New Page 2

Le ecopiazzole all'esame della Cassazione

di Vincenzo PAONE

(articolo pubblicato in Foro It. gennaio 2006 col. 4.)

New Page 1

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 27 giugno 2005; Pres. DE MAIO; Est. ONORATO; P.M. GERACI (concl. conf.); ric. Righetti. Conferma Trib. riesame Perugia 21 marzo 2005.

Sanità pubblica – Raccolta rifiuti urbani - Ecopiazzole – Necessità dell’autorizzazione - Fattispecie (D.leg. 5 febbraio 1997 n. 22, attuazione delle direttive 91/156/Cee sui rifiuti, 91/689/Cee sui rifiuti pericolosi e 94/62/Cee sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, art. 6, 51).

La c.d. “piazzola ecologica” o “ecopiazzola”, destinata alla raccolta differenziata di rifiuti urbani, si qualifica come attività di “stoccaggio” e perciò la sua gestione da parte del Comune è soggetta ad autorizzazione regionale o a procedura semplificata secondo le regole generali (nella specie, in un'area recintata e pavimentata venivano raccolte in forma differenziata varie tipologie di rifiuti conferiti dai cittadini; i rifiuti, previo controllo qualitativo e quantitativo da parte di dipendenti comunali, stazionavano in attesa che le ditte debitamente autorizzate li prelevassero per destinarli allo smaltimento o al recupero). (1)

II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 21 aprile 2005; Pres. POSTIGLIONE; Est. ONORATO; P.M. PASSACANTANDO (concl. diff.); ric. Zunino. Conferma Trib. riesame Savona 28 settembre 2004.

Sanità pubblica – Raccolta rifiuti urbani - Ecopiazzole – Necessità dell’autorizzazione - Fattispecie (D.leg. 5 febbraio 1997 n. 22, art. 6; l. 8 agosto 2002 n. 178, art. 6, 51).

La c.d. “piazzola ecologica” o “ecopiazzola”, destinata alla raccolta differenziata di rifiuti urbani, si qualifica come attività di “stoccaggio” e perciò la sua gestione da parte del Comune è soggetta ad autorizzazione regionale o a procedura semplificata secondo le regole generali (nella specie, un comune aveva istituito un'area presso cui i rifiuti venivano conferiti sia dalla ditta appaltatrice del servizio di raccolta sia direttamente dai cittadini in vista del loro smaltimento definitivo o recupero; i rifiuti, previa cernita, venivano accumulati sull’area provvisoriamente in attesa della periodica attività di smaltimento). (2)

(1-2) Questione nuova con riferimento all’inquadramento delle “ecopiazzole” come fase di gestione dei rifiuti costituita dallo stoccaggio. Infatti, la Cassazione si era già occupata di un'area ecologica comunale adibita, senza la prescritta autorizzazione regionale, a deposito di rifiuti sia urbani sia pericolosi, ma nel caso in questione era stato ipotizzato il più grave reato di cui all'art. 51, 3° comma, d.leg. 22/97 (in ordine al quale la Corte ha osservato che “l'attività di gestione - sistematica, reiterata e ripetuta nel tempo - risulta caratterizzata da connotazioni organizzative (anche attraverso l'apposizione di cassonetti all'interno dell'area) e ad essa si connette un tendenziale degrado dello stato dei luoghi per effetto della presenza di materiali destinati all'abbandono. Le argomentazioni anzidette conservano validità pure nel vigore della disciplina posta dal d.leg. 13.1.2003, n. 36 (Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti), che non contiene disposizioni più favorevoli per l'indagato. Il sito di accumulo di rifiuti valutato nel presente giudizio va considerato, infatti, "discarica" anche alla stregua della definizione fornita dall'art. 2, lett. g), d.leg. n. 36/2003, non configurandosi, nella specie, deposito temporaneo, ne' stoccaggio in attesa di recupero o trattamento, ne' stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno”: così Cass. 20 gennaio 2005, Manzoni, Ced Cass., rv. 231636 – 231637).
In dottrina, aderisce senza riserve alla posizione assunta dalla Corte suprema, SANTOLOCI, “Ecopiazzole” - la cassazione: e’ attivita’ di stoccaggio soggetta ad autorizzazione regionale – la provincia non puo’ derogare alla norma nazionale e riservare la gestione ai sindaci, in www.dirittoambiente.com (ID., Le "ecopiazzole" sono stoccaggi, depositi temporanei o di libera realizzazione da parte dei comuni?, ibid.). Più articolata la posizione di GARZIA, Osservazioni sul problema della qualificazione giuridica delle c.d. ecopiazzole comunali. Riflessione dopo la sentenza della Cassazione del 18 luglio 2005, in www.giuristiambientali.it e di CARRUBBA-QUADRACCIA, Ecopiazzole, Isole ecologiche, Ecocentri, in www.lexambiente.com.
Sulla questione, v. anche MILOCCO, Le ecopiazzole devono essere autorizzate?,in Riv. giur. ambiente, 2002, 510.

