Cass. Sez. III n.27669 del 28 luglio 2025 (UP 2 lug 2025)
Pres. Ramacci Est. Scarcella Ric.Rocco
Rifiuti.Quantificazione della sanzione da irrogare alla persona giuridica

Per quantificare la sanzione da irrogare alla persona giuridica, il giudice penale è tenuto ad applicare i medesimi criteri utilizzati per le pene disposte nei confronti delle persone fisiche e ad esplicitare il percorso logico condotto per giungere alla sanzione finale, con motivazione che diventa tanto più stringente quanto più egli intenda discostarsi dal minimo edittale. Può applicarsi - in virtù del disposto dell’art. 11, D. lgs. n. 231 del 2001 – il principio, già affermato in relazione al disposto dell’art. 133-bis, cod. pen., secondo cui la diminuente della pena pecuniaria per le condizioni economiche del condannato trova applicazione nel caso di vera e propria impossibilità, o quantomeno di estrema difficoltà, a soddisfare la pena pecuniaria inflitta.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 16 settembre 2024, la Corte d’appello di L’Aquila confermava la sentenza del Tribunale di L’Aquila del 3 luglio 2019, appellata, per quanto qui di interesse dalla società Rocco e Domenico Di Marzio S.r.l., che era stata riconosciuta responsabile dell’illecito amministrativo dipendente da reato di cui all’art. 5, comma 1, lett. a) e b), 6, 7 e 25-undecies, comma 2, lett. b), n. 2 e lett. f), d. lgs. n. 231 del 2001, per aver tratto vantaggio dai reati di cui all’art. 256, comma 3, primo periodo e 260, comma 1, d. lgs. n. 152 del 2006, commessi dal legale rappresentante Domenico Di Marzio, e dal procuratore legale della società Rocco Di Marzio, persone aventi funzione di rappresentanza, amministrazione e direzione in capo all’ente nonché da Antonio Palozzo e Christian Di Salvatore, dipendenti della società predetta, tutti agenti in assenza da parte della società dell’adozione di un modello di organizzazione e di gestione idonea a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi, con conseguimento di un profitto di rilevante entità, fatti contestati come commessi sino al 28 giugno 2012 in Ofena. 

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione la società Rocco e Domenico Di Marzio S.r.l. a mezzo del difensore di fiducia, munito di procura speciale ex art. 39, D. lgs. n. 231 del 2001, articolando quattro motivi, di seguito sommariamente enunciati ex art. 173, disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di nullità della sentenza per errata applicazione di norme penali e correlato vizio di contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione alla responsabilità dell’ente ex art. 25-undecies, d. lgs. n. 231 del 2001, per la contravvenzione di cui all’art. 256, comma 3, d. lgs. n. 152 del 2006. 
In sintesi, premesso che la sentenza afferma la responsabilità degli imputati della società per il solo reato di cui all'articolo 256, comma 3, Testo unico ambientale, sostiene la difesa che tale affermazione di responsabilità sarebbe avvenuta attraverso un percorso motivazionale illogico e contraddittorio. Secondo i giudici, la qualifica di rifiuto del materiale inerte discenderebbe dalla condotta illecita contestata agli imputati di aver violato le prescrizioni della concessione, dell'autorizzazione e del progetto esecutivo, a tenore dei quali gli imputati avrebbero dovuto ripristinare ogni singolo lotto al termine dell'attività estrattiva e non attendere la conclusione dello sfruttamento di tutti i lotti dell'intera cava. Diversamente, si osservava già nell'atto d'appello, era stata evidenziata l'impossibilità di configurare tale reato. Osservato preliminarmente che l'istruttoria dibattimentale si è concentrata sul lotto 1, in quanto al momento della interruzione della concessione era stato l'unico lotto su cui la società era riuscita a svolgere la propria attività estrattiva, il dibattimento avrebbe consentito di provare, per quanto previsto dalla tavola 3A del progetto di variante approvato, che l'area di cava di cui al lotto 1, al termine dell'attività di coltivazione, sarebbe stata destinata ad essere sottoposta ad un'ulteriore attività, in quanto avrebbe dovuto ospitare la cosiddetta viabilità di cantiere e lo stoccaggio di cappellacci ed inerti da coltivazione. Per tale ragione, la concessionaria, al termine della coltivazione del lotto 1, avrebbe dovuto ripristinarne definitivamente solo una parte, segnatamente la sola area confinante con