VALORIZZAZIONE DEI RIFIUTI A FINI ENERGETICI
di Pasquale GIAMPIETRO
- Carenze energetiche e ricorso a fonti rinnovabili.
- I rifiuti urbani e industriali come fonti
rinnovabili: il decreto n. 387/2003 di
attuazione della direttiva 2001/77CE.
- Le esclusioni non attengono ai sottoprodotti/rifiuti
delle lavorazioni del petrolio per la fabbricazione di prodotti destinati a
impieghi civili e industriali, non classificabili come “fonti
assimilate”.
- Le “sostanze derivanti dai processi… il cui scopo primario sia la produzione di vettori energetici”.
- I prodotti energetici fuori specifica.
- Conclusioni e proposte.
Par.
1. Carenze energetiche e ricorso a fonti rinnovabili.
Costituisce ormai un dato acquisito che la produzione nazionale di energia elettrica si presenti nettamente inferiore alle esigenze generali del consumo, tanto è che si rende ancora necessario il ricorso a costanti e massicce importazioni da Paesi terzi, soprattutto comunitari (si pensi, esemplificativamente, alle importazioni dalla Francia in cui resta ancora alta, com'è noto, la quota di produzione di energia elettrica da fonte nucleare).
Già da tale constatazione consegue che, per ridurre la dipendenza energetica del nostro Paese verso i produttori esteri e per garantire la continuità e sicurezza degli approvvigionamenti, si impone - come obiettivo primario di un programma energetico nazionale che voglia presentarsi come intrinsecamente razionale e politicamente credibile - l’incremento della produzione di energia elettrica, favorendo, in particolare, lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili.
Sotto altro profilo, distinto ma convergente, appare altrettanto pacifico che in Italia permane un serio ed irrisolto problema di corretta ed efficiente gestione dei rifiuti - a causa, fra l'altro, di un pesante differenziale fra domanda ed offerta di impianti di recupero e smaltimento - il quale comporta la necessità di meglio razionalizzare l’intero comparto, al fine di assicurare un’elevata protezione dell’ambiente ma, al contempo, tempestive "riserve" energetiche, in particolare, tramite l’adozione di tecniche produttive che riducano al massimo la produzione dei rifiuti e accrescano le attività di recupero.
Fra queste ultime attività merita una posizione privilegiata e nevralgica quella della riutilizzazione dei rifiuti come combustibile per produrre energia.
Allo scopo di contemperare le due esigenze, rappresentate nelle considerazioni precedenti, il legislatore italiano ha scelto di ricomprendere, fra le fonti energetiche rinnovabili, anche l’apporto della parte non biodegradabile dei rifiuti urbani ed industriali, come si desume dai provvedimenti legislativi e regolamentari con cui essa va caratterizzando la sua più recente politica energetica, rappresentati, ai nostri fini specifici, dai seguenti atti:
- il D. L.vo 16/03/99, n. 79 (art. 2, p. 15 del c.d. decreto Bersani);
- il D. M. 11.11.1999 (sui certificati verdi), modificato con D.M. 18/3/2002;
- la legge 01/03/02 n. 39 (legge comunitaria 2001), il cui art. 43, lett. e), impone di "includere, tra le fonti energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, i rifiuti, ivi compresa la frazione non biodegradabile".
