Le conoscenze giuridiche delle parti processuali devono risolvere le difficoltà create dal legislatore: le esigenze di celerità e semplificazione non giustificano la forzatura dei principi che delimitano l’oggetto della consulenza tecnica.
(Nota a ordinanza del Tribunale di Firenze in composizione monocratica, Giudice Dott. Gaetano Magnelli, udienza dell’11 maggio 2015)
di Michele PETRONZI
1. La Procura di Firenze, “ritenuto necessario procedere a consulenza tecnica collegiale per verificare la legittimità della gestione dei rifiuti” relativamente alla realizzazione dei lavori di ampliamento di un tratto autostradale, conferiva incarico di consulenza ad un Ingegnere e ad un avvocato esperto in diritto ambientale e chiedeva loro, tra l’altro, se il piano di gestione delle terre e rocce da scavo predisposto dall’Impresa impegnata nei predetti lavori permettesse “di qualificare detto materiale come non rifiuto o comunque come materiale non assoggettabile alla disciplina dei rifiuti” di cui all’art. 186 del D. L.vo n. 152 del 2006 (c.d. Testo Unico dell’Ambiente).
In sede di richieste di prova ex art. 493 C.p.p., il Tribunale di Firenze in composizione monocratica veniva chiamato a pronunciarsi sull’ammissibilità dell’esame del Consulente giuridico.
In sintonia con le argomentazioni sviluppate con memoria scritta dalla difesa di uno degli imputati, il Giudice pronunciava ordinanza di inammissibilità ritenendo che il conferimento dell’incarico all’Avvocato “ha un contenuto che non è riferibile a una conoscenza tecnico scientifica ma è un contenuto che afferisce alla competenza giuridica molto approfondita” che detto Avvocato ha maturato nel settore del diritto ambientale.
Questo contenuto, a giudizio del Tribunale, “non può formare oggetto di incarico” perchè attiene alla precipua competenza ed al precipuo dovere che incombe “ai Magistrati, agli Avvocati e, quindi, in definitiva, al Giudice”.
Il difficile inquadramento della condotta contestata nello schema normativo, assai “travagliato” della gestione delle terre e rocce da scavo, giustifica una difficoltà intellettuale dell’interprete ma non giustifica “che si possa incaricare un esperto .. per risolvere la questione”.
Segue, nella motivazione dell’ordinanza, il richiamo esplicito al principio, operativo anche in sede civile, che “non può essere demandato al perito, id est consulente di parte, la soluzione di questioni giuridiche che rientrano, o meglio debbono rientrare nella precipua competenza cognitiva delle parti processuali” (Pubblico Ministero, Difensori e Giudice).
Alla luce dei motivi esposti, pertanto, il Giudice non ammetteva l’esame del Consulente giuridico e, ritenuto che la Consulenza, seppur congiunta, consentisse di distinguere l’apporto dell’Ingegnere da quello dell’Avvocato, dichiarava non acquisibile agli atti del dibattimento la parte della Consulenza relativa alle valutazioni formulate da quest’ultimo.
2. L’ordinanza, rievocando un principio generale del nostro sistema processuale, che riserva al giudice la conoscenza e la valutazione su materie e questioni giuridiche (c.d. “iura novit curia”), delimita l’oggetto della consulenza tecnica e, nel caso in esame, argina indebiti sconfinamenti della Pubblica Accusa.
Il tema non appartiene all’attualità della giurisprudenza penale; proprio questa desuetudine dona interesse alla pronuncia del Giudice fiorentino che, utilmente, richiama l’attenzione sulla questione anche al fine di scongiurare il rischio (e la tentazione) di trasferire al personale tecnico competenze valutative proprie di altri soggetti processuali.
I riferimenti normativi per inquadrare la tematica sono l’art. 359 C.p.p., che consente al Pubblico Ministero di nominare ed avvalersi di consulenti “quando procede ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze”, e l’art. 73 delle norme di attuazione al C.p.p., nel quale è previsto che il Pubblico Ministero, di regola, scelga il Consulente tecnico nell’albo dei periti di cui all’art. 67 delle medesime norme attuative.