***

Le ecopiazzole all’esame della Cassazione
Con due sentenze (dello stesso estensore) emesse a distanza di pochi mesi l’una dall’altra la Corte suprema si è pronunciata sulle cd. ecopiazzole istituite dai comuni affermando che debbano essere munite della prescritta autorizzazione.
La tesi non persuade, ma prima di spiegare le ragioni del dissenso che riguarda entrambe le pronunce, ci pare opportuno soffermarci su alcune peculiarità di ciascuna delle fattispecie esaminate.
Nella vicenda oggetto della decisione Righetti, la difesa, per escludere la contestata contravvenzione di cui all'art. 51, 1° comma, aveva fatto leva sulle nozioni di produzione, di raccolta, di stoccaggio e soprattutto di deposito temporaneo di rifiuti. La Corte si è però sbarazzata facilmente di questa prospettazione perché il luogo di produzione dei rifiuti non è certamente la “piazzola ecologica” dove gli abitanti conferiscono i rifiuti differenziati e perciò l'attività gestita dal comune non poteva qualificarsi come “deposito temporaneo”, bensì costituiva un vero e proprio stoccaggio (art. 6, lett. l).
In ordine alla necessità di un preventivo controllo da parte dell'autorità amministrativa, la Cassazione è dell’avviso che, in assenza di specifica norma derogatoria, “la competenza dei comuni a curare la gestione dei rifiuti urbani e assimilati e a disciplinarla con appositi regolamenti comunali ai sensi dell'art. 21 d.leg. n. 22 non configura alcuna deroga alla disciplina di cui ai capi IV e V del titolo I dello stesso decreto: in particolare non esonera gli stessi comuni che intraprendono operazioni di smaltimento o di recupero, anche nella forma incoativa dello stoccaggio, dall'obbligo di munirsi del necessario titolo abilitativo”.
Nella sentenza Zunino, la difesa aveva sostenuto che le cd. ecopiazzole altro non sarebbero che un centro di raccolta dei rifiuti urbani che i comuni possono gestire in regime di privativa in assenza di autorizzazione regionale. Come nell’altra pronuncia, la Corte non è d’accordo, ma non è del tutto chiaro se, a giudizio della Cassazione, la gestione dell’area poteva considerarsi lecita se fosse stata "destinata esclusivamente al conferimento di rifiuti urbani ingombranti da parte dei cittadini": sembra di sì, tenuto conto che ciò che è stigmatizzato – ai fini della rilevanza penalistica dell’attività svolta – è il fatto che il servizio pubblico effettuava la cernita e la separazione dei rifiuti accumulati provvisoriamente in attesa della periodica attività di smaltimento.
Viene logico dedurre che se l’ecopiazzola fosse stata gestita negli stretti confini indicati dalla Corte, si sarebbe trattato di una modalità del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani equivalente, quanto a risultati, alla predisposizione degli appositi “cassonetti” installati lungo le strade per consentire il conferimento dei rifiuti (anche in forma differenziata) da parte dei cittadini.
Comunque, la sentenza esclude che l’attività in questione costituisse una raccolta di rifiuti sostenendo che “per raccolta si intende l'operazione di prelievo, di cernita e di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto [art. 6, comma 1, lett. e)], sicchè essa è necessariamente effettuata nel luogo di produzione dei rifiuti”.
Questa perentoria affermazione non trova un solido aggancio nel testo della disposizione invocata (e neppure nell’art. 1 della direttiva 75/442 che definisce la "raccolta" come l'operazione di raccolta, di cernita e/o di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto): infatti, non vi sono elementi testuali o logici per asserire che il concetto di raggruppamento dei rifiuti, richiamato nella citata norma, vada limitato alla sola operazione di ritiro dei rifiuti presso i singoli produttori e perciò si può anche opinare che nella “raccolta” dei rifiuti rientri anche l’attività svolta mediante il loro conferimento (e successivo stazionamento) in un determinato luogo a ciò deputato.