- la specifica ma significativa sottolineatura, voluta dal Governo italiano, nella nota 1 dell’Allegato unico della direttiva comunitaria 2001/77/CEE ("sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità"), del seguente tenore: "L'Italia dichiara che il 22% potrebbe essere una cifra realistica, nell'ipotesi che nel 2010 il consumo interno lordo di elettricità ammonti a 340 TWh. Nel tener conto dei valori di riferimento enunciati nel presente allegato, l'Italia muove dall'ipotesi che la produzione interna lorda di elettricità, a partire da fonti energetiche rinnovabili, rappresenterà nel 2010 fino a 76 TWh, cifra che comprende anche l'apporto della parte non biodegradabile dei rifiuti urbani e industriali utilizzati in conformità della normativa comunitaria sulla gestione dei rifiuti. Al riguardo si rilevi che la capacità di conseguire l'obiettivo indicativo enunciato nell'allegato dipenderà, tra l'altro, dal livello effettivo della domanda interna di energia elettrica nel 2010";
- il D.P.C.M. 8/3/2002 (caratteristiche merceologiche dei combustibili);
Va da sé che l’inserimento di una fonte energetica tra quelle “rinnovabili” comporta ovviamente che la stessa debba essere comunque perfettamente eco-compatibile. Le sue emissioni intanto saranno rilasciate e ammesse nell’ambiente in quanto non producano alcun impatto negativo.
In particolare, gli elementi gassosi derivanti dalla combustione sono tenuti a rispettare i valori limiti posti dalla legge vigente sulle emissioni in atmosfera (da sottoporre ai previsti, periodici controlli).
Sia con riferimento alla loro realizzazione che in relazione al rispetto dei limiti di emissione, risulta evidente che gli impianti di produzione di energia elettrica da alcune fonti rinnovabili hanno costi di produzione superiori a quelli da fonti tradizionali, così che la loro diffusione può essere favorita soltanto attraverso un sistema di incentivazione che - dal decreto Bersani cit. - è stato individuato nel meccanismo dei certificati verdi, razionalmente basato sull’obbligo, per i produttori ed importatori di energia elettrica da fonti non rinnovabili, di immettere nel sistema elettrico nazionale, una quota prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili (che si prevede, peraltro, in crescita, ogni anno) ovvero anche “tramite il ricorso a (distinte) misure promozionali” .
Par. 2 . I rifiuti urbani e industriali come fonti rinnovabili: il
decreto n. 387/2003 di attuazione della direttiva 2001/77CE.
Il quadro normativo, come sopra tracciato, si è arricchito, da ultimo, del Decreto Legislativo D.Lgs. 29/12/2003 n. 387, di attuazione della direttiva 2001/77/CE, relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili, nel mercato interno dell’elettricità.
Ai nostri fini merita esaminare attentamente l’art. 17 il quale disciplina la “inclusione dei rifiuti tra le fonti energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili”.
Esso è composto di tre commi:
–
il primo ammette al
beneficio i rifiuti non pericolosi e pericolosi individuati dai decreti
ministeriali di cui agli artt. 31 e 33 del D.Lgs. 5/2/1997 (decreto Ronchi)
ammessi alle procedure semplificate di recupero [in merito è opportuno
tener presente che il DM 12.06.2002, già
annovera particolari rifiuti di natura
petrolifera e cioè i reflui liquidi a carattere organico (v. punto 6), tra
cui i solventi e diluenti esausti (punto 6.3) e miscele acqua-idrocarburi
provenienti dalla pulizia delle navi (v. punto 6.5)];
– il terzo prevede che, entro 120 giorni, con decreto del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente, sentite le competenti Commissioni parlamentari e d’intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni, siano individuati ulteriori rifiuti da ammettere a beneficiare del regime giuridico delle fonti rinnovabili;
– il secondo comma, invece, esclude dal regime riservato alle fonti rinnovabili:
o le fonti assimilate alle fonti rinnovabili, di cui all’art. 1 comma 3 della legge 9/1/1991 n. 9;
o i beni, i prodotti e le sostanze derivanti da processi il cui scopo primario sia la produzione di vettori energetici o di energia;
o i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche definite nel DPCM 8/3/2002 e successive modificazioni.
