TAR Veneto, Sez. III, n. 255, del 25 febbraio 2014
Rifiuti.Legittimità determinazioni finali della conferenza di servizi per procedura di bonifica di cui all’art. 15 del DM 25 ottobre 1999, n. 471
L’inquinamento è una situazione permanente, in quanto perdura fino a quando non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro limiti accettabili, con la conseguenza che le disposizioni di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, vanno applicate a qualunque sito risulti inquinato a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori della contaminazione. Così come l’ordine di bonifica può essere legittimamente rivolto all’autore dell’inquinamento per condotte che sono state poste in essere e sono cessate prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, allo stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo successore universale che sia subentrato a tutti gli obblighi a questo spettanti, e quindi anche agli obblighi di facere connessi alla posizione di garanzia assunta dall’autore dell’inquinamento a causa della sua pregressa condotta commissiva. E’ da disattendere l'assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell'art. 243 d.lgs. 152/06, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 00255/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01445/2006 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1445 del 2006, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Societa' Italiana Per il Gas Spa, rappresentata e difesa dall'avv. Paolo Dell'Anno, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Luca Pellicani in Venezia - Mestre, via Bembo, 40;
contro
Ministero per l'Ambiente, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliata in Venezia, San Marco, 63;
Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Francesco Zanlucchi e Tito Munari, domiciliata in Venezia, Cannaregio, 23;
Comune di Venezia, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giulio Gidoni e Maddalena Morino, con domicilio in Venezia, San Marco 4091;
Ministero della Salute, Ministero delle Attivita' Produttive, Magistrato alle Acque di Venezia, Provincia di Venezia, A.R.P.A.V., non costituitisi in giudizio;
per l'annullamento
A) quanto al ricorso originario:
- del verbale della Conferenza dei Servizi decisoria del 7.2.2006, e del verbale della Conferenza dei servizi decisoria del 5.4.2006;
B) quanto ai primi motivi aggiunti:
- del decreto del Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio prot. n. 4254 del 10.12.2007 contenente il provvedimento di adozione delle determinazioni finali della conferenza di servizi;
- del verbale della Conferenza dei Servizi decisoria del 10.10.2007, nonché del verbale della Conferenza dei Servizi istruttoria del 23.4.2007;
C) quanto ai secondi motivi aggiunti:
- del decreto del Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio prot. n. 1755/TRI/DI/B del 5.9.2011 contenen te il provvedimento di adozione delle determinazioni finali della conferenza di servizi;
- del verbale della conferenza di servizi decisoria del 27 giugno 2011.
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per l'Ambiente, della Regione Veneto e del Comune di Venezia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 gennaio 2014 il dott. Stefano Mielli e uditi per le parti i difensori l’avv. G. Le Pera, su delega dell’avv. Dell'Anno, l'Avvocato dello Stato Brunetti per il Ministero dell'Ambiente, l’avv. F. Zanlucchi per la Regione del Veneto e l’avv. N. Ongaro per il Comune di Venezia;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La ricorrente Società italiana per il gas Spa è proprietaria di alcuni terreni siti a Mestre in un’area compresa tra il canale cieco denominato Salso a nord, comunicante con la laguna di Venezia, le vie Altobello e Squero a ovest e la linea ferroviaria Venezia Milano a sud est, ricompresi nel sito di interesse nazionale di Porto Marghera ed oggetto della procedura di bonifica di cui all’art. 15 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, attribuita alla competenza del Ministero dell’Ambiente.
Originariamente i terreni erano di proprietà della Società Cledca Spa la quale già dal 1908 aveva realizzato sugli stessi uno stabilimento per la lavorazione del legno incentrato principalmente sulla produzione di traversine ferroviarie.
Va evidenziato che, come risulta dalla relazione tecnica descrittiva delle attività previste dal piano di caratterizzazione presentato nel 2003 (cfr. doc. 8 dell’elenco depositato in giudizio dal Comune di Venezia il 13 dicembre 2013), il processo di lavorazione del legno comprendeva l’utilizzo di sostanze conservanti e di trattamento (principalmente composti fenolici tra i quali il pentaclorofenolo dalla lavorazione dei composti fenolici ottenuti dalla lavorazione del catrame e oli idrocarburici tra i quali olio da iniezione e carbolineum, frazioni del taglio medio della distillazione del catrame), prodotte presso altri impianti e portati nello stabilimento con cisterne per essere scaricati e stoccati in serbatoi fuori terra.
L’area è divenuta proprietà della ricorrente quando Cledca Spa è stata incorporata per fusione da Italgas con atto del 24 dicembre 1970.
Da questa data i terreni sono stati dati in locazione ad altre Società che li hanno utilizzati per il deposito e la movimentazione di merci fino al 30 dicembre 2004, e da questa data la ricorrente li ha utilizzati per il parcheggio degli automezzi aziendali, il deposito di tubi e per uffici.
In data 23 marzo 2001, la ricorrente ha provveduto spontaneamente, ai sensi dell’art. 9 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, a comunicare agli enti interessati la situazione di potenziale inquin amento del sito derivante dai residui del processo di produzione svolto da Cledca Spa, che poi si è rilevato sussistente.
Nelle date 27 febbraio e 19 aprile 2006 tra il Ministero dell’ambiente e la ricorrente è stata stipulata una transazione per effetto della quale Italgas si è impegnata a versare un contributo finanziario di 15 milioni di euro a titolo di concorso al finanziamento degli interventi di messa in sicurezza d’emergenza sul canale Salso finalizzati ad impedire la diffusione delle acque di falda contaminate verso la laguna.
Nel corso delle procedure volte alla bonifica e al ripristino ambientale dell’area, con le conferenze di servizi decisorie del 7 febbraio 2006 e del 19 aprile 2006, sono stati esaminati i progetti di bonifica del suolo e della falda dettando apposite prescrizioni.
Con il ricorso originario i verbali di tali conferenze di servizi sono impugnati per le seguenti censure:
I) violazione del principio comunitario “chi inquina paga” perché la ricorrente è proprietaria del sito, ma non è l’autrice dell’inquinamento, e nell’ordinamento vigente non è configurabile una responsabilità da “posizione” ai fini dell’obbligo di bonifica e di ripristino ambientale dei siti contaminati;
II) violazione e falsa applicazione dell’art. 17, commi 1 e 6 bis, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, degli artt. 1, comma 1, e 3 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, travisamento e irragionevolezza dell’azione amministrativa perché con la bonifica viene imposto il rispetto di limiti fissati per la destinazione d’uso prevista dal piano regolatore vigente, anziché di quelli previsti per la destinazione d’uso effettiva al momento degli atti che autorizzano gli interventi di bonifica;
III) violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, illogicità, contraddittorietà e travisamento perché viene imposto il rispetto dei limiti previsti per gli insediamenti residenziali di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive di cui alla colonna B;
IV) violazione dell’art. 17, comma 1, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 1, commi 1 e 3, dell’allegato 1, tabella 1, del DM 25 ottobre 1999, n. 471, dell’art. 17 delle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore generale, difetto di presupposti, irrazionalità, illogicità e contraddittorietà dell’azione amministrativa sotto altro profilo, perché viene imposto il rispetto dei limiti previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, senza tener conto che le previsioni urbanistiche per essere attuate necessitano della formazione di un piano attuativo, e quindi non sono attuali;
V) violazione dell’art. 17, comma 1, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, degli artt. 1, commi 1 e 3, allegato 1, tabella 1, del DM 25 ottobre 1999, n. 471, degli artt. 56 e 74 delle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, nonché dell’art. 1, comma 2, delle legge 7 agosto 1990, n. 241, inutile aggravamento del procedimento, irrazionalità e contraddittorietà dell’azione amministrativa sotto altri profili, perché non vi è univocità nella normativa tecnica di attuazione del piano regolatore, in quanto il certificato urbanistico richiama l’art. 74 delle N.T.A. che però riguarda gli strumenti urbanistici attuativi vigenti e non quelli di futura istituzione, e non richiama l’art. 56, che riguarda le aree per verde attrezzato (parco gioco), quando invece la planimetria reca la lettera “V”, che corrisponde alla destinazione a verde attrezzato, mentre nel certificato urbanistico invece l’intera area ha un’unica destinazione “zona territoriale omogenea C2-RS residenziale di espansione”.