A favore di questa interpretazione, un’indicazione normativa di un certo peso si rinviene nel recentissimo decreto sui rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche: infatti, l’art. 3 d.lg. 25 luglio 2005 n. 151, nel definire i centri di raccolta dei RAEE, adotta questa nozione: “spazi, locali e strutture per la raccolta separata e il deposito temporaneo di RAEE predisposti dalla pubblica amministrazione o su base volontaria da privati”, e nel definire la “raccolta separata” stabilisce che si tratta di “operazioni di conferimento e di raggruppamento in frazioni merceologicamente omogenee dei RAEE presso i centri di raccolta”.
Ci sembra che il tenore letterale di queste definizioni confermi che è piuttosto riduttiva l’interpretazione seguita dalla Cassazione. D’altronde, diversamente ragionando, si dovrebbe ritenere soggetta a permesso anche la raccolta dei rifiuti urbani attuata mediante la gestione dei cassonetti collocati lungo le strade perchè anche in questa situazione i rifiuti sono ammassati in luoghi diversi da quelli ove sono stati prodotti.
Messi comunque da parte questi secondari rilievi, veniamo alla tematica principale, e cioè quella secondo cui la piazzola ecologica costituisce un centro di stoccaggio per il quale non sarebbe invocabile la deroga di cui all'art. 21, 1° comma, d.leg. 22/97.
Orbene, è stato da tempo chiarito che il diritto di privativa non attribuisce al comune la potestà di esercitare liberamente qualsiasi attività afferente la gestione dei rifiuti. Ci hanno infatti pensato le sezioni unite 28 febbraio 1989, Porto, Foro it., 1989, II, 353, che, chiamate a pronunciarsi sull’obbligo di autorizzazione anche per le discariche comunali, hanno così concluso: “la contrapposizione «autorizzazione amministrativa-adempimento di un obbligo», è impropriamente configurata nella specie, dal momento che l’obbligo del comune di provvedere allo smaltimento dei rifiuti urbani (art. 3 d.p.r. 915/82) non contrasta con l’obbligo di richiedere autorizzazione regionale (art. 6), ove intenda provvedervi a mezzo discarica, né quell’obbligo di smaltimento ricomprende anche l’impianto e la gestione di una discarica e dunque un’implicita esenzione dal provvedimento autorizzativo”.
La Corte non ha esplicitamente preso in considerazione la diversa ipotesi di gestione di “impianti di smaltimento dei rifiuti urbani” (così recitava la lett. c) e d) dell’art. 6) da parte del comune, ma ci pare evidente che, essendo identico il regime cui erano sottoposti (nel citato decreto) le discariche e gli altri “impianti di innocuizzazione e di eliminazione”, era perfettamente logico ritenere che l’autorizzazione fosse necessaria anche per svolgere attività di smaltimento dei rifiuti a mezzo impianti di trattamento che, al pari della discarica, rappresentano un concreto pericolo per la tutela dell’ambiente.
Da questo punto di vista, è ancora attuale e senz’altro convincente il ragionamento svolto dalla Corte Suprema che, per spiegare la ratio della normativa, ha osservato che “la regione, nel rilasciare l’autorizzazione, esercita il suo potere di vigilanza e di controllo, attribuitole dalla legge in materia ed in particolare in tema di quantità, struttura, localizzazione, funzionamento, innocuità, miglioramento, eliminazione delle discariche, controllo che sarebbe frustrato se taluni soggetti, sia pure a qualificazione pubblica come i sindaci dei comuni, potessero autonomamente provvedere all’impianto ed alla gestione di discariche, con le immaginabili possibili conseguenze di sovrapposizione, distorsioni, confusioni, inquinamenti, deturpazioni, nell’ottica dell’area operativa propria della regione, che deve agire sulla base di un programma organico ed unitario per le dichiarate finalità d’interesse pubblico”.