la strada statale 602, mentre la restante parte avrebbe dovuto essere ripristinata alla fine della coltivazione dell'intera cava. Pur di superare questa evidenza, la sentenza avrebbe fornito una motivazione contraddittoria, in particolare laddove ha ritenuto opinabile la conclusione difensiva considerato quanto risulta dal verbale di immissione 9 novembre 2011 della Tredi Inerti SRL che, all'articolo 3, prevedeva che,  per quanto concerne la sistemazione ambientale dell'area di cava già oggetto di estrazione risultante dal rilievo effettuato sarebbe stato compito della società completare le opere di ripristino delle aree evidenziate, sulle quali sarebbe stata consentita soltanto la costruzione di strade di transito per il trasporto di inerti che la concessionaria subentrante avesse ritenuto opportuno realizzare. Il ragionamento, secondo la difesa, sarebbe fallace in quanto il verbale richiamato confermerebbe la tesi difensiva, smentendo quello accusatorio, in particolare emergendo dallo stesso, non solo che sull'area sarebbe stata consentita la cosiddetta viabilità di cava, motivo per cui il ripristino non poteva essere definitivo, ma anche che, all'epoca dell'ingresso, era ancora in corso la fase di ripristino dell'area, il cui completamento sarebbe stato a carico della società, senza nulla specificare in ordine alle fasi di ripristino. In sostanza, i giudici di appello avrebbero richiamato un verbale che corrobora la tesi difensiva, ossia che su quell'area non vi fosse un obbligo di rinverdimento e di ripristino immediato perché destinata alla viabilità di cantiere, e dunque, per definizione, ancora sottoposta ad una situazione dinamica e in evoluzione. Alla luce del predetto verbale non si evincerebbe certamente che l'attività all'interno del lotto fosse conclusa e, dunque, che fosse già scattato l'onere di ripristino definitivo dello stesso. Si censura, altresì, la sentenza impugnata laddove sostiene che, quand'anche volesse convenirsi con la prospettazione difensiva nel sostenere l'obbligo di ripristino dell'area di cava del lotto 1, si dovrebbero comunque convalidare le conclusioni del primo giudice, nel senso che, ai fini della realizzazione del reato di discarica abusiva, più che il dato disciplinare rileva il dato fenomenico. Secondo la sentenza, la definitività dell'abbandono dei rifiuti e della destinazione dell'area a discarica si rileverebbe dal fatto che i residui di lavorazione fossero già stati interrati, come risulta dalla relazione del geologo Di Ninni e dai verbali dell'Arta Abruzzo. Si tratterebbe tuttavia di una forzatura argomentativa, in quanto la sentenza avrebbe anticipato il momento di consumazione del reato, e con esso le intenzioni della società, che si sarebbe eventualmente realizzato con la violazione delle prescrizioni contenute in una delle fonti contrattuali o autorizzative, dunque al termine dell'attività di sfruttamento dell'intera cava. Di fatto, dunque, si sarebbe ammesso che, al momento degli accertamenti esperiti dal Comune, la concessionaria non aveva agito in difformità rispetto ad alcuna prescrizione normativa o disciplinare. Da qui, dunque, la considerazione esposta in ricorso, secondo cui il materiale inerte rinvenuto nel suolo non può qualificarsi come rifiuto ed il lotto 1 come discarica; ed infatti è incontestato, secondo la difesa, che il materiale accumulato sul lotto 1, merceologicamente rientrante nella categoria del sottoprodotto della lavorazione di terre e rocce da scavo, si qualifichi come rifiuto solo in quanto gestito in difformità rispetto a quanto stabilito nelle prescrizioni autorizzative e di progetto. Da ultimo, si osserva come il tenore della motivazione e l'utilizzo della terminologia sembrerebbe richiamare il tentativo, laddove si riconosce rilevanza agli atti ritenuti idonei ed univoci alla realizzazione futura della discarica abusiva, tuttavia da escludersi in ragione delle inapplicabilità di tale istituto ai reati contravvenzionali.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di omessa motivazione in relazione alla qualificazione della condotta di gestione della discarica abusiva, per violazione del principio di legalità ex art. 2, d. lgs. n. 231 del 2001, a tenore del quale non può riconoscersi all’ente la responsabilità per fatti di cui all’art. 25-undecies, d. lgs. n. 231 del 2001, commessi in epoca precedente all’entrata in vigore della fattispecie incriminatrice. 