Sullo stesso tenore, le norme del C.p.p. che disciplinano la perizia stabiliscono che “la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” (art. 220) e che “il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica materia” (art. 221).
Va fatto notare, in calce al richiamo della normativa rilevante, che l’albo dei periti di cui all’art. 67 delle Disposizioni di attuazione, tra le varie categorie di esperti (“medicina legale, psichiatria, contabilità, ingegneria e relative specialità, infortunistica del traffico e della circolazione stradale, balistica, chimica, analisi e comparazione della grafia interpretariato e traduzione”), non contempla l’esperto in materie giuridiche. Una mancanza, questa, che detta indicazioni chiare sulla possibilità di devolvere al consulente tecnico la soluzione di questioni giuridiche.
Come detto, la giurisprudenza penale sull’oggetto della consulenza tecnica è piuttosto risalente: mai si è discostata, comunque, dall’inammissibilità dell’esame del consulente tecnico quando l’attività sulla quale deve essere sentito non richiede le “specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” cui l’art. 220 C.p.p. subordina la nomina del perito, ovvero le “specifiche competenze” cui l’art. 359 C.p.p. condiziona l’intervento del consulente nel corso delle indagini preliminari (1).
In tempi più recenti, la Corte di Cassazione ha operato una sottile distinzione tra conferimento al consulente del compito di interpretazione delle norme giuridiche ed affidamento allo stesso di “precisi quesiti attinenti a questioni di fatto che naturalmente possono presupporre una certa interpretazione delle norme di legge che regolano tali materie, senza per questo dover ritenere che via sia stata una sostituzione nella attività finale di interpretazione, che è riservata al giudice”. Salvo comunque ribadire, in linea con l’orientamento generale, che al consulente può essere affidato un compito “che richieda competenze tecniche o scientifiche diverse da quelle giuridiche proprie dell’inquirente”, mentre non è riconducibile alla nozione di consulenza tecnica la delega di attività investigative o valutative tipiche del pubblico ministero e della polizia giudiziaria (2).
Particolarmente interessante sul tema si è rivelata una sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite civili a seguito di ricorso avverso una sentenza della Sezione disciplinare del C.S.M. (3) che aveva inflitto una sanzione ad un P.M., responsabile di aver recato nocumento al prestigio dell’ordine giudiziario attraverso il conferimento ad un consulente tecnico di compiti spettanti esclusivamente al magistrato.
Con l’atto di ricorso, la difesa del P.M. denunciava l'errore di diritto nel quale sarebbe incorsa la Sezione disciplinare nell'equiparare la consulenza tecnica nelle controversie civili, disposta dal giudice, a quella di cui può avvalersi il pubblico ministero, al fine di acquisire elementi utili all'esercizio della funzione istituzionale di promovimento dell'azione penale.
Il quesito di diritto che concludeva il motivo di ricorso chiedeva se fosse "violato o falsamente applicato il combinato disposto degli artt. 326, 358 e 359 c.p.p., in relazione al R.D.L. n. 511 del 1946, art. 18”, qualora interpretato nel senso che il Pubblico Ministero “manchi ai suoi doveri” se “nell'ambito dell'attività ritenuta necessaria per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale, ritenga di avvalersi di consulenti le cui specifiche competenze abbiano natura giuridica”.
Le Sezioni Unite, investite della questione, hanno chiaramente affermato che la C.T.U. civile e la C.T. del P.M. “al di là delle differenze .. sul piano della procedura”, sono entrambe contemplate dai codici di rito “al fine di fornire all’organo istituzionalmente deputato alla qualificazione giuridica dei fatti e alla valutazione tecnico giuridica, l’ausilio di accertamenti e giudizi che dipendono dall’applicazione di regole scientifiche e tecniche esulanti dal sapere della figura professionale cui l’ordinamento affida l’esercizio della giurisdizione”.