Successivamente si sono tenute altre conferenze di servizi e con decreto del direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio prot. n. 4251 del 10 dicembre 2007, sono state approvate e rese esecutive le conclusioni della conferenza di servizi decisoria del 10 ottobre 2007.
Con tale conferenza di servizi è stata disposta l’integrazione del progetto preliminare e definitivo di bonifica dei suoli insaturi, saturi e della falda con una serie di prescrizioni tecniche.
2. Con i primi motivi aggiunti il decreto e il verbale della conferenza di servizi sono impugnati per le seguenti censure:
VI) violazione degli artt. 21 e 23 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, in riferimento al Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, per la mancata considerazione della discontinuità esistente tra il vecchio ed il nuovo regime delle bonifiche, e perché è inammissibile ipotizzare che per la bonifica vi sia una responsabilità oggettiva imprenditoriale del titolare di un’impresa non responsabile della contaminazione del sito, nonché violazione dell’art. 23 della Costituzione e dell’art. 2043 c.c.;
VII) violazione dell’art. 17, commi 1 e 6 bis, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 1, commi 1 e 3 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, dell’art. 15, comma 4, del DPR 6 giugno 2001, n. 380, dell’art. 240 e ss. del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, travisamento ed irragionevolezza dell’azione amministrativa perché le prescrizioni riguardanti l’obbligo di presentare un nuovo progetto di bonifica e di un’analisi di rischio sito specifica che consenta di valutare i risultati raggiunti con le attività di bonifica ai fini del riutilizzo della aree, presuppongono il rispetto dei limiti previsti per gli insediamenti residenziali di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471 per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché dei limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive di cui alla colonna B, senza considerare che l’obbligo del rispetto dei limiti più restrittivi può essere imposto solo al soggetto interessato al mutamento di destinazione d’uso;
VIII) violazione dell’art. 3 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, degli artt. 240 e ss. e degli allegati 1-5, Parte IV, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, illogicità, contraddittorietà e travisamento perché vengono indicati come obiettivo i limiti della colonna A ad un’area che in passato e tutt’ora ha in atto una destinazione d’uso industriale;
IX) violazione dell’art. 17, comma 1, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 1, commi 1 e 3, nonché dell’allegato 1, tabella 1, del DM 25 ottobre 1999, n. 471, dell’art. 17 delle N.T.A. allegate al piano regolatore, dell’art. 240, lett. e) e dell’allegato 5, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, difetto di presupposti, irrazionalità, illogicità e contraddittorietà dell’azione amministrativa perché le prescrizioni impartite presuppongono la destinazione residenziale, senza considerare che questa, benché prevista dal piano regolatore, presuppone la formazione di uno strumento urbanistico attuativo di iniziativa privata, e quindi non è attuale;
X) violazione dell’art. 17, comma 1, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 1, commi 1 e 3, nonché dell’allegato 1, tabella 1, del DM 25 ottobre 1999, n. 471, degli artt. 56 e 74 della norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, dell’art. 1, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, dell’art. 240, lett. e) e degli allegati 1 – 5 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, aggravamento del procedimento, irrazionalità e contraddittorietà dell’azione amministrativa sotto altro profilo perché non vi è univocità nella normativa tecnica di attuazione del piano regolatore, in quanto il certificato urbanistico richiama l’art. 74 delle N.T.A. che però riguarda gli strumenti urbanistici attuativi vigenti e non quelli di futura istituzione, e non richiama l’art. 56, che riguarda le aree per verde attrezzato (parco gioco), quando invece la planimetria reca la lettera “V”, che corrisponde alla destinazione a verde attrezzato, mentre per il certificato urbanistico invece l’intera area ha un’unica destinazione “zona territoriale omogenea C2-RS residenziale di espansione”;
XI) violazione degli artt. 240, 242 e 252 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, e degli artt. 10 e 15 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, perché è stata prescritta oltre alla presentazione di un progetto di bonifica definitivo, anche di un progetto preliminare, ma un tale adempimento non è previsto dalla legge, che articola il procedimento nelle fasi della caratterizzazione, dell’individuazione delle concentrazione soglia di rischio, e del progetto di bonifica;
XII) violazione dell’art. 240, comma 1, lett. s), e dell’art. 242, comma 4, nonché degli allegati 1 e 3 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, perché è stato prescritto di adottare le migliori tecnologie già utilizzate in terreni con analoghe problematiche ricomprese nel sito nazionale di Porto Marghera, per abbattere la contaminazione di metalli, comprendendo interventi in situ di air sparging e soil vapor extraction, e l’ulteriore prescrizione di presentare una nuova versione dell’analisi di rischio la quale, tenuto conto che rimarranno valori di contaminazione residui, fissi gli obiettivi raggiungibili con la bonifica, verificando la necessità di adottare apposite misure di sicurezza e idonei piani di monitoraggio qualora i valori di contaminazione residui comportino rischi per la salute a causa del superamento dei livelli di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene e non cancerogene, e perché il valore di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene, individuato in 10-6 per il rischio individuale e del 10-5 per il rischio cumulato, contrasta con l’allegato 1 alla parte IV, del titolo V del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, che pone 1x10-5 come valore di rischio incrementale accettabile nel corso della vita come obiettivo di bonifica;
XIII) violazione degli artt. 239 e ss e dell’allegato 1 al Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione, travisamento, illogicità ed ingiustizia manifesta in quanto nel verbale si afferma di non condividere l’applicazione dell’analisi di rischio per la definizione degli obiettivi di bonifica sito specifica per la falda, dovendosi piuttosto determinare questi ultimi sulla base del limite tecnologico di abbattimento dei contaminanti, e si precisa la non ammissibilità dell’immissione in acque superficiali di acque con valori superiori alle concentrazioni soglia di contaminazione che comporterebbero l’immissione di acque inquinate fuori del sito contaminato in violazione del principio di multifunzionalità, quando invece la disciplina vigente non esclude l’analisi di rischio sito specifica anche per la acque sotterranee, e non vi è un problema di multifunzionalità perché il progetto di bonifica contempla interventi idonei ad impedire la dispersione degli inquinanti all’esterno del sito;
XIV) travisamento, contraddittorietà ed illogicità dell’azione amministrativa perché la conferenza di servizi da un lato ammette che l’emungimento possa interrompersi in caso di asportazione del terreno saturo nel quale è presente un elevato livello di inquinamento o siano applicati trattamenti in situ finalizzati ad accelerare il processo di bonifica, dall’altro prescrive di impedire la migrazione dei metaboliti, in modo contraddittorio perché il trattamento in situ comporta la fuoriuscita dei metaboliti;
XV) violazione dell’art. 243 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, in relazione agli artt. 74, comma 1, e 185, difetto di istruttoria e carenza di motivazione relativamente alla prescrizione di gestire come rifiuti liquidi le acque contaminate di falda.