In sintesi, sostiene la difesa che la società è stata erroneamente condannata in virtù di un fatto-reato commesso in epoca precedente all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 121 del 2011, che ha introdotto l'articolo 25-undecies del decreto legislativo n. 231 del 2001, ampliando il novero dei reati-presupposto anche rispetto ai reati ambientali, compresa la contravvenzione di cui all'articolo 256, comma 3, decreto legislativo n. 152 del 2006. Tale fattispecie è entrata in vigore il 16 agosto 2011, mentre i fatti-reato contestati si sarebbero consumati in epoca assolutamente antecedente a tale data. Anche alla luce della consulenza tecnica difensiva redatta dall'ing. Fanti, sarebbe pacificamente emerso dai rilievi effettuati dall'Arta il 15 settembre 2010 ed il 27 settembre 2011, che la morfologia del lotto 1 sarebbe rimasta invariata, e nessun conferimento di nuovo materiale sarebbe stato effettuato durante l'arco temporale. La sentenza d’appello, ritenendo il reato di natura permanente, ha invece concluso che la condotta della società ebbe a dipanarsi anche successivamente alla data di entrata in vigore della novella cui si è fatto riferimento. Sarebbe, anzitutto, rilevabile una mancanza di motivazione in merito alla qualificazione della condotta contestata, ciò in quanto la sentenza ha di fatto contestato all'ente la diversa e ulteriore condotta di gestione, anziché quella originaria di realizzazione della discarica abusiva, al solo ed esclusivo fine di posticipare il tempus commissi delicti al momento del sequestro intervenuto il 28 giugno 2012, dunque in epoca successiva all'entrata in vigore dell'articolo 25-undecies citato. La sentenza non avrebbe comunque fornito alcuna descrizione delle condotte in concreto qualificabili come gestorie della discarica, di natura attiva di omissiva, che abbiano fornito un contributo causale al mantenimento della discarica sul sito. In assenza di tale necessaria indicazione, la contestazione mossa alla società si riferisce esclusivamente alla realizzazione della discarica abusiva, che si pone come reato istantaneo, eventualmente abituale con effetti permanenti, e si consuma al momento del conferimento dei rifiuti all'interno di un sito modificandone la destinazione, senza che rilevi la fase post-operativa, se non sul piano degli effetti del reato. Il tempus commissi delicti deve quindi individuarsi al momento dell'ultimo conferimento, contribuendo alla realizzazione della discarica abusiva, che sicuramente è avvenuto in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'articolo 25-undecies. L’aver, dunque, ritenuto responsabile l’ente per un fatto che, al momento della consumazione, non era previsto dalla legge come reato, violerebbe il principio di legalità sancito dall'articolo 2 del decreto legislativo n. 231 del 2001. 
2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione ai criteri di commisurazione della sanzione dettati dall’art. 11, d. lgs. n. 231 del 2001.
In sintesi, si osserva come la difesa, già in sede di appello, aveva censurato la sentenza di primo grado in relazione al trattamento sanzionatorio, in quanto il reato avrebbe dovuto essere punito applicando la sanzione minima prevista dalla legge seguendo i criteri di cui all'articolo 11 del decreto legislativo n. 231 del 2001. I giudici d'appello sarebbero incorsi nella medesima violazione poiché, nel ragionamento posto alla base della commisurazione della pena, avrebbero omesso di considerare le condizioni economiche e patrimoniali dell'ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione in concreto. La società, infatti, dal 2016 è sottoposta a concordato preventivo liquidatorio dinanzi al tribunale di Chieti, tuttora pendente, sicché era logico ritenere che la stessa non fosse sufficientemente capiente per onorare concretamente la sanzione inflitta. 
2.4. Deduce, con il quarto ed ultimo motivo, il vizio di illogicità della motivazione nella parte relativa alla quantificazione della somma oggetto di confisca in relazione al profitto di reato. 