Questo principio di carattere generale si estende, senza deroghe o adattamenti, alla consulenza del P.M.: “Spetta esclusivamente all'organo investito della funzione istituzionale dell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (Costituzione: art. 102 Cost., comma 1; artt. 104, 107 Cost.) la valutazione di tutti gli elementi di diritto che fondano l'obbligo, siano essi attinenti agli elementi normativi della fattispecie criminosa, sia che investano fatti la cui valutazione e qualificazione giuridica appare comunque indispensabile per lo svolgimento di indagini, indipendentemente dal settore del diritto la cui cognizione è richiesta”.
Al quesito di diritto formulato dal ricorrente le Sezioni Unite hanno quindi riservato la seguente conclusione: “non rispetta l'art. 359 c.p.p., comma 1, il Pubblico Ministero che nomini e si avvalga di consulenti tecnici in possesso di specifiche competenze in materie giuridiche, incaricandoli di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica di fatti e la conformità al diritto di comportamenti, e l'errore professionale del magistrato, per la sua idoneità a rilevare difetto di consapevolezza dell'essenza della funzione istituzionale, può recare nocumento al prestigio dell'ordine giudiziario ai sensi del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18”.
Appare interessante sottolineare che anche in relazione al processo amministrativo, la giurisprudenza ha precisato che la consulenza tecnica (di cui all’art. 63 del Codice) “può essere disposta dal giudice quando l’esercizio del potere amministrativo richiede non una scelta di opportunità ma l’esatta valutazione di un fatto secondo i criteri di una determinata scienza o tecnica, così che essa costituisce un mezzo d’indagine finalizzato ad aiutare il giudice nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze”. (4)
L’ordinanza del Giudice di Firenze, dunque, ha delimitato l’oggetto della Consulenza tecnica in piena conformità al dettato normativo ed agli orientamenti della giurisprudenza civile, penale ed amministrativa.
Da sempre, peraltro, anche la dottrina ha escluso che il giudice possa disporre una perizia o ammettere una consulenza per risolvere questioni di diritto: è necessario che il tema di prova devoluto al perito o al consulente tecnico richieda particolari cognizioni che il giudice non ha e non è tenuto ad avere (5).
Un autorevole processualista ha evidenziato la varietà di contenuti dell’attività peritale -rilevare i fatti usando tecniche operative specialistiche oppure esporre massime di esperienza su premesse ipotetiche anziché empiricamente verificate oppure ancora combinare la rilevazione dei dati alle massime formulando conclusioni induttive- ma sempre ribadendo che la stessa debba esercitarsi in un campo tecnico (che è pura abilità), scientifico (che implica una sintassi) o artistico (6).
3. La giurisprudenza, in relazione allo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale, ha riconosciuto ai periti ed ai Consulenti tecnici “sostanziale qualità di testimoni” (7).
E’ indubbio, tuttavia, che la padronanza di una cultura specialistica, estranea al bagaglio conoscitivo degli altri soggetti del processo colloca, di fatto, tali “testimoni esperti” su uno scranno privilegiato.
La prerogativa di possedere la tecnica per veicolare nel processo -in via esclusiva rispetto al Giudice, al P.M. ed ai difensori- un compendio di informazioni e di valutazioni che, rispettivamente, le altre parti non hanno o non sono in grado di formulare, rappresenta la cifra qualitativa di tali figure all’interno del processo.
Da questo tratto di esclusività -che è proporzionale al livello di competenza richiesto dal quesito oggetto della perizia o della consulenza- deriva come naturale corollario una maggiore autorevolezza e stabilità degli apporti resi al processo dai “testimoni esperti” rispetto a quelli degli altri testimoni.
