Cass.Pen. Sez. III n. 42238 del 17 ottobre 2023 (UP 14 set 2023)
Pres. Ramacci Rel. Mengoni Ric.Zecca
Urbanistica.Attività edilizia libera e tutela del paesaggio
La particolare disciplina dell’attività edilizia libera non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate dalla disposizione che la riguarda, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici. È stato rilevato, al proposito, che l’art. 6 in esame consente la realizzazione delle opere ivi indicate, in regime di attività edilizia libera, solo nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. 42 del 2004. Ne deriva che il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 in esame, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le previsioni indicate nell'incipit della stessa, tra cuila normativa in materia di tutela del paesaggio.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 19/9/2022, la Corte di appello di Lecce confermava la pronuncia emessa il 4/6/2021 dal locale Tribunale, con la quale Anna Rita Zecca, Mauro Zollino ed Enrica Zollino erano stati dichiarati colpevoli dei reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, 181, d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e condannati ciascuno alla pena di 4 mesi di arresto e 22.000 euro di ammenda.
2. Propongono distinto – ma identico - ricorso per cassazione i tre imputati, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- inosservanza di norme giuridiche; vizio di motivazione; violazione e falsa applicazione delle norme contestate. La sentenza di appello avrebbe reso una motivazione viziata con riguardo all’epoca di realizzazione del fabbricato, che alcune testimonianze (Russo, Zacheo) – non valutate dalla Corte – avrebbero riferito ad un periodo anteriore al 2005, e per mano del defunto Giorgio Zollino, con completamento dell’opera ed intonacatura, tale da rendere il bene abitabile. Lo stesso manufatto, peraltro, costituirebbe un intervento edilizio autonomo, con precisa identità strutturale e funzionale, sì che, con riguardo al tempo di esecuzione (ed alla conseguente prescrizione del reato), non potrebbe essere assimilato alla pavimentazione in cemento dell’area esterna, di certo successiva ma del tutto indipendente rispetto al fabbricato. Tale pavimentazione, dunque, rappresenterebbe un’opera nuova, autonomamente apprezzabile e “sganciata strutturalmente dal preesistente fabbricato”. Su tale decisivo profilo, peraltro sostenuto anche da documentazione fotografica, la sentenza dovrebbe dunque essere annullata senza rinvio, data l’intervenuta prescrizione dei reati al 12/1/2023;
- le stesse censure, ed in modo consequenziale, sono poi mosse all’affermazione di responsabilità dei ricorrenti, che sarebbe avvenuta solo perché proprietari che avevano proceduto all’accatastamento del bene e presentato una pratica di sanatoria. Il fabbricato, infatti, sarebbe stato realizzato da Giorgio Zollino, e la qualifica di proprietari propria dei ricorrenti non li renderebbe, per ciò solo, concorrenti nell’abuso, non rivestendo essi una posizione di garanzia, neppure per aver poi provveduto all’accatastamento;
- inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 6, comma 1, lett. e-ter, d.P.R. n. 380 del 2001. Premesso che l’unico intervento riferibile ai ricorrenti consisterebbe nella pavimentazione esterna, si afferma che lo stesso non richiederebbe permesso di costruire, rientrando nell’attività edilizia libera di cui all’art. 6 citato; l’unico limite, al riguardo, sarebbe da rinvenire nel rispetto dell’indice di permeabilità, che peraltro non rileverebbe nel caso di specie (dato che il Comune interessato non lo avrebbe stabilito), mentre non ve ne sarebbero quanto a caratteristiche costruttive e a consistenza dell’opera. Analogamente, non vi sarebbe alcuna necessità di autorizzazione paesaggistica, come da d.P.R. n. 31 del 13/2/2017, che l’avrebbe esclusa per interventi come la pavimentazione in oggetto. L’opera, peraltro, non avrebbe determinato alcuna alterazione dell’assetto planimetrico, andando a sostituire una originaria spianata in battuto, così da confermare ulteriormente la tesi difensiva;
- infine, si lamenta il vizio di motivazione con riguardo all’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. I ricorsi risultano manifestamente infondati.
4. La Corte di appello, pronunciandosi sulle stesse questioni qui riprodotte, ha steso una motivazione solida, logica e sostenuta da rigoroso richiamo agli esiti istruttori, diversamente da quanto contestato, così da non meritare censura.
5. In particolare, quanto alla dedotta autonomia - strutturale e funzionale - del manufatto di circa 80 mq. (che si assume realizzato e completato dal defunto Giorgio Zollino negli anni 90) rispetto alla pavimentazione in cemento armato (pacificamente eseguita dai ricorrenti nel corso del 2016), la sentenza ha innanzitutto ribadito che la valutazione di un'opera edilizia abusiva va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i singoli componenti: ne consegue che, in virtù del concetto unitario di costruzione, la stessa può dirsi completata solo ove siano terminati i lavori relativi a tutte le parti dell'edificio, con l’effetto che la permanenza del reato di costruzione in difetto del permesso di costruire cessa con la realizzazione totale dell'opera in ogni sua parte (tra le molte, Sez. 3, n. 30147 del 19/4/2017, Tomasulo, Rv. 270256; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, Prevosto, Rv. 263339. Successivamente, tra le non massimate, Sez. 3, n. 6327 del 16/12/2020, Albino; Sez. 3, n. 10083 del 21/11/2019, Galiazzo). Di seguito, la stessa Corte di appello ha ribadito il costante e corretto principio secondo cui, ai fini del decorso del termine di prescrizione del reato, l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (tra le molte, Sez. 3, n. 46215 del 3/7/2018, N., Rv. 274201; Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424).