In sintesi, si osserva come la sentenza impugnata ha confermato la confisca in relazione al profitto di reato in termini di risparmio di spesa. In particolare, i giudici di merito avrebbero considerato il valore pari a 6,50 € non esclusa l'Iva al 10% quale recupero del materiale per l'utilizzo della realizzazione di fondi stradali e simili, nonché le spese di trasporto fissate secondo l'articolo 7.2 del decreto ministeriale 5 febbraio 1998, nel valore di 20 € non esclusa l'iva al 10%, il tutto per un totale pari ad oltre 2.200.000 €. La difesa, in sede d'appello, aveva eccepito la inapplicabilità dei costi di trasporto, essendo la società dotata di mezzi propri idonei al trasporto di grandi quantitativi di materiale, e la inapplicabilità dell'Iva che, dovendosi ritenere una partita neutra, sarebbe stata detraibile da parte della società. Illogicamente i giudici d'appello, in relazione al primo punto, avrebbero ritenuto non condivisibile la critica difensiva in base al rilievo per cui, seppure la società fosse dotata di mezzi propri idonei al trasporto del materiale, avrebbe comunque dovuto sostenere dei costi per la cui valutazione ha ritenuto corretto rifarsi alle valutazioni di mercato. La società avrebbe, secondo la difesa, dovuto provvedere al trasporto e sostenere dei costi che sarebbero stati certamente inferiori rispetto a quelli stabiliti dai parametri di mercato, che fanno riferimento al trasporto con risorse esterne all'azienda, dunque certamente a costi di gran lunga più elevati, come per esempio i costi del carburante. La motivazione sarebbe, altresì, illogica nella parte in cui ha sostenuto che, nella determinazione dell'ammontare del profitto, avrebbe dovuto essere considerata l'Iva con l'aliquota al 10%, in quanto non sarebbero stati utilizzabili i parametri di tipo aziendalistico, restando perciò irrilevante il fatto che in generale l'Iva avrebbe potuto essere compensata. Si osserva come è un dato incontestato che l'Iva corrisposta risulta un credito di imposta, che certamente la società avrebbe potuto facilmente detrarre in ragione dei normali principi di detraibilità dell'Iva in relazione ai costi sostenuti in virtù dell'attività svolta.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, trattato oralmente a seguito di richiesta difensiva, accolta, di discussione orale, è complessivamente infondato. 

2. Preliminarmente, deve essere rilevato che il ricorso proposto dall’Ente è ammissibile. 
2.1. L'art. 39, comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, norma che prevede che l'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del resto da cui dipende l'illecito amministrativo, deve essere applicato secondo un criterio di stretta interpretazione, nel senso, conforme al dettato normativo, secondo cui il divieto di rappresentare l'ente postula che la qualità di imputato sia rivestita dal legale rappresentante al momento del compimento dell'atto nell'interesse dell'ente (Sez. 2, n. 16932 del 14/03/2025, La Macina Felice soc. coop. A r.l. in persona dell’a.u. Colombo Maria, Rv. 288030 – 01, relativa a fattispecie di nomina di procuratore speciale dell'ente, effettuata, nel processo a carico di quest'ultimo, dal rappresentante legale che era stato imputato del reato da cui era scaturito l'illecito amministrativo nell'ambito di altro processo, conclusosi con sentenza di non doversi procedere per prescrizione, divenuta irrevocabile anteriormente alla nomina). 
2.2. Nel caso qui esaminato, infatti, il rappresentante legale che ha conferito la nomina fiduciaria con procura speciale al difensore dell’ente, Avv. Ester Molinaro, era stato imputato del reato dal quale era scaturito l'illecito amministrativo contestato all'ente, ossia l’art. 25-undecies, D. lgs. n. 231 del 2001 in relazione all’art. 256, comma 3, d. lgs. n. 152 del 2006, ma il processo a suo carico si era concluso in primo grado con una sentenza di non doversi procedere per prescrizione, relativamente a tale fattispecie contravvenzionale, divenuta irrevocabile anteriormente alla nomina del difensore dell'ente, nel processo a carico di quest'ultimo, effettuata dal medesimo rappresentante legale. 