Quando il giudice deve smentire la tesi sostenuta da un perito o da un consulente, lo standard argomentativo richiesto per giustificare la decisione diventa necessariamente più elevato e più complesso. Occorre, infatti, indicare non solo le ragioni logiche e fattuali ma anche quelle scientifiche che hanno indotto il giudice a preferire una tesi in luogo di un’altra o, ancor di più, a seguire percorsi completamente diversi da quelli indicati dai periti o dai consulenti. (8)
A supporto dell’inequivocabile dato normativo (artt. 220 e 359 C.p.p.), i lineamenti tipici delle figure in esame, fin qui tratteggiati, confermano la necessità di escludere le questioni giuridiche dai relativi incarichi.
Periti e consulenti, infatti, muovendosi in un’area non più esclusiva ma comune agli altri soggetti processuali, quale quella giuridica, perderebbero i propri connotati di tipicità; allo stesso tempo, la maggiore autorevolezza del loro intervento nel processo, applicata alle questioni giuridiche, si tradurrebbe in una sorta di interpretazione autentica delle norme, con un evidente ed indebito sconfinamento nell’area riservata alla funzione giudiziaria.
Un recentissimo contributo (che, tra l’altro, trae spunto dalla medesima ordinanza oggetto della presente nota), con apprezzabile efficacia descrittiva, manifesta stupore di fronte all’ipotesi che, “mentre un artigiano che lavora in una piccola officina senza dipendenti e tanto meno consulenti, non si orienta nell’intricata selva di disposizioni ambientali, ad esempio in punto sottoprodotti o olii esausti, che si sono succedute nel tempo con linguaggio tecnico di difficilissima comprensione, non può mai sostenere “non ho capito cosa debbo fare, come lo debbo fare e quando lo debbo fare”, un Pubblico Ministero possa, invece, fruire di un Consulente tecnico-giurista per individuare le norme di legge sotto le quali sussumere il fatto concreto” (9).
Nella medesima direzione suggerita dalle considerazioni fin qui svolte, il pensiero che l’intervento di un consulente per “aiutare” il P.M. nella ricostruzione ed interpretazione di un quadro normativo particolarmente complesso (come quello che si è delineato, nel tempo, in tema di terre e rocce da scavo), possa determinare motivi di inopportunità e squilibrio nei rapporti tra il cittadino e la pubblica accusa appare un rilievo assolutamente condivisibile e non può che rafforzare la lettura dell’oggetto della consulenza fornita dall’ordinanza del Giudice di Firenze (10).
NOTE
1) Corte di Cassazione, II Sezione penale, sentenza n. 4523 del 27 novembre 1992; Tribunale di Palermo, sentenza del 21 maggio 1996, in Diritto penale e processo, 1997, pag. 333; Tribunale di Genova, sentenza del 20 febbraio 2003, in Giur. di merito, 2004, pag. 1212; Corte di Appello L’Aquila, sentenza del 14 aprile 1999, in PQM, 1999, pag. 53; Corte di Cassazione, VI Sezione penale, sentenza n. 7671 del 14 gennaio 2004 (sentenza c.d. “Peroncini”).
2) Corte di Cassazione, VI Sezione penale, sentenza n. 2818 del 2 ottobre 2006.
3) Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 11037 del 6 maggio 2008.
4) Consiglio di Stato, V Sezione, sentenza n. 5032 del 7 settembre 2011.
5) Lozzi, Lezioni di procedura penale, 2007, pag. 258; Siracusano, Galati, Tranchina e Zappalà, Diritto processuale penale, 2013, pag. 290.
6) Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, pag. 785.
7) Corte di Cassazione, III Sezione penale, sentenza n. 4672 del 22 ottobre 2014 e n. 8377 del 17 gennaio 2008. Per lungo tempo si è ritenuto che i consulenti tecnici fossero equiparati ai testimoni solo in relazione alle dichiarazioni che investono gli esiti obiettivi degli accertamenti espletati e non anche in relazione alle valutazioni tecnico-scientifiche formulate. Valutazioni che, in quanto espressive di personali opinioni, non sarebbero qualificabili in termini di verità o di falsità.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 51824 del 25 settembre 2014, hanno superato questa limitazione affermando la totale equiparazione del consulente (nello specifico, del consulente del P.M.) al testimone “anche quando formula giudizi tecnico scientifici sul presupposto che “può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili ovvero che sia posto a conclusione di un ragionamento fondato su premesse contenenti false attestazioni”.