In una visione d’insieme, sembra potersi affermare che:
- l’art. 17 dispone che soltanto i rifiuti espressamente individuati nei decreti ministeriali già adottati (DD. MM. 5/2/1998 e 12/6/2002 n. 161) - nonché di prossima individuazione, entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. 387/2003 - possano godere dei benefici riservati alle fonti energetiche rinnovabili, eventualmente tramite misure promozionali diverse dai certificati verdi (in relazione, in specie, ai rifiuti non biodegradabili, pure ammessi al beneficio);
- da tali benefici vengono, invece, escluse: le fonti cosiddette assimilate, i prodotti derivanti da processi volti alla produzione di vettori energetici o di energia, nonché i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche del DPCM 8/3/2002.
Dette esclusioni sono dirette, con ogni evidenza, ad impedire che i prodotti non a norma, i sottoprodotti ed i residui delle lavorazioni di una raffineria tradizionale (dove, cioè, si producono carburanti e combustibili - vettori energetici – commerciali) possano, in qualche modo, godere di incentivazioni, se sottoposti a recupero mediante utilizzazione come combustibile per produrre energia.
Ciò appare, peraltro, comprensibile nell’ottica di evitare l’utilizzo di combustibili non conformi alle specifiche merceologiche, anche in relazione alla persistente confusione, sul piano tecnico-giuridico. tra prodotti e rifiuti (vedasi, da ultimo, il caso del pet-coke della raffineria di Gela e la recentissima ordinanza del 15/01/04 della Corte di Giustizia dell’U.E).
Par. 3. Le esclusioni non attengono ai sottoprodotti/rifiuti delle
lavorazioni del petrolio per la fabbricazione di prodotti destinati a impieghi
civili e industriali, non classificabili come “fonti assimilate”.
Entrando, più specificamente, nel merito delle esclusioni previste dal comma 2 dell’art. 17, e tenendo conto che le finalità del D.Lgs. 387/03 e della normativa nazionale sul mercato dell’energia sono anche quelle di ridurre la dipendenza energetica del nostro Paese e di recuperare, in modo razionale ed ecologico, i rifiuti, anche nella “frazione non biodegradabile” (v. art. 17, comma 1), si impone una prima considerazione.
Le esclusioni, in
parola, non riguardano i
sottoprodotti/rifiuti di quelle lavorazione che, pur partendo da petrolio grezzo
o da semilavorati petroliferi, hanno, come scopo primario, la
fabbricazione di prodotti per impieghi civili o industriali diversi da
carburanti o combustibili (vettori energetici), quali: sostanze plastiche,
gomme sintetiche, bitumi, ecc.
E’ vero, infatti, che la lettera a) esclude, dal regime riservato alle fonti rinnovabili, le “fonti assimilate alle fonti rinnovabili, di cui all’art. 1, comma 3, della legge 9/1/1991 n. 10”, ma è subito da sottolineare che tale distinzione, posta dalle leggi nn. 9 e 10 del 1991, è stata specificata e chiarita solo a seguito della deliberazione 29/4/1992 del C.I.P. (n. 6/1992).
In detto
provvedimento, infatti, mentre si qualificavano, come “alimentati da fonti
rinnovabili”, gli impianti di trasformazione in energia “dei rifiuti
organici ed inorganici” (come attualmente dispone
l’art. 43, lett. e), della legge Comunitaria 2001, n. 39/2002 cit.);
si consideravano “alimentati da fonti assimilate a quelle
rinnovabili”, gli impianti che utilizzavano gli scarti
di lavorazione e/o di processi.
Siffatta classificazioni - del tutto giustificate in base alla normativa dell’epoca (DPR 10/9/1982 n. 915, disciplinante il solo smaltimento dei rifiuti), che, con previsione limitativa, intendeva per rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono” (mentre le altre sostanze residuali, suscettibili di recupero, rientravano nella categoria degli scarti di lavorazione) – risulta, al presente, completamente superata.
Oggi, infatti, la nozione di “fonti assimilate alle fonti rinnovabili, di cui all’art.1, comma 3 della legge 9/1/1991 n. 10” deve essere interpretata, sul piano giuridico e tecnico, in relazione alle leggi, successive e vigenti, di matrice comunitaria.