2.3. Non rileva la circostanza che avverso la sentenza di primo grado fosse stato proposto appello anche dal Procuratore della Repubblica, in quanto detta impugnazione era limitata esclusivamente all’assoluzione pronunciata nei confronti del predetto legale rappresentante per il delitto di cui all’art. 260, D. lgs. n. 152 del 2006, ma non per il reato contravvenzionale di cui all’art. 256, comma 3, D. lgs. n. 152 del 2006, proscioglimento coperto pertanto dal giudicato in data antecedente al 27 gennaio 2025, data in cui l’avv. Ester Molinaro è stata nominata difensore di fiducia – procuratore speciale (data in cui è stato anche depositato il ricorso), ai fini della proposizione del ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte d’appello di L’Aquila in data 16 settembre 2024, da Rocco Di Marzio nella qualità di rappresentante legale della predetta società. 

3. Tanto premesso sull’ammissibilità dell’impugnazione, può quindi essere esaminato il primo motivo di ricorso, che si appalesa tuttavia inammissibile in quanto generico per aspecificità e manifestamente infondato. 
3.1. Lo stesso, anzitutto, non si confronta con la motivazione della decisione impugnata che, con argomenti immuni dai denunciati vizi, ha affrontato il tema della configurabilità dell’illecito amministrativo dipendente dal reato, pervenendo alla soluzione non condivisa dalla difesa, che, tuttavia, ripropone in questa sede di legittimità, senza alcun apprezzabile elemento di novità critica, le medesime argomentazioni già sviluppate nei motivi di appello. 
3.2. L’imputazione riguardava la contravvenzione di cui all’art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006, per avere l’imputato effettuato un’attività di gestione illecita di rifiuti (accumulo di residui da lavorazione sul lotto 1 della cava). 
La difesa sosteneva che l’accusa si basava su un errore, ossia che il lotto 1 dovesse essere completamente ripristinato prima dell’attività sui lotti successivi, in contrasto con il progetto approvato. In fatto, la Corte territoriale aveva riconosciuto che il lotto 1 era effettivamente funzionale alla viabilità interna della cava e al deposito di materiale destinato al ripristino anche degli altri lotti, tuttavia: a) l’accumulo era stato effettuato in maniera definitiva, con profondità fino a 4,5 m., incompatibile con un uso temporaneo; b) il ripristino non era stato effettuato secondo le modalità previste (miscelazione con terreno vegetale e ricostituzione del cotico erboso); c) era dunque evidente che si trattava di una sistemazione definitiva, non provvisoria. 
3.3. Al cospetto dell’apparato argomentativo di primo e secondo grado, è quindi agevole rilevare come, in relazione al primo motivo, le argomentazioni della Corte d’appello, lungi dal riproporre sterilmente quelle del primo giudice, rivestono autonoma valenza, ripercorrendo i fatti e confutando, anche tramite il richiamo a quanto argomentato dai primi giudici, le doglianze della ricorrente, oggetto di mera “replica” in sede di ricorso per cassazione, in quanto prive di apprezzabili elementi critici di novità.
3.4. Non ha certo valenza destabilizzante del complessivo apparato argomentativo il riferimento al verbale del 9 novembre 2011 di immissione in possesso e consegna dei luoghi alla Tredi Inerti SRL, di cui in sostanza viene ad essere eccepito il travisamento, in quanto, secondo la prospettazione difensiva, più che convalidare la tesi d’accusa, il predetto verbale avrebbe avuto valenza confermativa della tesi difensiva. 
Sul punto, invero, è sufficiente ribadire che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del "devolutum" in caso di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (tra le tante: Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758 - 01). 
3.5. Trattasi, conclusivamente, di doglianze che prestano il fianco alle censure di genericità per aspecificità, con conseguente inammissibilità del relativo motivo. Deve, infatti, qui essere ribadito che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849). 
3.6. In ogni caso, è evidente come le censure prospettino una critica risolventesi nel mero dissenso della società ricorrente rispetto all’approdo valutativo operato dalla Corte d’appello, non consentito in questa sede. 