3. Successivamente la parte ricorrente ha presentato l’integrazione al progetto preliminare e definitivo di bonifica richiesta a seguito delle prescrizioni formulate nella conferenza di servizi del 23 aprile 2007, l’indagine integrativa e il progetto operativo degli interventi di messa in sicurezza permanente, nonché i risultati delle indagini integrative eseguite presso le aree occupate dagli edifici demoliti e la relazione tecnica sulla indagini ambientali svolte presso l’area.
Con decreto della Direzione generale per la qualità della vita del Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e delle risorse idriche prot. n. 1755/TRI/DI/B del 5 settembre 2011, sono state approvate e rese definitive le prescrizioni della conferenza di servizi decisoria del 27 giugno 2011, con la quale si è preso atto dei risultati della caratterizzazione condizionandone l’approvazione ad alcune prescrizioni, ed è stato ritenuto condivisibile con prescrizioni il progetto di messa in sicurezza permanente della porzione centrale dell’area ex Cledca, con la richiesta di includere nell’intervento di cinturazione fisica, oltre a quelle indicate, ulteriori aree (in particolare quelle di sedime degli edifici demoliti) che dovessero risultare sede di contaminazione.
La conferenza di servizi ha altresì disposto un’integrazione al progetto di bonifica delle acque di falda che preveda l’emungimento quale misura di messa in sicurezza d’emergenza ove necessario, e la gestione come rifiuti liquidi delle acque di falda contaminate, da inviare a un impianto di trattamento autorizzato in grado di assicurare allo scarico le concentrazioni soglia di contaminazione.
Il decreto di approvazione della conferenza di servizi del 27 giugno 2011 e il relativo verbale della medesima, sono impugnati con i secondi motivi aggiunti per le seguenti censure:
XVI) violazione degli artt. 21 e 23 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, in riferimento al Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, per la mancata considerazione della discontinuità esistente tra il vecchio ed il nuovo regime delle bonifiche, e perché è inammissibile ipotizzare che per la bonifica vi sia una responsabilità oggettiva imprenditoriale del titolare di un’impresa non responsabile della contaminazione del sito, nonché violazione dell’art. 23 della Costituzione e dell’art. 2043 c.c.;
XVII) violazione dell’art. 17, commi 1 e 6 bis, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 1, commi 1 e 3 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, dell’art. 15, comma 4, del DPR 6 giugno 2001, n. 380, dell’art. 240 e ss. del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, travisamento ed irragionevolezza dell’azione amministrativa perché le prescrizioni riguardanti la presentazione di un nuovo progetto di bonifica e di un’analisi di rischio sito specifica che consenta di valutare i risultati raggiunti con le attività di bonifica ai fini del riutilizzo della aree, presuppongono il rispetto dei limiti previsti per gli insediamenti residenziali di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, senza considerare che l’obbligo del rispetto dei limiti più restrittivi può essere imposto solo al soggetto interessato al mutamento di destinazione d’uso;
XVIII) violazione dell’art. 3 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, degli artt. 240 e ss. e degli allegati 1-5, Parte IV, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, illogicità, contraddittorietà e travisamento perché vengono indicati come obiettivo i limiti della colonna A ad un’area che in passato e tutt’ora ha in atto una destinazione d’uso industriale;
XIX) violazione dell’art. 17, comma 1, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 1, commi 1 e 3, nonché dell’allegato 1, tabella 1, del DM 25 ottobre 1999, n. 471, dell’art. 17 delle N.T.A. allegate al piano regolatore, dell’art. 240, lett. e) e dell’allegato 5, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, difetto di presupposti, irrazionalità, illogicità e contraddittorietà dell’azione amministrativa perché le prescrizioni impartite presuppongono la destinazione residenziale, senza considerare che questa, benché prevista dal piano regolatore, presuppone la formazione di uno strumento urbanistico attuativo di iniziativa privata, e quindi non è attuale;
XX) violazione dell’art. 17, comma 1, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 1, commi 1 e 3, nonché dell’allegato 1, tabella 1, del DM 25 ottobre 1999, n. 471, degli artt. 56 e 74 della norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, dell’art. 1, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, dell’art. 240, lett. e) e degli allegati 1 – 5 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, aggravamento del procedimento, irrazionalità e contraddittorietà dell’azione amministrativa sotto altro profilo perché non vi è univocità nella normativa tecnica di attuazione del piano regolatore, in quanto il certificato urbanistico richiama l’art. 74 delle N.T.A. che però riguarda gli strumenti urbanistici attuativi vigenti e non quelli di futura istituzione, e non richiama l’art. 56, che riguarda le aree per verde attrezzato (parco gioco), quando invece la planimetria reca la lettera “V”, che corrisponde alla destinazione a verde attrezzato, mentre per il certificato urbanistico invece l’intera area ha un’unica destinazione “zona territoriale omogenea C2-RS residenziale di espansione”;
XXI) erronea e falsa applicazione degli artt. 8 e 13 del Dlgs. 13 gennaio 2003, n. 36, difetto di istruttoria e di motivazione, violazione del principio di proporzionalità e manifesta irragionevolezza relativamente alla prescrizione di prevedere un piano di monitoraggio post operam della durata di 30 anni, perché a livello normativo non è imposta una durata così lunga, e perché non è logico estendere interamente la disciplina prevista per le discariche;
XXII) violazione dell’art. 242, comma 7, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152 e difetto di motivazione perché è prescritta la stipula di una polizza fideiussoria bancaria o assicurativa in favore della Provincia di Venezia a garanzia della corretta esecuzione e completamento degli interventi previsti dal progetto di bonifica di un importo pari al 50% del totale dei costi, con validità della durata degli interventi progettuali approvati e due anni aggiuntivi, in assenza di una motivazione in ordine alla fissazione dell’ammontare della garanzia nella misura massima prevista alla legge e in un contesto in cui la normativa non ammette di maggiorare la validità della medesima;
XXIII) travisamento, manifesta irragionevolezza, contraddittorietà ed assenza di presupposti, nonché violazione dell’allegato 3 alla parte IV del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, e violazione dell’accordo transattivo perfezionato il 19 aprile 2006 relativamente alla prescrizione di includere nell’intervento di cinturazione fisica ulteriori aree, corrispondenti a quelle di sedime degli edifici demoliti, che dovessero risultare sede di contaminazione perché le aree degli edifici demoliti sono già incluse nella cinturazione, e può ritenersi sufficiente la cinturazione dell’area centrale in quanto le aree esterne a questa sono contaminate ma in misura inferiore, e perché in tal modo il Ministero cerca di ovviare alla mancata realizzazione degli interventi di marginamento e retromarginamento che si è impegnato a realizzare in base alla transazione del 19 marzo – 19 aprile 2006;
XXIV) erronea e falsa applicazione dell’accordo transattivo del 19 marzo 2006, illogicità ed irragionevolezza relativamente alla richiesta di presentare un’integrazione al progetto di bonifica delle acque di falda, perché non sono stati ancora realizzati dal Ministero gli interventi di marginamento e retromarginamento e non è stato ancora approvato il progetto di bonifica della falda, quando tali interventi sono tali da condizionare il progetto di bonifica della falda;
XXV) violazione dell’art. 243 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, in relazione agli artt. 74, comma 1, e 185, difetto di istruttoria e carenza di motivazione relativamente alla prescrizione di gestire come rifiuti liquidi le acque contaminate di falda.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’ambiente, la Regione Veneto ed il Comune di Venezia concludendo per la reiezione del ricorso e dei motivi aggiunti, mentre solo la Regione eccepisce anche l’inammissibilità del ricorso originario perché volto a censurare la legittimità di un atto endoprocedimentale quale è il verbale della conferenza di servizi decisoria.
