Cass. Sez. III n. 37599 del 18 ottobre 2021 (UP 9 giu 2021)
Pres. Lapalorcia Est. Andronio Ric. Darra
Rifiuti.Responsabilità amministratore di diritto di una società
L’amministratore di diritto di una società risponde del reato di gestione non autorizzata di rifiuti anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando sul primo, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 23 settembre 2019, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del 16 aprile 2018 del Tribunale di Brescia, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di mesi 3 di arresto ed euro 3.000,00 di ammenda, per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256, comma 4, in relazione a quanto previsto dall’art. 256, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, per avere, in concorso con altre persone, ciascuna per i propri periodi e per la specifica competenza – in particolare, Darra Gianpaolo in qualità di amministratore unico della ditta “S.E.A.C. S.r.l. servizi ecologici ambientali consulenze” – gestito una attività di discarica non osservando le prescrizioni contenute negli atti autorizzativi. Nella specie, si trattava delle prescrizioni contenute nel provvedimento della Provincia di Brescia n. 3569 dell’11/10/2007 con il quale la ditta veniva diffidata ad iniziare i lavori di recupero ambientale della discarica, da avviarsi entro trenta giorni dal ricevimento del provvedimento medesimo.
2. Avverso la sentenza della Corte d’appello l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione dell’art. 256, comma 4, in relazione a quanto previsto dall’art. 256, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, rispetto alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
In particolare, la difesa contesta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui sarebbe dimostrata la sussistenza di un pactum sceleris tra il ricorrente, ricoprente il ruolo di amministratore unico della ditta che si occupava della gestione della discarica, e gli altri imputati. Al contrario, il ricorrente avrebbe ricoperto esclusivamente il ruolo di mero prestanome dei reali amministratori, rimanendo estraneo alle attività svolte dalla ditta, oggetto del presente procedimento. Si sottolineano le condizioni economiche e lavorative dell’imputato, il quale non avrebbe in alcun modo potuto attivarsi, non avendo disponibilità delle ingenti risorse necessarie, per avviare la chiusura della discarica. Bisognerebbe riconoscere, dunque, l’inesigibilità, da parte dell’imputato, dei comportamenti indispensabili al fine di ottemperare agli obblighi gravanti sulla ditta della quale aveva assunto il ruolo di legale rappresentante, circostanza che esclude l’elemento soggettivo della colpa. Sarebbe, inoltre, contraddittorio ritenere esenti da responsabilità civili e penali i reali gestori della ditta, ai quali soltanto può concretamente addebitarsi il comportamento omissivo, in quanto unici soggetti posti nelle condizioni di potere utilmente attivarsi per dismettere la discarica.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione dell’art. 131-bis cod. pen.
In primo luogo, si rileva che la permanenza del reato non sarebbe di per sé ostativa al riconoscimento della predetta causa di non punibilità, al contrario di quanto affermato dalla Corte d’appello. In secondo luogo, le stesse modalità della condotta – assunzione del ruolo di mero prestanome e inconsapevolezza degli obblighi gravanti sulla ditta in quel momento – dovrebbero condurre ad un giudizio di particolare tenuità del fatto. Inoltre, non risulterebbe neppure provato il dato del grave e concreto pericolo per il bene ambiente, dal momento che non sarebbe stato dimostrato che la condotta di omessa dismissione della discarica avesse cagionato un pericolo di inquinamento. In tal senso, l’utilizzo stesso del termine “bonifica” sarebbe fuorviante, dal momento che la ditta era stata onerata dalla Provincia esclusivamente di provvedere alla definitiva chiusura della discarica per raggiungimento del limite massimo di conferimenti eseguibili. In ultima analisi, si rileva la mancanza di un comportamento abituale tenuto dall’imputato, ad integrazione dell’ulteriore requisito negativo richiesto ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.
2.3. Con una terza censura, il ricorrente si duole della mancata applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., nonché di vizi della motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
La sentenza della Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere preponderanti, ai fini dell’esclusione delle predette circostanze, i soli elementi negativi di giudizio attinenti al fatto – mancata adozione di iniziative idonee a porre rimedio alla situazione illecita – omettendo del tutto di considerare i pur allegati elementi positivi inerenti alla personalità dell’imputato (assenza di precedenti penali, positivo comportamento processuale, atteggiamento resipiscente) e al reato stesso (ignoranza, al momento dell’assunzione della carica di amministratore, dell’attività di gestione della discarica da parte della ditta).