Il controllo di legittimità sulla motivazione è, infatti, diretto ad accertare se a base della pronuncia del giudice di merito esista un concreto apprezzamento del materiale probatorio e/o indiziario e se la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da vizi logici. Restano escluse da tale controllo sia l'interpretazione e la consistenza degli indizi e delle prove sia le eventuali incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con altri passaggi argomentativi risultanti dal testo del provvedimento impugnato: ne consegue che non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti ne' su altre spiegazioni, per quanto plausibili o logicamente sostenibili, formulate dal ricorrente (tra le tante: Sez. 6, n. 1762 del 15/05/1998 - dep. 01/06/1998, Albano L, Rv. 210923).
3.7. Il motivo, peraltro, come anticipato, si appalesa anche manifestamente infondato. 
In diritto, la Corte territoriale ha infatti confermato che la condotta integrava l’illecito di gestione non autorizzata di rifiuti (discarica abusiva), configurabile, per pacifica giurisprudenza, in presenza di un accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato (tra le tante: Sez. 3, n. 47501 del 13/11/2013, Caminotto, Rv. 257996 - 01), e che l’utilizzo dei materiali non poteva qualificarsi come sottoprodotto (ex art. 184-bis d.lgs. 152/2006), in quanto era avvenuto in violazione del progetto di ripristino ambientale (e, peraltro, aggiunge questa Corte senza rispettare il disposto dell’allora vigente – tenuto conto dell’epoca del sequestro, intervenuto in data 28 giugno 2012 - art. 186, D. lgs. n. 152 del 2006, norma temporanea, destinata ad applicarsi ai fatti commessi fino all'entrata in vigore del d.m. 6 ottobre 2012, n. 161, avvenuta il 6 ottobre 2012 (Sez. 3, n. 17380 del 16/12/2014, dep. 2015, Cavanna, Rv. 263348 - 01): il comma 5 dell’art. 186 citato, infatti, chiariva espressamente che “5. Le terre e rocce da scavo, qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla parte quarta del presente decreto”). 
Il reato era, dunque, pienamente integrato e non poteva essere escluso per la natura dei materiali o per un uso legittimo degli stessi.

4. Il secondo motivo è inammissibile. 
4.1. Ancora una volta il motivo di impugnazione è generico per aspecificità, in quanto non si confronta con la sentenza impugnata che ha, con motivazione non manifestamente illogica e comunque immune dai denunciati vizi, illustrato le ragioni per le quali fosse applicabile la disciplina normativa introdotta dal D. lgs. n. 121 del 2011. 
4.2. Anche in sede di appello, infatti, si contestava la responsabilità amministrativa della società ex d.lgs. 231 del 2001, assumendo che il reato presupposto (art. 256, comma 3, D. lgs. n. 152 del 2006) fosse stato integralmente commesso prima dell’entrata in vigore dell’art. 25-undecies, D. lgs. n. 231 del 2001, introdotto nel 2011 con il citato D.lgs. n. 121. 
I giudici territoriali hanno rigettato le censure difensive, riproposte in maniera pedissequa senza apprezzabili elementi di novità critica in questa sede di legittimità, evidenziando, in fatto, come i sopralluoghi ARTA del 2010 e 2011 avevano mostrato che l’accumulo di rifiuti era proseguito almeno fino al settembre 2011, cioè dopo l’entrata in vigore della norma che rendeva ascrivibile la responsabilità amministrativa da reato alla società (16 agosto 2011). 
Inoltre - con lettura della Corte territoriale che non costituisce certamente frutto di travisamento probatorio ma solo espressione di una diversa interpretazione contenutistica, non manifestamente illogica -, il verbale di immissione in possesso del 9 novembre 2011 confermava che le attività illecite erano ancora in corso in quella data.  
4.3. In tema di giudizio di cassazione, sono invero precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601 - 01). 
4.4. La tesi difensiva è, peraltro, priva di pregio anche in diritto. 
Ed infatti, a prescindere dalla asserita trasformazione della condotta contestata che sarebbe stata operata dalla Corte territoriale (che, secondo l’assunto difensivo, avrebbe condannato la società per la condotta di gestione della discarica e non per quella di realizzazione, reato istantaneo con effetti permanenti, la cui consumazione sarebbe cessata prima del sequestro dell’area), deve essere in questa sede ribadito l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il reato di realizzazione di discarica non autorizzata, oggi previsto dall'art. 256, comma 3, D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ha natura permanente e la condotta antigiuridica cessa, in caso di sequestro della discarica, per effetto del relativo provvedimento (Sez. 3, n. 22826 del 27/03/2007, P.g. e p.c. in proc. Artese e altri, Rv. 236909 - 01). 