Alla pubblica udienza del 23 gennaio 2014, in prossimità della quale le parti hanno depositato memorie a sostegno delle proprie difese, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso originario con il quale sono impugnati i verbali delle conferenze di servizi decisorie del 7 febbraio 2006 e del 5 aprile 2006, perché nel caso di specie questi non contengono ordini immediatamente efficaci in assenza del provvedimento finale di approvazione della conferenza di servizi e di attribuzione di esecutività alle prescrizioni impartite, che non è stato impugnato.
Vale pertanto il principio per il quale in casi come questi, diversamente dalle ipotesi nelle quali è possibile ipotizzare la facoltà di un’immediata impugnabilità laddove siano contenuti ordini e prescrizioni immediatamente efficaci perché così autoqualificatisi nella stessa conferenza di servizi e il cui adempimento decorre dalla comunicazione del relativo verbale (come nel caso esaminato da Consiglio di Stato, Sez. II, 29 dicembre 2011, 4974), il verbale della conferenza di servizi ha una valenza di atto endoprocedimentale ed è pertanto privo di efficacia esterna in assenza dell’adozione del provvedimento finale che è l’atto con valenza esoprocediementale (cfr. in merito alla procedura di bonifica Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 giugno 2008, n. 3016; in generale, con riguardo all’istituto della conferenza di servizi, id. 6 maggio 2013, n. 2417)
2. Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Con le censure contenute nel primo dei primi e dei secondi motivi aggiunti, sopra rubricati come sesto e sedicesimo motivo, la parte ricorrente lamenta che nessun ordine di bonifica può esserle rivolto in quanto l’inquinamento risale alle lavorazioni svolte da Cledca Spa precedentemente al suo subentro nella proprietà dei terreni, e che pertanto, in quanto proprietaria incolpevole, non può essere obbligata alla bonifica.
Le conclusioni cui giunge la parte ricorrente non possono essere condivise, perché in realtà la problematica che attiene alla possibilità o meno di coinvolgere nella procedura di bonifica il proprietario che non ha causato la contaminazione, è estranea alla controversia in esame.
Infatti, e ciò è dirimente, la ricorrente Società italiana per il gas Spa, come eccepito dalla Regione Veneto e dal Comune di Venezia, ha incorporato per fusione la Società Cledca Spa con atto del 24 dicembre 1970 ed è a tale titolo che è subentrata nella proprietà del terreno oggetto della procedura di bonifica.
La ricorrente sostiene che sarebbe inconferente il richiamo all’incorporazione per fusione, perché questa non dà luogo ad una continuità dei rapporti giuridici per fusioni avvenute prima dell’entrata in vigore (il 1 gennaio 2004) del Dlgs. 24 dicembre 2003, n. 6, che ha modificato l’art. 2504 bis c.c. nel testo ad oggi vigente, che ha sancito la prosecuzione dei relativi rapporti giuridici, e che in ogni caso l’incorporazione per fusione non costituisce titolo di responsabilità della società incorporante quando l’inquinamento sia stato cagionato antecedentemente all’entrata in vigore della normativa in materia di bonifica di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, e la società subentrante non abbia proseguito l’attività della società incorporata.
A sostegno di tali conclusioni la parte ricorrente cita alcune pronunce giurisprudenziali (Tar Lombardia, Milano, Sez. I, 19 aprile 2007, n. 1913 confermata in appello con sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 5 dicembre 2008, n. 6055).
Il Collegio ritiene di non poter condividere questo ordine di idee.
Infatti quanto al primo rilievo, va osservato che anche nel regime precedente alla modifica dell'art. 2504 bis c.c. ad opera del Dlgs. 17 gennaio 2003 n. 6, la fusione di una società determinava una situazione giuridica corrispondente alla successione universale con la contestuale sostituzione nella titolarità di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi (ex pluribus cfr. Cass. Sez. lav., 22 marzo 2010, n. 6845; Cass. Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183; Cass. Sez. 3, 13 marzo 2009, n. 6167; Cass. 6 maggio 2005, n. 9432; Cass. 25 novembre 2004, n. 22236; Cass. 3 agosto 2005, n. 16194; Cass. 24 giugno 2005, n. 13695), come si evince dalla precedente formulazione dell'art. 2504 bis c.c., comma 1, la quale statuiva che "la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte" (è proprio il riferimento testuale alle "società estinte" che ha indotto giurisprudenza e dottrina a ritenere che si tratti di successione a titolo universale).
Quanto al secondo rilievo, va osservato, aderendo alle conclusioni cui è giunta altra e più persuasiva giurisprudenza (cfr. con riguardo ad una fattispecie di fusione Tar Toscana, Sez. II, 1 aprile 2011, n. 573), che l’inquinamento è una situazione permanente, in quanto perdura fino a quando non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro limiti accettabili, con la conseguenza che le disposizioni di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, vanno applicate a qualunque sito risulti inquinato a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori della contaminazione.
Infatti, secondo la ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza amministrativa, anche le norme di carattere penale che sanzionano il mancato adempimento degli obblighi di bonifica, collegano la pena non al momento in cui viene cagionato l’inquinamento o il relativo pericolo, ma alla mancata realizzazione della bonifica, che è l’attività necessaria a far cessare gli effetti di una condotta omissiva a carattere permanente (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2007, n. 5283; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 21 gennaio 2013, n. 50), e la sanzione colpisce non l’inquinamento prodotto in epoca precedente, ma la mancata eliminazione degli effetti che permangono nonostante il decorso del tempo (alle medesime conclusioni giunge quell’orientamento della giurisprudenza penale secondo il quale l’art. 51 bis del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, si configura quale reato omissivo di pericolo presunto, che si consuma ove il soggetto non proceda ad adempiere l’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentali normativamente definite: cfr. Cass. pen., Sez. III, 28 aprile 2000, n. 1783; va dato atto che un diverso orientamento è stato espresso da Cass. civ. 21 ottobre 2011, n. 21887).