In base ad esse, la qualifica di rifiuto ricomprende tutte le tipologie indicate dal D.Lgs. 22/1997 (c.d. decreto Ronchi) secondo la seguente definizione: “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi” (per “disfarsi” deve intendersi tanto lo smaltimento che il recupero, secondo la giurisprudenza costante, e vincolante, della Corte di Giustizia dell’U.E.).
Ne deriva che, da un lato, risulta abrogato il citato DPR 915/82 (su cui era fondata la distinzione tra rifiuto e scarto di lavorazione, del CIP 6/92) e, dall’altro lato, che, gli impianti che utilizzano, per produrre energia, “scarti di lavorazione e/o di processi”, classificabili come “rifiuti”, in base alla vigente normativa comunitaria e nazionale, devono essere considerati alimentati da fonti rinnovabili (rectius “ammessi a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili”) e non più da “fonti assimilate” (a tanto si perviene leggendo, in sequenza, l’art. 1 della legge 10/91, cit., alla luce del successivo decreto Ronchi, ripreso dal decreto Bersani, ex art. 2, punto 15, D.Lgs. 79/99 ed in forza dell’art. 43 della legge- delega n. 39/02 cit.).
Diversamente argomentando, dovremmo concludere, infatti, che anche i rifiuti contemplati dai decreti emanata, ai sensi degli artt. 31/33 del decreto Ronchi, sopra citati - e cioè i dd. Ministeriali 5/2/1998 e 12 /6/2002 n.161 cit.- in quanto scarti di lavorazione, sarebbero “fonti assimilate” escluse dal beneficio, contrariamente a quanto previsto dal primo comma, dell’art. 17, in esame.
Par. 4. Le “sostanze derivanti dai
processi… per la produzione di vettori energetici”
Come ricordato, la lettera
b) del comma 2, dell’art. 17 esclude altresì “i beni, i prodotti e le sostanze derivanti da processi il cui scopo
primario sia la produzione di vettori energetici o di energia”.
Ora, non esistendo, almeno per quanto a nostra conoscenza, una definizione legislativa del sintagma vettore energetico, per la sua interpretazione bisognerà far riferimento, ai sensi dell’art. 12 delle Preleggi (al codice civile), “al significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
Ebbene, il termine vettore
energetico significa letteralmente portatore
e/o trasportatore di energia. Più precisamente, dalla letteratura comune e
tecnica si rileva che il vettore energetico possiede tre caratteristiche
fondamentali e cioè il fatto di essere
normalmente destinato a produrre energia; di possedere energia potenziale e
l’idoneità e facilità di trasporto sui luoghi di effettiva utilizzazione
come energia utile.
Una conferma di ciò, sul piano legislativo, è rinvenibile nella nota all’art. 26 del D. Lgs. 26/10/1995 n. 504 (Testo Unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi) il quale considera compresi, negli usi civili, gli impieghi del gas metano “nella produzione di acqua calda, di altri vettori termici e/o di calore non utilizzati in impieghi produttivi dell’impresa…”.
Essendo il calore una forma di energia, i vettori termici sono, ovviamente, anche vettori energetici, cioè una sottocategoria di questi ultimi. Vettore termico è, per espressa previsione di legge (la citata nota all’art. 26 del D.Lgs. 504/1995), l’acqua calda, cioè un prodotto che ha le caratteristiche già viste della destinazione al riscaldamento (cioè produzione di energia), del possesso di energia potenziale e della facilità di trasporto.
Venendo
al settore petrolifero, sembra logico e coerente con quanto detto sopra
dedurre che vettori energetici sono il
petrolio grezzo (come vettore energetico primario, nel senso che esso è
disponibile in natura e non ancora sottoposto ad alcuna conversione per renderlo
effettivamente utilizzabile come fonte di energia),
nonché i carburanti e combustibili commerciali.