4.5. Poiché la contestazione era formulata come condotta "chiusa" fino al 28 giugno 2012, data del sequestro, era del tutto legittima l’applicazione del d.lgs. 231 del 2001.

5. Il terzo motivo è invece, nel complesso, infondato. 
5.1. La difesa lamentava in appello che la sanzione (200 quote da € 500) fosse eccessiva, trattandosi di fatto non grave, con materiali non pericolosi e riutilizzabili. Inoltre, si chiedeva l’applicazione dell’art. 256, comma 4, D. lgs. n. 152 del 2006 che avrebbe comportato una riduzione della pena. 
5.2. Orbene, i giudici di appello confutano l’identica censura difensiva, replicata ancora una volta senza alcun apprezzabile elemento di novità critica in questa sede di legittimità, considerando l’entità rilevante della discarica abusiva (oltre 77mila tonnellate) come elemento aggravante. 
Trattasi di argomentazione non manifestamente illogica che, pertanto, si sottrae alle censure difensive. 
5.3. La Corte inoltre aveva rilevato che la sanzione irrogata si collocava nella fascia medio-bassa della forbice ed era ragionevolmente commisurata, tenendo conto anche della non pericolosità dei materiali. 
La motivazione, pur nella sinteticità del suo apparato argomentativo, è peraltro assolutamente conforme all’indirizzo giurisprudenziale formatosi in materia, essendosi affermato che, per quantificare la sanzione da irrogare alla persona giuridica, il giudice penale è tenuto ad applicare i medesimi criteri utilizzati per le pene disposte nei confronti delle persone fisiche e ad esplicitare il percorso logico condotto per giungere alla sanzione finale, con motivazione che diventa tanto più stringente quanto più egli intenda discostarsi dal minimo edittale (Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, Rv. 278531 - 03). 
5.4. Nella specie, la determinazione della sanzione è avvenuta in misura assai inferiore al massimo previsto dall’art. 10, comma 3, D. lgs. n. 231 del 2001 (da euro 258,23 ad euro 1549,37), donde può applicarsi - in virtù del disposto dell’art. 11, D. lgs. n. 231 del 2001 – il principio, già affermato in relazione al disposto dell’art. 133-bis, cod. pen., secondo cui la diminuente della pena pecuniaria per le condizioni economiche del condannato trova applicazione nel caso di vera e propria impossibilità, o quantomeno di estrema difficoltà, a soddisfare la pena pecuniaria inflitta (tra le tante: Sez. 2, n. 29468 del 31/03/2009, Frison, Rv. 244883 - 01). 
5.5. Nella specie, la sanzione inflitta, pari a 100.000 euro, pur tenendo conto dell’esistenza del concordato preventivo liquidatorio della società (che, peraltro, prevede l'apporto di risorse esterne che incrementino l'attivo disponibile rispetto alla liquidazione giudiziale, di almeno il 10%), non può certamente considerarsi gravosa, in difetto peraltro di elementi, non documentati dalla società ricorrente, che possano qualificarla come tale. 
Deve, infatti, essere affermato il principio, mutuabile dalla giurisprudenza formatasi con riferimento all’art. 133-bis, cod. pen., secondo cui, in tema di impugnazioni, il semplice riferimento, nell'atto di appello, all'art. 133-bis cod. pen., senza indicazioni ne' generiche ne' specifiche degli elementi dai quali il giudice dell'appello dovrebbe desumere che la pena pecuniaria inflitta dal primo giudice sia eccessivamente gravosa, non obbliga il giudice di appello all'esame del motivo e tale omesso esame non costituisce vizio che comporti annullamento in sede di legittimità (Sez. 6, n. 4066 del 03/02/1994, Zanardini, Rv. 197980 - 01). 