Poste tali premesse, deve pertanto concludersi che la Società ricorrente, essendo succeduta a titolo universale alla Società Cledca Spa a seguito della sua incorporazione per fusione, è subentrata in tutti gli obblighi a questa spettanti e quindi anche negli obblighi di facere che sono connessi alla posizione di garanzia dalla stessa assunta a causa della sua pregressa condotta commissiva, con la conseguenza che è pertanto riscontrabile in capo ad essa un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla Società incorporata se non si fosse estinta.
Infatti, seguendo la teoria dell'illecito permanente sulla quale concorda la giurisprudenza, rispetto agli inquinamenti che, come nel caso di specie, si siano verificati ed esauriti prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, non ha senso differenziare la posizione dell'autore materiale dell'inquinamento, sulla cui responsabilità concorda la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2007, n. 5283), da quella del suo successore universale.
Altrimenti opinando, dato che rispetto alla normativa sopravvenuta successivamente all’evento generatore dell’inquinamento l’autore materiale dello stesso ed il suo successore versano entrambi nell’identica condizione (in ambedue i casi l’inquinamento è stato realizzato ed è cessato in data antecedente al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22), in nome della preoccupazione di non rendere di fatto retroattive le disposizioni di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, si giungerebbe all’assurda conclusione di dover lasciare senza rimedio tutte le contaminazioni storiche che necessitano maggiormente di interventi di bonifica a causa del carattere diffuso ed esteso delle aree inquinate e della pericolosità degli inquinanti presenti, quando invece, secondo una corretta ricostruzione, non si pone il problema di riconoscere o meno alle norme sopravvenute una portata retroattiva, ma di applicarle ratione temporis alle situazioni che necessitino di interventi volti ad evitare pregiudizi ambientali derivanti da una condotta omissiva a carattere permanente che solo la bonifica può rimuovere.
Pertanto, così come l’ordine di bonifica può essere legittimamente rivolto all’autore dell’inquinamento per condotte che sono state poste in essere e sono cessate prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, allo stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo successore universale che sia subentrato a tutti gli obblighi a questo spettanti, e quindi anche agli obblighi di facere connessi alla posizione di garanzia assunta dall’autore dell’inquinamento a causa della sua pregressa condotta commissiva.
3. Con un ulteriore gruppo di censure contenute nei motivi sopra rubricati come settimo, ottavo, nono, decimo, diciassettesimo, diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo, la Società ricorrente sostiene sotto diversi profili che è illegittima la pretesa del Ministero di indicare come obiettivo della bonifica dei suoli il rispetto dei limiti di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive di cui alla colonna B.
Al fine di comprendere meglio il senso delle censure, va premesso che originariamente l’area è stata oggetto di usi industriali, mentre il piano regolatore vigente prevede una destinazione prevalentemente di tipo verde urbano e residenziale, subordinando gli interventi alla redazione di un piano attuativo di iniziativa privata, ed è per questo motivo che le Amministrazioni hanno chiesto l’applicazione dei limiti di accettabilità della contaminazione previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive.
3.1 In merito a tale statuizione la ricorrente sostiene in primo luogo che l’art. 17 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, laddove demanda all’adozione di un apposito decreto ministeriale la definizione dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli “in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti”, alla luce del comma 13 del medesimo articolo che afferma l’obbligo per l’interessato di procedere a bonifica nel caso in cui il mutamento di destinazione d’uso comporti l’applicazione di limiti di accettabilità di contaminazione più restrittivi, debba essere interpretato nel senso che i limiti sono solo quelli della destinazione d’uso in atto, e non di quella vigente nei piani urbanistici, e che l’obbligo di bonifica riguarda solo i soggetti che abbiano un interesse attuale ad avvalersi dell’aumento di valore conseguente al mutamento di destinazione d’uso.
Con una seconda censura la parte ricorrente afferma che dovrebbe essere valorizzata la destinazione d’uso di fatto dell’immobile, e cita in proposito della giurisprudenza (cfr. Tar Umbria, 8 aprile 2004, n. 168) che ha affermato che la tipologia di bonifica da effettuare va individuata non con riferimento alla destinazione urbanistica, ma con riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto.
Tali doglianze si rivelano infondate, in quanto la nozione di “destinazione d’uso” alla quale si richiama anche l’art. 17 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, è quella tipicamente impressa, quale effetto conformativo, dalle previsioni dello strumento urbanistico (cfr. l’art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150), e la normativa è chiara nell’imporre il rispetto dei limiti previsti dalla destinazione d’uso prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, come si evince indirettamente dalla circostanza che viene prevista la necessità di variare gli strumenti urbanistici qualora la destinazione da questi prevista imponga il rispetto di limiti di accettabilità che non possono essere raggiunti neppure con l’applicazione delle migliori tecnologie (infatti l’art. 17, comma 6, del Dlgs. 5 febbraio 2006, n. 22, prevede che “qualora la destinazione d'uso prevista dagli strumenti urbanistici in vigore imponga il rispetto di limiti di accettabilità di contaminazione che non possono essere raggiunti neppure con l'applicazione delle migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili, l'autorizzazione di cui al comma 4 può prescrivere l'adozione di misure di sicurezza volte ad impedire danni derivanti dall'inquinamento residuo, da attuarsi in via prioritaria con l'impiego di tecniche e di ingegneria ambientale, nonché limitazioni temporanee o permanenti all'utilizzo dell'area bonificata rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, ovvero particolari modalità per l'utilizzo dell'area medesima. Tali prescrizioni comportano, ove occorra, variazione degli strumenti urbanistici e dei piani territoriali”).
Va soggiunto che la giurisprudenza citata dalla ricorrente (cfr. Tar Umbria, 8 aprile 2004, n. 168) è del tutto inconferente, perché riguarda la diversa e specifica questione dell’individuazione dei limiti di accettabilità dei terreni ad uso agricolo che, in assenza di una definizione normativa, è affidata all’interprete, e che la giurisprudenza ha inteso risolvere facendo riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto, concludendo per l’applicabilità alle aree agricole dei limiti più cautelativi riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o privato.
3.2 La ricorrente prosegue sostenendo che non può farsi riferimento ai limiti di accettabilità previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale previsto dalla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, perché tale destinazione pur essendo prevista dal piano regolatore vigente, non è ancora attuale essendo subordinata alla formazione di un piano urbanistico attuativo di iniziativa privata.
Anche tale doglianza deve essere respinta, perché la normativa del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, sopra citata fa riferimento alla destinazione d’uso prevista dal piano regolatore, al quale va direttamente ascritto l’effetto conformativo nell’uso dei suoli, mentre il piano attuativo ha solamente lo scopo di determinare nel dettaglio e in concreto l'organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica degli insediamenti quale è prevista dal piano regolatore, senza poter modificare quest’ultimo.