In ragione delle precedenti definizioni, consegue logicamente che, anche l’esclusione contenuta nella lettera b) del 2° comma dell’art. 17, non può riguardare i sottoprodotti/rifiuti delle lavorazioni, sia pure petrolifere, che hanno come scopo primario la fabbricazione di prodotti per usi civili od industriali diversi da combustibili o carburanti.
Si
pensi ai prodotti della petrolchimica, quali le sostanze plastiche, le gomme
sintetiche, ecc.
Par.
5. I prodotti energetici fuori
specifica.
Resta da valutare la lettera c), del comma 2, che esclude “i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche definite nel DPCM 8/3/02 e successive modifiche ed integrazioni”.
La previsione pone delle evidenti difficoltà
interpretative, in mancanza di una definizione legislativa del sintagma prodotti
energetici.
Pur tuttavia, sulla base di una esegesi letterale e sistematica dell’art. 17, sembra potersi affermare che l’esclusione, in parola, riguardi i prodotti appositamente fabbricati per essere utilizzati per produrre energia i quali, per un qualsiasi motivo, non siano risultati conformi a specifiche merceologiche imposte dalla normativa tecnica (ma che, se del caso, potrebbero essere ricondotti a norma attraverso una corretta rilavorazione all’interno dello stabilimento di produzione).
Non sembra che al precetto de quo possa darsi un significato più estensivo. Ed, infatti, diversamente argomentando, si arriverebbe alla conclusione assurda che qualsiasi rifiuto, per il solo fatto di poter essere recuperato mediante utilizzazione - come combustibile per la produzione di energia - debba essere qualificato come “prodotto energetico”.
Sembra, dunque, che la finalità della lettera c) del comma
2, sia propriamente quella di escludere dall’incentivazione quei prodotti appositamente fabbricati per produrre energia (per ciò definiti prodotti
energetici), ma risultati non a norma,
in particolare rispetto alle prescrizioni
tecniche di natura ambientale come
quelle del DPCM 8.3.02 (richiamato dalla lett. c).
In effetti, tali prodotti hanno, come destinazione
propria e specifica, quella di produrre energia. Peraltro, ove siano generati
vettori energetici con caratteristiche difformi da quelle prescritte
(ad esempio per un errore nelle lavorazioni o per altra causa), sembra
del tutto logico prevedere che essi non possano godere delle incentivazione in oggetto.
Ben diverso è,
ovviamente, il caso di quel prodotto che, pur avendo un contenuto energetico, non
è stato ricercato in quanto tale, ma risulta un prodotto accessorio ed
ineliminabile (del quale il fabbricante cerca di limitare la quantità)
di una lavorazione diretta ad ottenere prodotti per impieghi civili od
industriali, ma non “vettori energetici”.
In tal senso,
appare assai significativa una recente pronuncia della Corte
di Giustizia, la quale, in data 15/01/2004 (in causa C-235/02),
richiamandosi alla sua pregressa giurisprudenza, ha posto in evidenza la netta
differenza che, sul piano normativo, sussiste tra un
prodotto il cui ottenimento costituisce l’obiettivo prioritario della
lavorazione (o comunque sia omologo agli altri prodotti prioritari della
lavorazione e suscettibile di analoga utilizzazione; nella fattispecie,
utilizzazione come combustibile per produrre energia: nel qual caso non può essere qualificato come rifiuto) e
lo stesso prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (costituendo un
prodotto accessorio della lavorazione principale di cui l’impresa cerca di
limitare la quantità): in tale seconda evenienza, lo
stesso è, invece, qualificabile come rifiuto.
Par.