Per la verità, si potrebbe muovere un’obiezione alla qui operata ricostruzione del sistema e cioè che nella stessa sentenza Porto si legge che “la normativa vigente, ponendo la condizione del provvedimento autorizzativo da parte della regione per lo smaltimento dei rifiuti e per la installazione e gestione dei relativi impianti (di trattamento, di stoccaggio, di discarica), non prevede deroghe o situazioni particolari di possibili esenzioni, a favore di soggetti pubblici o privati”.
L’aver posto, accanto agli impianti di trattamento, anche quelli di stoccaggio potrebbe allora essere inteso come un implicito pensiero della Corte favorevole a considerare unitariamente le citate attività di smaltimento.
E’ però facile replicare che la Corte non ha per nulla approfondito questa problematica (irrilevante ai fini della decisione) e perciò l’argomento testuale prova troppo. Ma vi è di più. Infatti, mentre nel decreto n. 915 era prevista l’autorizzazione per l’impianto e la gestione di una discarica senza alcuna eccezione (in relazione alla tipologia e provenienza del rifiuti), un analogo regime non era previsto in modo indifferenziato per l’effettuazione di altre attività di smaltimento dei rifiuti.
La lett. d) dell’art. 6 è infatti illuminante al riguardo: l'autorizzazione era prevista, oltre che per effettuare lo smaltimento dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi da parte di enti o imprese, anche per l’installazione e la gestione degli impianti di innocuizzazione e di eliminazione dei rifiuti speciali, approvati ai sensi della precedente lett. c), e per ciascuna delle operazioni di smaltimento dei rifiuti tossici e nocivi di cui all’art. 16.
In questo quadro, è rilevante ricordare che lo stoccaggio dei rifiuti era soggetto ad autorizzazione – anche quando effettuato all’interno dell’azienda produttrice – solo in relazione ai rifiuti tossici e nocivi. Perciò, non era affatto contrario ai principi generali opinare, con riferimento all’obbligo di provvedere allo smaltimento dei rifiuti urbani che faceva capo al comune, che l’autorizzazione non fosse necessaria per l’attività di stoccaggio.
Nella giurisprudenza successiva a Cass. Porto la tematica sopra sviluppata è stata esaminata, per quanto ci risulta, in poche decisioni.
Secondo Cass. 17 giugno 1992, Amabile, id., Rep. 1993, voce Sanità pubblica, n. 37, è necessaria l’autorizzazione della regione per il comune che operi la concentrazione dei rifiuti urbani e speciali prodotti sul suo territorio in una determinata area, anche se il definitivo allontanamento dei rifiuti stessi sia stato affidato ad apposita impresa appaltatrice; ciò perché l’attività di concentrazione coinvolge le fasi di smaltimento consistenti nella raccolta, trasporto e stoccaggio provvisorio in area la cui individuazione è anche di competenza della regione.
La pronuncia suscita qualche perplessità: nella fattispecie, i rifiuti urbani “venivano talvolta prelevati contestualmente al deposito e talvolta dopo qualche ora” sicchè, a parere della difesa, poteva configurarsi un deposito o raccolta momentanei per i quali non era prevista alcuna autorizzazione a tenore degli artt. 6, lett. d), e 10 d.p.r. n. 915 (si ricordi, comunque, che la detenzione per brevissimi periodi di rifiuti non concreta un loro stoccaggio provvisorio soggetto ad autorizzazione regionale, purché risulti che detti rifiuti sono trattenuti