Le previsioni del piano regolatore hanno pertanto valore prescrittivo immediatamente efficace, anche se per la realizzazione degli interventi è prevista la necessità della previa formazione di un piano attuativo, che ha il solo effetto di subordinare alla sua approvazione l’ottenimento dei titoli abilitativi necessari.
3.3 Con un’ulteriore doglianza la parte ricorrente lamenta l’inesigibilità della prescrizione di raggiungere i limiti accettabili di contaminazione riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o privato, perché vi sono alcune contraddizioni tra le previsioni di piano e il certificato urbanistico.
La doglianza deve essere respinta, in quanto vengono dedotte solamente alcune incongruenze del certificato urbanistico che non richiama con completezza tutte le norme tecniche di attuazione applicabili all’area.
Tuttavia tali incongruenze sono prive di rilievo al fine di individuare l’esatta destinazione urbanistica chiaramente indicata nel piano regolatore.
3.4 Nella memoria di replica depositata in giudizio in prossimità della pubblica udienza e nella trattazione orale, in via subordinata alle censure appena esaminate, la parte ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 17 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dell’art. 240, lett. b), c), d), e) e f), dell’art. 242 del Dlgs. 6 aprile 2006, n. 152, e dell’allegato 5, al titolo V, parte quarta, del medesimo, per contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. per manifesta irragionevolezza, ritenendo incostituzionale la previsione di imporre il rispetto dei limiti di accettabilità stabiliti per la destinazione d’uso prevista dal piano regolatore vigente, anziché i diversi limiti stabiliti per la destinazione d’uso legittimamente in atto.
La questione è manifestamente infondata, in quanto non vi è alcuna irragionevolezza nel prevedere che, nel momento in cui viene effettuata la bonifica di un’area inquinata, debbano essere osservati i limiti di accettabilità propri della destinazione d’uso di futura realizzazione prevista dai piani regolatori vigenti, in quanto sarebbe all’opposto un’irragionevole ed ingiustificata dissipazione di risorse pubbliche e private lo svolgimento di una prima bonifica volta a raggiungere i parametri meno cautelativi della destinazione d’uso di fatto in atto al momento della bonifica, con la certezza di doverla in seguito ripetere per attuare le previsioni urbanistiche.
Conclusivamente devono pertanto essere respinte tutte le doglianze con le quali la parte ricorrente lamenta l’illegittimità della prescrizione di rispettare i limiti di cui alla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale, anziché i limiti previsti per le destinazioni d’uso produttive di cui alla colonna B.
4. Con il motivo sopra rubricato come undicesimo la Società ricorrente sostiene l’illegittimità della prescrizione di presentare un progetto preliminare di bonifica, perché un tale adempimento non è previsto dal Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, che articola la procedura nelle fasi della caratterizzazione, dell’individuazione delle CSR e del progetto di bonifica, a differenza del DM 25 ottobre 1999, n. 471 che contemplava anche la redazione di un progetto preliminare.
La doglianza deve essere respinta, perché tale prescrizione si limita ad evidenziare l’opportunità di esaminare già dal primo livello di definizione del progetto di bonifica, fin da quando è nella fase di progettazione preliminare, le soluzioni adottate e da adottare, e un tale adempimento costituisce una mera articolazione delle normali attività di progettazione da avviare a seguito dell’esame dei risultati della caratterizzazione e prima della redazione del progetto definitivo di bonifica, e non comporta pertanto alcuna violazione delle disposizioni che disciplinano la procedura di bonifica mediante l’introduzione di una nuova fase non prevista dalla legge.
Peraltro il comma 7 dell’art. 242 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, prevede espressamente, per gli interventi di bonifica o di messa in sicurezza che presentino particolari complessità (a causa della natura della contaminazione, degli interventi, delle dotazioni impiantistiche necessarie o dell'estensione dell'area interessata dagli interventi medesimi), che il progetto possa essere articolato per fasi progettuali.
La censura pertanto deve essere respinta.
5. Con il motivo sopra rubricato come dodicesimo la ricorrente contesta l’idoneità e l’onerosità dell’adozione degli interventi di abbattimento della contaminazione dei metalli da realizzare in situ di air sparging e soil vapor extraction, l’illegittimità della prescrizione di prevedere un piano di monitoraggio qualora i valori di contaminazione residui comportino rischi per la salute a causa del superamento dei livelli di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene e non cancerogene, e contesta altresì l’individuazione del valore di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene, in 10-6 per il rischio individuale e del 10-5 per il rischio cumulato, in contrasto con l’allegato 1 alla parte IV, del titolo V del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, che pone 1x10-5 come valore di rischio incrementale accettabile nel corso della vita come obiettivo di bonifica.
Con il motivo sopra rubricato come quattordicesimo la ricorrente lamenta inoltre la contraddittorietà insita nel prescrivere trattamenti in situ impedendo però la fuoriuscita di metaboliti, perché il trattamento in situ comporta la fuoriuscita dei metaboliti.
Rispetto a queste censure va in primo luogo evidenziato che tali prescrizioni costituiscono l’esito di valutazioni tecnico - discrezionali espresse dagli organi pubblici preposti alla tutela igienico - sanitaria ed ambientale, e in quanto tali non possono essere contraddette con il semplice richiamo a valutazioni tecniche di parte di segno contrario salvo che, a carico delle prime, non vengano evidenziati vizi di logicità, contraddittorietà o incompletezze per quanto concerne l'individuazione degli elementi di fatto rilevanti o la scelta delle regole tecniche di riferimento o la loro applicazione.
Orbene, le doglianze proposte, poiché contestano genericamente l’idoneità delle modalità tecniche prescritte per realizzare la bonifica, devono pertanto essere respinte.
Peraltro, va anche osservato che, come si evince dalla lettura del verbale della conferenza di servizi, l’indicazione dell’utilizzo di tali modalità tecniche non è immotivata, in quanto giustificata dai positivi risultati raggiunti mediante queste soluzioni tecniche da aziende operanti nel sito di interesse nazionale di Porto Marghera, in aree con caratteristiche di contaminazione analoghe a quelle dell’area della parte ricorrente, e ciò contraddice sia la lamentata inidoneità delle soluzioni tecniche prescritte, sia l’asserita eccessiva onerosità delle medesime.
Quanto all’ultimo punto contestato nell’ambito del dodicesimo motivo, va osservato che, contrariamente a quanto dedotto, i livelli di rischio tollerabile per le sostanze cancerogene prescritti appaiono in linea con quelli previsti dall’allegato 1 alla parte IV, del titolo V del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, nel testo modificato dal Dlgs. 16 gennaio 2008, n. 4 (ove si legge che “si propone 1x10-6 come valore di rischio incrementale accettabile per la singola sostanza cancerogena e 1x10'5 come valore di rischio incrementale accettabile cumulato per tutte le sostanze cancerogene) cosicché anche sotto questo profilo non è ravvisabile alcuna illegittimità.