6. Conclusioni e proposte.
Per le ragioni sopra esposte, si
ritiene giuridicamente corretto e tecnicamente utile suggerire che,
nell’emanando decreto ministeriale previsto dall’ 3° comma dell’art.17
– di individuazione degli ulteriori
rifiuti da ammettere a beneficiare del regime giuridico riservato alle fonti
rinnovabili, anche tramite il ricorso a
misure promozionali - possa
essere inserita una voce del seguente tenore:
“residui
ottenuti da lavorazioni petrolifere che non hanno come scopo primario la
produzione di vettori energetici ed energia ma la fabbricazione di prodotti per
impieghi civili ed industriali”.
Essa, invero, sembra sufficientemente specifica ed idonea a
ricomprendere anche i sottoprodotti/rifiuti
delle lavorazioni petrolifere non attrezzate per produrre carburanti e
combustibili.
La quantità di
rifiuti in tal modo recuperabile, mediante utilizzazione come combustibile
per la produzione di energia elettrica, risulta peraltro non
significativa in relazione ai volumi
che il comparto petrolifero tratta; e, d’altra parte, verrebbe
avviato ad iniziale soluzione il problema di un razionale
recupero di alcuni rifiuti pericolosi, di nota
idoneità inquinante (profilo, quest’ultimo,
che non potrà essere
ulteriormente trascurato).
Anche la quantità di
energia elettrica, producibile dal recupero di tali rifiuti, si presenta
limitata, non soltanto in
relazione alla complessiva produzione netta nazionale, ma anche in relazione alla produzione da fonti rinnovabili pure, ammesse al
relativo regime.
In tal modo, da una parte, la
loro promozione non
sarebbe assolutamente d’intralcio allo sviluppo delle fonti rinnovabili pure,
e, dall’altra, contribuirebbe al raggiungimento dell’obiettivo di produzione di elettricità da fonti rinnovabili (pari
al 22% del consumo interno lordo di elettricità, che si stima ammonterà a 340
TWh, nel 2010) da individuare sulla
base di previsioni realistiche, giusta
il primo dei principi e criteri direttivi dell’art. 43 della legge-delega n.
39/02 cit..
L’incentivazione
attraverso l’inserimento della suindicata (od analoga) voce
nell’emanando DM, si rende altresì
necessaria perché gli impianti di utilizzazione dei rifiuti in parola
devono, ovviamente, essere
eco-compatibili, cioè dotati di costose
sezioni di depurazione ed abbattimento degli inquinanti, sia sotto il
profilo dell’installazione sia sotto quello della gestione.
Peraltro, si
tratterebbe di impianti di cogenerazione
ad alto rendimento che sorgerebbero in brown
field, con emissioni inquinanti significativamente
più basse di quelle delle centrali termoelettriche tradizionali.
Sembra, infine, opportuno rilevare che l’incentivazione
del recupero di rifiuti petroliferi, nel rispetto della gerarchia comunitaria
del trattamento degli stessi, non è
affatto una novità per il nostro Paese.
Basta pensare ai rifiuti petroliferi inseriti nel DM
12/06/2002 n. 161 (punto 6) che sono già
ammessi al regime giuridico delle fonti rinnovabili, citati all’inizio
della presente trattazione, nonché alla vicenda degli oli
lubrificanti usati, i quali hanno costituito fonte di gravi inquinamenti e
frodi commerciali e fiscali fino a quando non sono state decise ed adottate
opportune e robuste misure di sostegno per il loro recupero legale.
D’altra parte, qualora l’intenzione del legislatore
fosse quella di escludere tutti i
residui delle lavorazioni petrolifere - dal beneficio dell’ammissione al
regime delle fonti rinnovabili - sarebbe
stato giuridicamente logico e doveroso
porre un’espressa previsione in tal senso (peraltro del tutto mancante), senza
volerla ricostruire, a tutti i costi, attraverso
un’interpretazione analogica – della previsione sui
casi esclusi - applicata in
danno di ipotesi non previste dalla
legge, come quelle enucleate nella presente nota (senza dire che tale
operazione interpretativa è vietata dalla
legge la quale non consente l’applicazione
analogica di una norma eccezionale, come quella inserita nel comma 2
dell’art. 17).