5.1. Tanto premesso in termini generali, la sentenza – con valutazione di merito non sindacabile in questa sede, perché congruamente motivata – ha quindi osservato che il teste Russo (evocato anche nel ricorso) aveva riferito di aver proceduto nel 2013 all’accatastamento dell’immobile originariamente realizzato ma non completato, mancando di impianti idrici, fognari e di impermeabilizzazione (e, secondo il Tribunale, anche di infissi e di intonaco, come da fotografie nn. 3 e 4). Al momento del sopralluogo del 27/12/2016, dunque, l’immobile interrato, in precedenza costruito, non era ancora ultimato e, pertanto, non poteva ritenersi utilizzabile, necessitando di essere riparato dalle infiltrazioni dell’acqua, quel che aveva giustificato la gettata di cemento armato in corso di realizzazione.
5.2. Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, con inammissibile argomento in fatto, tale gettata di cemento soddisfaceva dunque una finalità propria del primo manufatto, era annessa a questo ed eseguita in sua esclusiva funzione. Lo stesso intervento, dunque, costituiva un completamento dell’altro fabbricato e – come ben affermato dalla Corte di appello - “rispondeva ad esigenze funzionali all’utilizzazione dell’opera nel suo complesso”.
6. Sotto altro profilo, ancora ripreso nell’impugnazione e del tutto connesso al precedente, la sentenza di appello ha poi escluso che la gettata di cemento potesse esser qualificata come intervento di edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e-ter, d.P.R. n. 380 del 2001 (opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati). L’opera, infatti, non presentava carattere contingente, temporaneo e movibile, ma – per struttura ed estensione – modificava visibilmente l’assetto urbanistico del territorio: si trattava, in particolare, di un massetto di cemento preliminare alla realizzazione di una pavimentazione interna al manufatto, di complessivi 228 mq., e di una recinzione di cemento alta circa 2 metri (estranea, però, alla contestazione).
6.1. Questa considerazione è fondata su elementi di merito, e dunque non è sindacabile in questa sede, perché congruamente sviluppata.
6.2. A ciò si aggiunga, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità, ormai da tempo, afferma che la particolare disciplina dell’attività edilizia libera non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici (tra le molte, Sez. 3, n. 19316 del 27/4/2011, Ferraro, Rv. 250018; Sez. 3, n. 29963 dell’8/2/2019, La Barbera, non massimata. Negli stessi termini, Cons. Stato, Sez. 6, n. 1503 del 13/2/2023; Cons. Stato, sez. 6, n. 3667 del 27/7/2015, n. 3667). È stato rilevato, al proposito, che l’art. 6 in esame consente la realizzazione delle opere ivi indicate, in regime di attività edilizia libera, solo - tra l'altro e per quanto qui interessa - «nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare...delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio» di cui al d.lgs. 42 del 2004 (Sez. 3, n. 539 dell’8/11/2022, Sergi, non massimata). Ne deriva che il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 in esame, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le previsioni indicate nell'incipit della stessa, vale a dire, per quanto qui interessa, con la normativa in materia di tutela del paesaggio.
6.3. Con riguardo, dunque, alla pavimentazione di aree esterne in zona vincolata, come nel caso in esame, la stessa non è assoggettata ad alcun titolo abilitativo urbanistico soltanto se sia rispettata la disciplina di cui al d.lgs. 42/2004, che per tali interventi, in quanto potenzialmente incidenti sul paesaggio, richiede di regola la prevista autorizzazione dell'ente preposto (cfr. Sez. 3, n. 18460 del 09/01/2020, Onori Rv. 279427); ebbene, proprio in questi termini si sono espressi i Giudici del merito, che hanno riscontrato la violazione dell’art. 181, d. lgs. n. 40 del 2004, alla luce delle caratteristiche e delle dimensioni dell’opera. Ancora un argomento adeguato e non manifestamente illogico, dunque, che non può esser superato dalla considerazione – propria dei ricorsi e di puro fatto – secondo cui l’intervento in questione consisterebbe “nella sostituzione della originaria spianata in battuto con una pavimentazione in cemento, che non ha determinato quindi alcuna alterazione dell’assetto planimetrico preesistente.”
7. In ordine, poi, all’individuazione dei responsabili del primo abuso (pacifica, invece, per il secondo), il Collegio rileva che la sentenza di appello contiene ancora una motivazione incensurabile, perché solida e priva di vizi logici. In particolare, e con riferimento a tutti e tre i soggetti (madre e figli), è stato evidenziato che questi: a) rivestivano la qualifica di comproprietari del primo manufatto, da loro ricevuto in successione nel 2005; b) avevano proceduto all’accatastamento dell’immobile ed alla presentazione della domanda di sanatoria; c) erano risultati presenti sul posto al momento del sopralluogo del 27/12/2016. Dal che, l’evidente e comune interesse – in capo a loro solo – ad eseguire gli illeciti riscontrati.
8. In ordine, infine, alla causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., basti qui osservare che la questione non ha formato oggetto di gravame, non potendo, dunque, esser sollevata per la prima volta in sede di legittimità.
9. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 14 settembre 2023