Quanto all’ulteriore censura contenuta nel quattordicesimo motivo con la quale la ricorrente deduce l’irragionevolezza delle prescrizioni di svolgere trattamenti in situ impedendo la fuoriuscita di metaboliti, va invece rilevato che la conferenza di servizi ha analizzato le problematiche conseguenti all’utilizzo di tale tipo di trattamenti, ritenendole superabili sul piano tecnico, come dimostra l’espresso riferimento alla necessità di adottare e comunicare agli enti di controllo preposti le cautele necessarie ad evitare la creazione di correnti vaganti indotte e la realizzazione di condizioni che impediscano la migrazione di metaboliti ed altri possibili effetti di contaminazione secondaria.
Sono pertanto da respingere i rilievi formulati con le censure contenute nel dodicesimo e quattordicesimo motivo.
6. Con le censure di cui al tredicesimo motivo la ricorrente contesta il mancato svolgimento dell’analisi di rischio sito specifica per le acque di falda e l’imposizione di limiti immotivatamente cautelativi di contaminazione, senza considerare che gli interventi previsti dal progetto di bonifica sono da soli sufficienti a scongiurare pericoli di contaminazione delle aree esterne.
Anche tali doglianze non possono essere accolte in primo luogo perché sono formulate in modo ipotetico e contraddittorio, laddove la ricorrente ammette espressamente che all’esito del calcolo effettuato in relazione alle condizioni sito specifiche, la concentrazione soglia di rischio possa coincidere con la concentrazione soglia di contaminazione, in secondo luogo perché le relative prescrizioni, frutto dell’ampia discrezionalità tecnica di cui è titolare l’Amministrazione in materia, sono sufficientemente motivate, e la ricorrente non allega elementi atti a dimostrare l’erroneità o la non attendibilità delle valutazioni tecniche effettuate.
Infatti a pag. 117 del verbale della conferenza di servizi istruttoria, cui rinvia il verbale della conferenza di servizi decisoria, sono contenute le seguenti indicazioni “non si condivide pertanto l’applicazione dell’analisi di rischio per la definizione degli obiettivi di bonifica sito-specifici per la falda (CSR), che devono essere invece determinati sulla base del limite tecnologico di abbattimento dei contaminanti; l’applicazione dell’analisi di rischio sanitario ambientale (rischio per l’uomo) per il calcolo degli obiettivi di bonifica relativi alle acque sotterranee potrebbe risultare in contrasto con il perseguimento degli obiettivi di qualità stabiliti dalla Direttiva 2000/60, in quanto l’assunzione di CSR per le acque sotterranee superiori ai valori di CSC potrebbe comportare l’ammissione di aree con acque di qualità non conforme con il principio di multifunzionalità, anche al di fuori del sito contaminato”, e si demanda agli enti di controllo locali competenti per i piani di tutela delle acque l’adozione di eventuali approcci alternativi.
Orbene, tali prescrizioni non solo sono motivate, ma sul piano tecnico in realtà sono la riproduzione delle conclusioni contenute nel manuale predisposto da Apat recante “Criteri metodologici per l’applicazione dell’analisi assoluta di rischio ai siti contaminati” del giugno 2005 (cfr. pag. 131 della revisione 2 del marzo 2008), il che, in mancanza di una prova contraria che la parte ricorrente non allega, costituisce una sufficiente garanzia circa la loro attendibilità.
Quanto alla dedotta mancanza di pericolo della dispersione degli inquinanti dovuta alla presenza degli interventi di marginamento e retromarginamento, va osservato che questa allo stato è ancora ipotetica dato che non sono stati ancora completati i marginamenti della macroisola, e neppure quando il marginamento risulterà completato potrà scongiurarsi con sicurezza il pericolo di una residuale migrazione degli inquinanti.
Anche le cesnure di cui al tredicesimo motivo devono pertanto essere respinte.
7. Con le censure sopra rubricate come quindicesimo e venticinquesimo motivo la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria e la carenza di motivazione relativamente alla prescrizione di gestire come rifiuti liquidi le acque contaminate di falda, anziché consentire il loro scarico in acque superficiali assoggettandole alla disciplina degli scarichi industriali, come prevede espressamente l’art. 243 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152.
La doglianza deve essere respinta
La norma da ultimo citata nel testo vigente al momento dell’adozione degli atti impugnati, prevedeva che “le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”.
Il Collegio non ignora che, basandosi su tale disposizione, sono state emesse alcune pronunce, sul cui richiamo sono imperniate le difese della parte ricorrente, secondo le quali la ratio legis è nel senso di porre una disciplina speciale per la gestione delle acque di falda emunte nelle operazioni di messa in sicurezza e di bonifica, riconducibile alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti, con la conseguente non applicabilità, per tali acque, della disciplina sui rifiuti (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. V, 21 marzo 2012, n. 1398; Tar Sicilia, Catania, 29 gennaio 2008, n. 207; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 23 luglio 2008, n. 1068; Tar Friuli Venezia Giulia, 26 maggio 2008, n. 301).
Tuttavia appare più persuasivo e meritevole di condivisione il diverso e più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. I, 11 settembre 2012, n. 2117; Tar Toscana, Sez. II, 6 ottobre 2011, n. 1452; id. 19 maggio 2010, n. 1523; Tar Sardegna Sez. II, 21 aprile 2009, n. 549; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 20 marzo 2009, n. 540) che ha chiarito che le acque emunte di regola devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art 243 citato consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali.
Infatti il predetto art. 243, limitandosi a consentire la possibilità di autorizzare lo scarico nelle acque di superficie delle acque emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito, a condizione che siano rispettati gli stessi limiti di emissione delle acque reflue industriali, non è idoneo ad incidere sulla specialità e tassatività della disciplina, di diretta derivazione comunitaria, sui rifiuti, che esclude espressamente l'assimilabilità delle acque emunte in falda a quelle reflue industriali, alla luce dei codici CER contenuti nella decisione della Commissione Europea 3 maggio 2000, n. 532 - 00/532/CE ( codici CER 19.03.07 e 19.03.08, che individuano le acque di falda emunte nell'ambito di attività di disinquinamento quali rifiuti liquidi ).
In proposito va sottolineato che in tal senso si è espressa anche la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 dicembre 2013, n. 5857, la quale ha affermato che “è quindi da disattendere l'assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell'art. 243 d.lgs. 152/06, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto.
L’allegato D alla parte quarta del medesima d.lgs, nell’elencare i rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 e alla direttiva del Ministero dell'ambiente 9 aprile 2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i <<rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda>>.
Anche per tale ragione, quindi, risulta smentita l’aprioristica omologazione, dedotta dalla società appellante, dei reflui derivanti da operazioni di bonifica alle acque reflue industriali, come definite chiaramente dall’art. 74, comma 1 lett. h) del d.lgs. citato (con ciò dovendosi discostare dalle conclusioni alle quali era pervenuto questo Consiglio di Stato nella sentenza di questa stessa sezione 8 settembre 2009, n. 5256)”.