in attesa del ritiro da parte di ditte specializzate, e che tale ritiro sia frequente e comunque a scadenze molto ravvicinate: così Cass. 13 febbraio 1992, G.G., id., Rep. 1992, voce cit., n. 389). La Corte, viceversa, ha sostenuto che nell'accezione “smaltimento dei rifiuti urbani e speciali” vanno ricomprese le varie fasi (tra cui il trasporto e lo stoccaggio provvisorio) scandite dall'art. 16 d.p.r. n. 915 per ognuna delle quali sono richieste altrettante autorizzazioni; che codeste fasi appaiono coinvolte nell'attività di concentrazione dei rifiuti che, a cura del Comune, veniva operata nell'area sequestrata per la presa in consegna da parte dell'impresa appaltatrice del servizio ai fini della definitiva rimozione e trasporto altrove dei rifiuti stessi; che, al definitivo, per l’attività di concentrazione occorreva la preventiva autorizzazione regionale prevista dall'art. 6, lett. d).
Si rileva però un equivoco in cui è caduta la Cassazione che ha chiamato in causa l’art. 16 d.p.r. n. 915 concernente i rifiuti tossici e nocivi, mentre nella specie si discuteva di rifiuti urbani. Per effetto di questa erronea impostazione del problema, la Cassazione non ha perciò spiegato perchè la fase operativa denominata con il termine “concentrazione” non potesse ritenersi compresa nell’attività di raccolta dei rifiuti urbani oggetto di privativa comunale e quindi esentata dall’obbligo di autorizzazione.
Nella successiva sentenza del 26 ottobre 2001, Lanfranconi, id., Rep. 2002, voce cit., n. 692, la Corte è stata invece dell’avviso che la temporanea conservazione dei rifiuti all’interno di una piazzola per la raccolta differenziata non è soggetta ad autorizzazione ai sensi della l. reg. Lombardia 1º luglio 1993 n. 21.
In questa decisione, tuttavia, non troviamo alcun particolare approfondimento della questione perché la Cassazione, annullando con rinvio la sentenza impugnata per totale carenza di motivazione sul punto decisivo se la condotta attribuita all'imputato potesse farsi effettivamente rientrare nella nozione di conservazione temporanea di rifiuti all'interno di una piazzola per la raccolta differenziata ai sensi della legislazione regionale, non ha enunciato una propria posizione esplicita sul concetto di ecopiazzola oggetto del procedimento.
Per inciso, si può comunque osservare che la Cassazione parrebbe aver implicitamente avallato il principio che la legislazione regionale possa individuare le strutture destinate alla raccolta dei rifiuti che necessitano di autorizzazione rispetto a quelle che non sono soggette a tale adempimento.
Sull’argomento si registra invece un esplicito intervento da parte del Consiglio di Stato (sent. 17 febbraio 2004 n. 609, id., Rep. 2004, voce cit., n. 750).
La sentenza merita di essere debitamente segnalata in primo luogo perché ha evidenziato che “Se è vero che nella normativa vigente non appare la formula, né, quindi, la definizione di “area ecologica”, utilizzata dal Comune appellante, è altresì vero: a) tanto che una formula sufficientemente simile (isola ecologica) è utilizzata nell’art. 9, comma 3, del d.p.r. 27 aprile 1999, n. 158, per designare i luoghi dove è “attivata” la raccolta differenziata dei rifiuti che può dar adito ad agevolazioni tariffarie; b) quanto che se ne dà sufficiente descrizione nel provvedimento impugnato, considerato che riguarda l’apprestamento di un’area per la raccolta differenziata dei rifiuti; c) quanto che il citato art. 6 del d. lgs. n. 22/1997, alla lettera e) del comma 1, inscrive la fase della raccolta differenziata in quella della raccolta in generale, e dunque prima che si dia luogo al trasporto, ma altresì, e principalmente, prima che si proceda allo smaltimento o al recupero dei rifiuti”.