2.4. Con un quarto motivo, si deducono la violazione degli artt. 163 e 164 cod. proc. pen., nonché il vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena.
La difesa contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto di escludere il beneficio suddetto in ragione del fatto che l’intervento di dismissione della discarica – che ha fatto cessare la permanenza del reato – è stato realizzato ad opera della Provincia, in luogo del ricorrente, rimasto inerte. La circostanza, già considerata al fine di escludere l’applicazione degli artt. 62-bis e 131-bis cod. pen., sarebbe inidonea a rivelare una inclinazione a delinquere o una pericolosità dell’imputato, condizioni, per di più, non coerenti con l’assoluta incensuratezza e le condizioni soggettive del ricorrente. Ne deriverebbe l’erroneità dei parametri valutativi adottati dalla Corte d’appello al fine di escludere il beneficio di legge, anche alla luce della misura della pena che è stata in concreto irrogata, ben lontana dal limite di due anni previsto dalla disciplina della sospensione condizionale.
2.5. Infine, si lamenta la violazione dell’art. 175 cod. pen., oltre al vizio della motivazione relativamente alla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna. Alla luce della ratio dell’istituto e dei parametri di valutazione di cui all’art. 133 cod. pen., che il giudice di merito avrebbe dovuto utilizzare al fine di decidere in ordine alla concessione del beneficio, la difesa ritiene immotivata e, dunque, illegittima, la mancata applicazione della norma de qua, stante anche il corretto atteggiamento processuale tenuto dall’imputato, oltre agli elementi positivi di giudizio richiamati nel motivo precedente.
3. Con atto datato 28 maggio 2021, la difesa del ricorrente ha depositato le proprie conclusioni, insistendo nei motivi di ricorso e nella richiesta di annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo, con cui il ricorrente lamenta la mancanza dell’elemento soggettivo del reato contestatogli, è inammissibile, risolvendosi nella riproposizione del medesimo motivo di appello, al quale la Corte d’appello ha puntualmente risposto con logica e coerente motivazione, incensurabile in sede di legittimità.
A proposito del reato di bancarotta fraudolenta, è stato affermato che l’amministratore della società che abbia assunto la carica quale prestanome di altri soggetti, i quali hanno agito come amministratori di fatto, risponde dei reati contestai a titolo di omissione poiché la semplice accettazione della carica da parte della c.d. “testa di legno” (o “uomo di paglia”) attribuisce a questi doveri di vigilanza e controllo la cui violazione comporta responsabilità. La sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possono scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) sono infatti sufficienti per l’affermazione di responsabilità (ex multis, Sez. 5, n. 7583 del 06/05/1999, Rv. 213647; Sez. 5, n. 4892 del 25/03/1997, Rv. 207895). Similmente, in tema di reati tributari, l’amministratore di fatto risponde, quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, come mero prestanome, è responsabile del medesimo reato a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento, ai sensi degli artt. 40, comma 2, cod. pen. e 2932 cod. civ., a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (ex plurimis, Sez. 3, n. 1722 del 25/09/2019, dep. 2020, Rv. 277507; Sez. F, n. 42897 del 09/08/2018, Rv. 273939 – 02). Quanto allo specifico settore rilevante nel caso di specie, si è affermato che l’amministratore di diritto di una società risponde del reato di gestione non autorizzata di rifiuti anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando sul primo, quale legale rappresentante, i doveri positivi di vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto (Sez. 3, n. 25047 del 25/05/2011, Rv. 250677).
I principi richiamati devono trovare applicazione anche nella fattispecie in esame, con la conseguenza che risulta destituita di fondamento la censura sollevata dal ricorrente, con cui si pretende di dimostrare l’assenza di un pactum sceleris tra lo stesso e gli amministratori di fatto della società, sulla base del ruolo di “mero prestanome” ricoperto all’epoca dei fatti contestati. A ben vedere, è proprio l’aver assunto suddetta carica, per di più dietro percezione di uno stipendio approssimativamente pari ad euro 3.500,00 - 4.000,00 (circostanza ammessa dallo stesso imputato), ad integrare l’elemento soggettivo del reato ascritto al ricorrente, in concorso con gli altri amministratori per i quali si è proceduto separatamente. Come ha ben evidenziato la Corte distrettuale, infatti, «partendo dai dati evidenziati dalla difesa deve ritenersi provata la sussistenza di un pactum sceleris a cui l’imputato ha pienamente aderito, non essendo altrimenti giustificabile la propria posizione di legale rappresentante della società senza alcun potere, che di fatto, era ad altri delegato. Deve, del resto, escludersi la buona fede dello stesso, avendo egli ricoperto tale incarico a titolo oneroso ed avendo appreso, giusta diffida da parte della Provincia di Brescia, degli obblighi di recupero ambientale incombenti sulla S.E.A.C. S.r.l., esistenti anche a seguito della sua designazione» (pag. 5 della sentenza).