Nel caso di specie, come risulta dal documento preparatorio alla conferenza di servizi del 6 ottobre 2010, le acque contengono elevati livelli di contaminazione atteso che, relativamente alla falda del riporto, vi sono superamenti da alluminio, arsenico, ferro, manganese, mercurio, nichel, piombo, solfati, benzo(a)antracene, benzo(b)fluoroantene, naftalene; relativamente alla prima falda vi sono superamenti da alluminio, arsenico, ferro (con valori fino a 28 volte la CSC), nichel, manganese (con valori fino a oltre 13 volte la CSC), piombo, solfati, benzo(a)antracene, naftalene; antimonio, BTEX, alifatici, clorurati cancerogeni (prevalentemente cloruro di vinile) e non cancerogeni, IPA come sommatoria, PCB e idrocarburi totali; per alcune sostanze cancerogene molto tossiche e persistenti sono stati riscontrati superamenti oltre 10 volte, e il ricorrente non adduce che le modalità di gestione delle acque nel caso di specie abbiano effettivamente le caratteristiche dello scarico industriale (che richiede, oltre al rispetto dei limiti previsti per gli scarichi industriali, un collegamento diretto tra la fonte di produzione ed il corpo recettore, senza soluzione di continuità, anziché di uno iato materiale e temporale tra la fase di emungimento e quella di trattamento).
Ciò premesso va allora evidenziato che la prescrizione di trattare come rifiuti le acque della falda emunte, in assenza della prova da parte della ricorrente della sussistenza di tutti i requisiti per invocare la più favorevole disciplina di cui all’art. 243 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, si sottrae alle censure proposte.
8. Con le censure contenute nel ventunesimo motivo la ricorrente contesta la prescrizione di prevedere un piano di monitoraggio post operam della durata di 30 anni, e sostiene che è illogico estendere interamente ad un intervento di bonifica la disciplina prevista per le discariche.
La doglianza è priva di fondamento dato che nel caso di specie dal punto di vista costruttivo funzionale la messa di sicurezza permanente prevista segue i criteri progettuali del Dlgs. 13 gennaio 2003, n. 36, per le discariche destinate allo smaltimento dei rifiuti pericolosi.
Infatti è previsto un intervento di cinturazione fisica con un diaframma plastico intestato a una profondità media di circa 21 m, dello spessore di circa 60 cm, posato su un fondo impermeabile argilloso - limoso e coperto da diversi livelli di capping.
Tenuto conto che per le discariche vi è la previsione, all’art. 8, comma 1, lett. m), del Dlgs. 13 gennaio 2003, n. 36, di una durata di gestione post-operativa di almeno trent’anni (si afferma infatti che il piano finanziario deve prevedere, tra l’altro, i costi stimati di chiusura, nonché quelli di gestione post-operativa per un periodo di almeno trenta anni), e che l’art. 12, comma 3, ultimo periodo afferma che la fase di gestione post-operativa dura per tutto il tempo necessario ad escludere che la discarica possa comportare rischi per l’ambiente, la previsione di un piano di monitoraggio trentennale risulta pertanto conforme alla normativa applicabile alla fattispecie.
9. Con il ventiduesimo motivo la ricorrente si duole della fissazione nella misura massima prevista dalla legge dell’entità delle garanzie per la bonifica.
La doglianza deve essere respinta, perché quanto sopra esposto in ordine alla complessità degli interventi di bonifica del suolo e in ordine alla loro riconduzione alla disciplina delle discariche, per la quale sono previste le più cautelative ed onerose garanzie finanziarie di cui all’art. 14 del Dlgs. 13 gennaio 2003, n. 36, giustifica l’imposizione di una garanzia per la corretta esecuzione e il completamento degli interventi nella misura massima prevista dall’art. 242, comma 7, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, nonché la previsione di una durata aggiuntiva di due anni.
10. Con il ventitreesimo motivo la ricorrente afferma che è illegittima la prescrizione di includere nell’intervento di cinturazione fisica ulteriori aree, oltre a quella centrale che è la maggiormente inquinata, in quanto le aree esterne a questa sono contaminate in misura inferiore, e perché in tal modo il Ministero cerca di ovviare alla mancata realizzazione degli interventi di marginamento e retromarginamento che si è impegnato a realizzare in base alla transazione del 19 marzo – 19 aprile 2006.
Tali doglianze devono essere respinte.
Infatti la prima prescrizione di estendere l’area della cinturazione fisica non reca nemmeno una lesione attuale, ma solo futura ed eventuale, dato che la conferenza di servizi si è limitata a richiedere di includere nella cinturazione solo le ulteriori aree che dovessero risultare sede di contaminazione.
E’ evidente che in caso di riscontro di livelli di contaminazione non accettabili l’obbligo di bonificare le predette aree deriverebbe direttamente dalla legge, e non costituirebbe un’imposizione della conferenza di servizi.
Inoltre va osservato che la tesi secondo la quale gli interventi di marginamento e retromarginamento e di cinturazione fisica sarebbero tra loro alternativi, e che pertanto l’Amministrazione mediante l’imposizione della cinturazione mirerebbe a sottrarsi dall’esecuzione degli interventi alla stessa spettanti, non è condivisibile.
Infatti dalla documentazione versata in atti risulta che il marginamento si prefigge lo scopo di evitare la migrazione della contaminazione verso le matrici ambientali esterne all’area attraverso la falda, mentre gli interventi di cinturazione sono volti a perseguire l’obiettivo di bonificare il suolo per renderlo fruibile, ove possibile, secondo le destinazioni previste dal piano regolatore vigente.
Anche le cesure di cui al ventitreesimo motivo devono pertanto essere respinte.
11. Parimenti infondate sono le censure di cui al ventiquattresimo motivo, con le quali la ricorrente lamenta la violazione dell’accordo transattivo del 19 marzo 2006, relativamente alla richiesta di presentare un’integrazione al progetto di bonifica delle acque di falda, perché in assenza della realizzazione da parte del Ministero degli interventi di marginamento e retromarginamento, non è possibile redigere un progetto di bonifica della falda.
La doglianza va respinta perché, come sopra precisato, gli interventi di marginamento e retromarginamento si prefiggono lo scopo di evitare la migrazione della contaminazione verso le matrici ambientali esterne all’area, mentre la bonifica della falda è volta a rimuovere le cause della contaminazione per rendere, ove possibile, fruibile l’area, e quindi tali interventi concettualmente operano su piani distinti e l’esecuzione degli interventi di marginamento non implica l’inutilità degli interventi di bonifica.
In definitiva il ricorso originario deve essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse, mentre i motivi aggiunti devono essere respinti.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, III Sezione, definitivamente pronunciando, dichiara l’inammissibilità del ricorso originario, e respinge i motivi aggiunti.
Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore del Ministero dell’Ambiente, della Regione Veneto e del Comune di Venezia, liquidandole nella somma, per ciascuna Amministrazione, di € 5.000,00, per spese, diritti ed onorari.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 23 gennaio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Di Nunzio, Presidente
Riccardo Savoia, Consigliere
Stefano Mielli, Consigliere, Estensore
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/02/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)