5.6. Lo stesso, peraltro, è avvenuto in sede di giudizio di appello, ove il riferimento era limitato alla violazione dei criteri dell’art. 11, D. lgs. n. 231 del 2001, senza alcuna particolare specificazione che giustificasse la invocata riduzione al minimo legale, salvo il riferimento all’asserita non gravità del fatto perché improduttivo di alcun danno ambientale, senza tuttavia indicare anche le ragioni oggettive per le quali la sanzione, in quanto “gravosa”, dovesse essere fissata sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente allo scopo di assicurare l'efficacia della stessa.

6. Infine, il quarto ed ultimo motivo è inammissibile per le stesse ragioni già evidenziate nella sentenza impugnata. 
6.1. La difesa aveva sostenuto nei motivi di appello che il profitto (risparmio di spesa) fosse stato calcolato erroneamente, sia nella formula (con errore aritmetico), sia perché non si era considerato il valore commerciale del materiale. 
6.2. Sul punto, ineccepibile si appalesa la risposta fornita dai giudici di appello in ordine alle censure sollevate. 
Ed invero, la Corte territoriale ha anzitutto ritenuto corretta la base di calcolo usata dal Tribunale: il materiale, indiscriminatamente accumulato, non aveva valore commerciale diretto, richiedendo costosi trattamenti. Si è, poi, ritenuto più corretto stimare il profitto sulla base del costo di smaltimento evitato (recupero per fondo stradale + trasporto), e non sul valore di mercato. L’aggiunta dell’IVA al 10% è stata ritenuta legittima, trattandosi di stima lorda, senza uso di criteri aziendalistici. Infine, l’eventuale errore di calcolo (differenza tra 2.058.374,25 € e 2.264.211,68 €) è stato ritenuto irrilevante, giacché comunque la somma confiscata era correttamente quantificata nella logica del risparmio illecito.
6.3. Ancora una volta, articolando le censure in sede di legittimità, a fronte delle argomentazioni non manifestamente illogiche dei giudici territoriali, le argomentazioni difensive sviluppate nel presente motivo di ricorso, sotto l’apparente deduzione del vizio di illogicità della motivazione, tradiscono, in realtà, il tentativo della società ricorrente di trascinare questa Corte sul terreno del fatto, chiamando la Corte ad operare non una valutazione della congruità logico – argomentativa della decisione, prospettando censure ammissibili di manifesta illogicità della motivazione, quanto, piuttosto, a sottoporre a questo giudice di legittimità di (ri)valutare la correttezza del procedimento di valutazione delle emergenze istruttorie operato dai giudici territoriali o, spingendosi ancora oltre, a chiedere a questa Corte di verificare, se fosse corretto l’approdo valutativo cui i giudici di merito sono pervenuti (nella specie eccependo l’erroneo calcolo della determinazione del profitto confiscabile non essendosi considerato il valore commerciale del materiale o dolendosi dell’imputazione di costi, quali quelli di trasporto, che non avrebbero dovuto essere sostenuti per essere la società dotata di propri mezzi) a fronte di elementi che, nell’ottica difensiva, più che scardinare il percorso logico – argomentativo della sentenza, avrebbero dovuto essere diversamente valutati dai giudici territoriali secondo una esegesi favorevole alla difesa della società ricorrente. 
6.4. Si tratta, all’evidenza, di tentativo destinato a non cogliere nel segno, non tenendo adeguatamente conto, infatti, la difesa della società ricorrente che, in tema di ricorso per cassazione, poiché esula dal controllo della Suprema Corte la rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione, non costituisce vizio comportante controllo di legittimità la mera prospettazione di una diversa (e, per il ricorrente, più favorevole) valutazione delle emergenze processuali (per tutte: Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203428 – 01; conf., Sez. 5, n. 7569 del 21/04/1999, Jovino, Rv. 213638 - 01). 
Del resto, la contestata illogicità manifesta della motivazione non pare seriamente ipotizzabile nel caso in esame, tenuto conto della particolare natura che detto vizio deve assumere nell’interpretazione di questa Corte, secondo cui tale vizio, a norma dell'articolo 606, lett.e), cod. proc. pen., deve consistere “nella frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono” (Sez. 1, n. 9539 del 12/05/1999, Commisso, Rv. 215132 - 01). Situazione, certamente, non ravvisabile nel caso in esame. 

7. Al rigetto del ricorso segue ex art. 616 cod. proc. pen. la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 02/07/2025