata; Sez. 3, n. 41567 del 4/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro, Rv. 238020; Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro, Rv. 226897 ed altre prec. conf.).

14. La Corte di appello ha dunque giustamente tenuto conto del quanto meno singolare contesto in cui si è sviluppato l'intero iter autorizzatorio rilevato anche dal giudice amministrativo, considerando la la macroscopica divergenza dalla realtà di quanto rappresentato nell’originario elaborato progettuale, la successiva inerzia del responsabile dell’Ufficio Tecnico una volta posto a conoscenza di tale situazione e la evidente illegittimità della sanatoria rilasciata. Il tutto a fronte di un atteggiamento completamente diverso nei confronti della parte civile, le cui legittime aspettative venivano dapprima platealmente ignorate, nonostante la illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione accertato dal giudice amministrativo, per poi opporre un definitivo diniego che, con singolare tempismo, veniva giustificato con l’impossibilità di rispettare le distanze dal confine per la presenza dell’immobile assentito, come si è visto, sulla base di false attestazioni e successivamente sanato con le modalità di cui si è detto.  

15. A fronte di tale situazione fattuale, accertata, come ricorda la Corte di appello, sulla base di dati documentali e di valutazione degli stessi operata nell’ambito di una consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero acquisita agli atti del processo ed i cui contenuti non sono stati contestati dalla difesa degli imputati, i ricorrenti non pongono questioni, lamentando invece il GIUGLIANO la insussistenza dell’elemento soggettivo del reato ed il MIRANDA la lacunosità della motivazione in ordine alla sua posizione di concorrente nel reato del pubblico ufficiale.

16. Va a tale proposito osservato, quanto al richiamo al “dolo intenzionale” effettuato dal GIUGLIANO, che la sentenza impugnata fornisce, sul punto, adeguata e coerente motivazione, tenendo peraltro conto della giurisprudenza di questa Corte.
Invero, si è ripetutamente affermato che la prova del dolo intenzionale non richiede l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ben potendo essere desunta anche da altri elementi quali, ad esempio, la macroscopica illegittimità dell'atto (Sez. 6, n. 31594 del 19/4/2017, Pazzaglia, Rv. 270460; Sez. 6, n. 36179 del 15/4/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 7/11/2013, P.M. e P.C. in proc. Scaramazza e altri, Rv. 258290; Sez. F, n. 38133 del 25/8/2011, P.G. e p.c. in proc. Farina, Rv. 251088 ed altre prec. conf.), specificando altresì, in altra decisione, che la sentenza impugnata debitamente richiama, che la prova del dolo intenzionale può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 6/4/2016, Cella, Rv. 267633).
Si tratta di principi che il Collegio condivide e dei quali la Corte territoriale ha certamente fatto buon uso, dando conto della evidenti violazioni poste in essere dal GIUGLIANO, tecnico comunale di pluriennale esperienza, della loro sequenza anche temporale rispetto ai diversi provvedimenti assunti nei confronti della parte civile ed individuando in un così articolato complesso di illecite omissioni e patenti violazioni della disciplina urbanistica l’inequivocabile intento di favorire il MIRANDA, in assenza, peraltro, di altri elementi indicativi di una diversa o concorrente finalità.

17. E' peraltro evidente che il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un immobile la cui edificazione non è consentita o il mantenimento di un immobile abusivo mediante l’omessa adozione dei provvedimenti finalizzati alla sua eliminazione ovvero mediante sanatoria in assenza dei presupposti di legge determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale ingiusto nei confronti del privato il quale, in forza del titolo indebitamente conseguito o dell’inerzia del pubblico ufficiale, costruisce o mantiene in essere un manufatto il quale, oltre ad incrementare il valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può essere successivamente alienato, locato o destinato comunque ad utilizzazioni economicamente vantaggiose.

18. Anche la posizione del MIRANDA quale concorrente nel reato risulta opportunamente valutata dai giudici del gravame.
Il ricorrente richiama, a tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato dall'altro ed il richiamo è certamente pertinente, ma va considerato tenendo conto dell’ulteriore precisazione, pure fornita dalla medesima giurisprudenza, che, ai fini di tale accertamento vanno anche considerati i profili inerenti al contesto fattuale, ai rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, idonei a dimostrare che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall'accordo con il pubblico ufficiale, se non da pressioni dirette a sollecitarlo o persuaderlo al compimento dell'atto illegittimo (così, testualmente, Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo Monaco e altro, Rv. 264460. Conf. Sez. 6, n. 37880 del 11/7/2014, Savini e altro, Rv. 260031; Sez. 6, n. 40499 del 21/5/2009, Bonito e altri, Rv. 245010; Sez. 6, n. 37531 del 14/6/2007, Serione e altri, Rv. 238029; Sez. 6, n. 2844 del 1/12/2003 (dep. 2004), Celiano, Rv. 227260).

19. Si tratta, anche in questo caso, di un principio pienamente condiviso dal Collegio che va pertanto ribadito, con l’ulteriore precisazione che nella valutazione del contesto fattuale indicativo della sussistenza di un accordo tra privato e pubblico ufficiale può prendersi in considerazione anche la sequenza temporale degli accadimenti, le modalità di adozione dei singoli atti e la correlazione tra le condotte singolarmente poste in essere da ciascun soggetto.

20. Nel caso di specie, i giudici del merito hanno correttamente considerato come indicative di un pregresso accordo le condotte poste in essere da entrambi gli imputati, soggetti dotati entrambi di specifiche competenze tecniche e comprovata esperienza, caratterizzate dalla richiesta da parte del MIRANDA si una variante in sanatoria palesemente in contrasto con la disciplina di settore e lo strumento urbanistico e, per ciò che concerne il GIUGLIANO, dall’originaria inerzia a fronte della     conoscenza della falsità dei presupposti sui quali si era basato il rilascio del primo permesso di costruire e dall’adozione di provvedimenti palesemente illegittimi in favore del MIRANDA stesso, accompagnati da condotte, al contrario, palesemente pregiudizievoli degli interessi del confinante.
Tale complesso di azioni ed omissioni, caratterizzato da puntuale tempistica e spregiudicata violazione di leggi, non poteva che essere del tutto coerentemente e logicamente considerato dai giudici del merito come generato da un pregresso accordo.

21. Manifestamente infondato risulta, infine, anche il secondo motivo di ricorso del MIRANDA, avendo la Corte territoriale adeguatamente giustificato il diniego delle circostanze attenuanti generiche sulla base della obiettiva gravità dei fatti, così adeguandosi, ancora una volta, alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale deve ritenersi che il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque, rilevanti ai fini del diniego delle attenuanti generiche (v.  Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163 ;  Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244), con la conseguenza che la motivazione che appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419;  Sez. 6, Sentenza n. 7707 del 4/12/2003 (dep. 2004), Anaclerio,  Rv. 229768).

22. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili e alla declaratoria di inammissibilità  consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle ammende.
Condanna altresì i ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese processuali, in favore della costituita parte civile SERAFINO Alfonso, che liquida in euro 4.000,00 (quattromila), oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in data 13/12/2017