Nel merito, dopo aver premesso che il primo giudice aveva visto, nell’area in esame, lo svolgimento di una funzione di “deposito temporaneo” dei rifiuti, in attesa della loro spedizione ai “centri di recupero”, di funzioni di raggruppamento o di “deposito preliminare”, ma anche un impianto di smaltimento “o, meglio, di recupero, considerata la natura dei rifiuti trattati”, ha perspicuamente messo in risalto che “Nessuna delle caratteristiche ora descritte giustifica però la conclusione che sia stato progettato che nell’area si possano svolgere attività che attengono alla fase di smaltimento o di recupero, e che perciò essa sia riconducibile fra gli impianti a questi due ultimi scopi destinati. Lo smaltimento, secondo lo stesso art. 6 citato, consta delle operazioni elencate nell’allegato B al decreto legislativo. Sono tutte operazioni che concernono il trattamento finale o conclusivo dei rifiuti (v. le voci dalla D 1 alla D 14). Il deposito preliminare, poi, contemplato nella voce D 15, è definito come quello che si colloca, in sequenza temporale, “prima delle operazioni di cui ai punti” precedenti. E, perciò, dopo la fase del trasporto, che, nel caso in esame, vale a dire della raccolta differenziata, non vi è stata ancora. Il recupero, sempre secondo la stessa norma, consiste in una delle attività elencate nell’allegato C. Sono tutte operazioni che si traducono in una nuova utilizzazione dei rifiuti o nella loro rigenerazione o nel loro “riciclo”: si vedano anche le definizioni che sono date nell’art. 4 del decreto legislativo. Il senso della relazione riportato dallo stesso T.A.R. non consente di affermare che la raccolta e la separazione dei rifiuti, previste nell’area “ecologica” in discussione, si atteggi come attività di recupero dei rifiuti stessi, quale è definita dal testo normativo”.
Il Consiglio di Stato ha pertanto concluso che un’area ecologica nella quale si pone unicamente in essere un’attività di raccolta, con pesatura e raggruppamento (o separazione) dei vari tipi di rifiuto conferiti dai cittadini, senza che vengano svolte altre operazioni di smaltimento e/o di recupero (in senso stretto), non costituisce impianto di smaltimento e di recupero dei rifiuti stessi e non richiede quindi la procedura di valutazione di impatto ambientale prescritta per gli stessi.
Tale tesi può essere condivisa. Se, come ritiene anche Cass. Zunino, è necessario accertare la natura delle operazioni in concreto svolte dall’ente comunale per verificare se siano incluse tra quelle soggette ad autorizzazione o tra quelle liberamente esercitabili in regime di privativa ex art. 21, è legittimo concludere che le operazioni di gestione di rifiuti che si riducano al raggruppamento degli stessi, alla loro cernita – eventualmente come attività complementare della raccolta differenziata – e al loro provvisorio stazionamento in loco in attesa del ritiro da parte di altri soggetti (in funzione di successive operazioni di smaltimento o recupero), pur incasellandosi nella tipologia dello “stoccaggio” (nella duplice forma del deposito preliminare o della messa in riserva), non richiedano il rilascio dell’autorizzazione (o l’attivazione della procedura semplificata) perchè sono strutturalmente e logicamente connesse alla fase della raccolta, e quindi rappresentano una modalità di effettuazione di un servizio obbligatorio per il comune, e perché non presentano profili di pericolosità per l’ambiente maggiori di quelli derivanti da un sistema di raccolta dei rifiuti effettuato con il loro prelievo diretto presso il luogo di produzione e con il trasporto all’impianto deputato all’esercizio delle operazioni descritte nell’allegato B o C del d.leg. 22/97.