8) Il Giudice ha la possibilità di scegliere, fra varie tesi prospettate da diversi periti di ufficio o consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, “purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermata sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie della parti” (cfr. Corte di Cassazione, IV Sezione penale, sentenza n. 16975 del 12 febbraio 2013). E la Corte di legittimità, in sede di controllo, è chiamata “a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto” (Corte di Cassazione, IV Sezione penale, sentenza n. 15495 dell’11 marzo 2014).
9) “Sull’illegittimità della nomina, come consulente tecnico, di un avvocato esperto di diritto ambientale da parte del pubblico ministero”, di Alberta Leonarda Vergine, pubblicata il 22 giugno 2015 in www.lexambiente.it., categoria “Ambiente in genere”, sottocategoria: “Dottrina”.
10) Consulente tecnico del P.M. e consulente tecnico delle parti private, in relazione allo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale, sono entrambi equiparati ai testimoni. La sentenza delle Sezioni Unite richiamata nella nota n. 7 (n. 51824 del 25 settembre 2014), ha operato, tuttavia, una distinzione di ruoli e funzioni tra il consulente tecnico della parte privata, “tradizionalmente concepito come un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore” e quello nominato dal pubblico ministero che “sia pure prestando un’attività di ausilio a una “parte” del processo, ripete, dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva, i relativi connotati, tanto è vero che acquista natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le attività affidategli dal pubblico ministero. Con la conseguenza che su di lui grava il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e imparzialità, nel senso che la sua funzione è tesa all’accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 c.p.p.)”.
Su queste basi, il recentissimo contributo dottrinale della Prof.ssa Vergine (citato nella nota precedente) ha evidenziato il pericolo che i predetti connotati che caratterizzano la figura del consulente tecnico del P.M. gli conferiscano “maggiore credito processuale” rispetto ai consulenti delle parti private, con il rischio che “il giudice potrebbe essere tentato [e spesso cede(re) alla tentazione] di affidarsi alle conclusioni del consulente del P.M.”. In realtà, nonostante le diverse vesti ritagliate dalle Sezioni Unite sulle due figure di consulenti, la rilevanza probatoria dei consulenti delle parti private è e deve essere uguale a quella dei consulenti del P.M.
Nessuna norma legittima (o paventa) il conferimento al consulente del P.M. di un “maggior credito processuale”; il principio di parità delle parti e di parità delle prove esclude qualsiasi arbitraria sopraelevazione di un consulente rispetto ad un altro; la giurisprudenza ha riconosciuto, in egual misura, al consulente del P.M. ed ai consulenti delle parti private, “la sostanziale qualità di testimone esperto (c.d. expert witness) dei sistemi di common law, che ha ricercato la verità per conto del pubblico ministero (o delle parti private), inserendo conoscenze nel processo e fornendo elementi utili ai fini della decisione” (Corte di Cassazione, III Sezione penale, sentenza n. 4672 del 22 ottobre 2014).
Una sentenza che, senza adeguata motivazione, si “appiattisca” sulle conclusioni del consulente del P.M., solo in virtù del ruolo e della funzione svolti da quest’ultimo quale “ausiliario” della parte pubblica, sarebbe una sentenza irrimediabilmente viziata e, quindi, soggetta a cassazione.
Detto ciò, non si può negare che, nella concreta prassi giudiziaria, esiste il rischio prospettato dall’Autrice del contributo di cui alla nota n. 9, e cioè che il consulente del P.M. sia considerato dal Giudice più credibile dei consulenti delle parti private. Ebbene, questo rischio, nell’ottica della presente nota, rappresenta una ragione ulteriore per evitare che detto consulente possa pronunciarsi, in qualità di esperto, anche su questioni giuridiche.