1.2. Anche la seconda doglianza, con cui si contesta la mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., è inammissibile.
Giova premettere che, con riferimento al reato permanente, questa Corte ha già affermato che lo stesso, in quanto caratterizzato dalla persistenza, ma non dalla reiterazione, della condotta, non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale che preclude l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., anche se comporta una attenta valutazione con riferimento alla configurabilità della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza è tanto più difficilmente rilevabile quanto più a lungo si sia protratta la permanenza (ex multis, Sez. 3, n. 10933 del 06/12/2018 – dep. 2019; Sez. 3, 47039 del 08/10/2015, Rv. 265448).
Il principio suddetto è stato correttamente applicato dalla Corte d’appello, al di là dell’erronea affermazione secondo cui la natura permanente della condotta sarebbe di per sé ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto. Invero, nel caso di specie la condotta di mancata dismissione della discarica, in ottemperanza al provvedimento della Provincia dell’11 ottobre 2007, si è protratta – con specifica rilevanza in relazione alla posizione dell’odierno ricorrente – per un consistente lasso di tempo, che va dal periodo di assunzione della carica di rappresentante legale (30 luglio 2009) fino al momento di cessazione della permanenza a seguito della bonifica, operata dalla Provincia di Brescia in data 14 dicembre 2016. La suddetta bonifica, inoltre, pur richiamata dal ricorrente, non è rilevante ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità in esame, dal momento che essa è stata posta in essere per mano pubblica, pur a fronte di svariate sollecitazioni da parte dell’ente provinciale, a dimostrazione dell’atteggiamento inerte e disinteressato dell’imputato, il quale non può che costituire elemento negativo di giudizio. Il fatto che non si sarebbe trattato di una vera e propria opera di bonifica, ma di un intervento di chiusura definitiva della discarica, non vale ad escludere la produzione di un grave e concreto pericolo per il bene giuridico “ambiente”, come pretenderebbe il ricorrente, il quale propone valutazioni che competono esclusivamente al legislatore – che, non a caso, ha previsto una specifica fattispecie contravvenzionale di inosservanza delle prescrizioni autorizzatorie, applicabile ai gestori di una discarica – e alla pubblica amministrazione competente.
1.3. Il terzo motivo, relativo alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, è parimenti inammissibile. Per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (ex plurimis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269).
Nel caso di specie, dunque, la Corte d’appello ha adeguatamente e legittimamente dato conto dell’assenza di elementi positivi a sostegno del riconoscimento delle suddette circostanze, segnalando, al contrario, l’assoluta noncuranza dell’imputato, che non si è attivato in alcun modo al fine di eliminare le conseguenze dannose strettamente connesse all’attività illecita.
1.4. Infine, i motivi sub 2.4. e 2.5. – da trattarsi congiuntamente in quanto riferiti al diniego dei doppi benefici di legge – sono inammissibili.
Deve premettersi che, contrariamente a quanto lamentato dalla difesa, le ragioni del diniego dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale possono ritenersi implicite nella motivazione con cui il giudice neghi le circostanze attenuanti generiche richiamando i profili di pericolosità del comportamento dell’imputato, dal momento che il legislatore fa dipendere la concessione dei predetti benefici dalla valutazione degli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen. (ex multis, Sez. 4, n. 34754 del 20/11/2020, Rv. 280244).
Comunque, nel caso di specie, la Corte d’appello ha richiamato, a sostegno della propria decisione di diniego, la circostanza che la bonifica sia stata operata per mano pubblica, per disinteresse e inerzia dell’imputato. D’altra parte, non risulta che il ricorrente abbia allegato elementi positivi specifici dai quali risulti l’irragionevolezza della decisione della Corte distrettuale.
2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 09/06/2021.