Cass. Sez. III n. 2234 del 20 gennaio 2022 (Ud 9 lug 2021)
Pres. Ramacci Est. Amoroso Ric. Casa
Rifiuti.Idrocarburi sversati accidentalmente
Gli idrocarburi sversati accidentalmente ed inquinanti il terreno e le acque sotterranee devono essere qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, trattandosi di sostanze di delle quali il detentore “si disfa", non costituendo un prodotto riutilizzabile senza trasformazione ed essendo la sua commercializzazione aleatoria e, implicante operazioni preliminari che non sono economicamente vantaggiose.
RITENUTO IN FATTO
1. La vicenda processuale, come ricostruita nei gradi di merito, si riferisce all'inquinamento del suolo e del sottosuolo verificatosi nell'arco temporale intercorso tra il giorno 11/07/ 2011 e il 23/09/2011 nel territorio del Comune di Gela, a causa di reiterate perdite di idrocarburi avvenute all’interno del complesso industriale della Raffineria di Gela S.P.A., e, precisamente, nell’area del plesso denominato Parco Generale Serbatoi (di seguito PGS) nel suolo sottostante il serbatoio S314, posto nell’isola 28 del parco citato.
La dinamica dell’evento è stata ricondotta alla perdita di “light catalytic naphtha” dal sistema delle tubature del serbatoio S314.
In particolare, lunedì 11 luglio 2011 veniva annotata sul registro delle consegne una perdita nella mandata del serbatoio S314; in relazione a tale perdita non vi è stato alcun intervento.
Mercoledì 27 luglio 2011 veniva annotata sul registro delle consegne un’ulteriore criticità nel medesimo serbatoio, qualificata come “perdita su tronchetto aspirazione interna S314 che va a collegarsi con il dreno dei serbatoi”. All’interno dell’annotazione si dava atto di aver inviato una mail a Lo Sardo, Torrisi, Troisi e Di Mario.
Per il giorno mercoledì 3 agosto 2011 non sono rinvenibili in atti segnalazioni riferite a perdite occorse presso il serbatoio S314; risultano eseguiti interventi atti a risolvere le problematiche verificatesi in occasione dell’evento del 27 luglio 2011.
Il 23 settembre 2011, il personale della capitaneria di Gela, nel corso di una ricognizione della situazione del P.G.S., in presenza dell’ing. Losardo Salvatore, accertava una perdita di benzina da una tubazione esterna al serbatoio 314 ed interna al bacino di contenimento pavimentato in cemento.
A seguito di tale evento vennero realizzati alcuni interventi dal 23 settembre al 6 ottobre 2011, ed altri in data 17 ottobre e in data 5, 11 e 16 ottobre 2011.
L’impianto è sito in area individuata dalla legge 426 del 1998 come Sito di Interesse Nazionale e in territorio dichiarato “ad elevato rischio di crisi ambientale”.
Gli odierni ricorrenti, all’epoca dei fatti, rivestivano i seguenti ruoli.
Casa Bernardo era amministratore delegato della raffineria di Gela S.P.A. e responsabile dell'osservanza della legislazione a tutela della sicurezza sul lavoro dell'ambiente e dell'incolumità pubblica della società, come da ordine di servizio interno n. 50 del 20 aprile 2010.
Losardo Salvatore era responsabile del servizio S.O.I. 3 della raffineria di Gela S.P.A. in cui ricade l'area del P.G.S., deputato ad assicurare il conseguimento degli obiettivi di esercizio degli impianti della S.O.I. attraverso la gestione ottimizzata degli stessi, nonché lo svolgimento delle operazioni di competenza nelle migliori di condizioni di sicurezza e tutela dell'ambiente.
Di Mario Paolo e Torrisi Giuseppe erano responsabili del turno operativo giornaliero del P.G.S. della raffineria di Gela S.P.A., competenti ad inoltrare le richieste di interventi manutentivi degli impianti presenti all'interno dell'area.
Agli imputati, nei rispettivi ruoli ricoperti in seno all'azienda, venivano contestati al capo 1) i reati di inquinamento e omessa bonifica ai sensi degli artt. 110 cod. pen. 257, comma 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006.
In relazione ai medesimi eventi veniva elevata, ai soli Casa e Losardo, la contestazione di cui al capo 2), relativa all’omessa comunicazione di eventi inquinanti di cui all'articolo 257, comma 1 e 2, d.lgs. 152 del 2006, in relazione all’art. 242 del medesimo decreto legislativo.
A tutti gli imputati veniva elevata la contestazione di cui al capo 3) così formulata ”reato di cui agli artt. 110 c.p. e art. 256, comma 1, lett. b) e comma 2 del d.lvo n. 152 del 2006, quest’ultimo in relazione alla lettera a) ed alla lettera d) n. 2 dell’art. 6 della legge del 30.12.2008, n. 210 poiché in concorso tra loro, nelle qualità sopra indicate e mediante le condotte omissive indicate sub 1) smaltivano e abbandonavano, mediante immissione nel suolo e nel sottosuolo, ingenti quantitativi di rifiuti liquidi pericolosi costituiti da benzina (prodotto idrocaburico raffinato) provenienti da serbatoio di stoccaggio”.
Alla raffineria di Gela S.P.A., il capo 4) contestava gli illeciti amministrativi di cui all’art. 25 undecies, comma 2, lett. d), n. 2 e all’art. 25 undecies, comma 2, lettera c), n. 2, del d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione - quanto ai fatti successivi al 16 agosto 2011 – ai reati di cui ai capi 1, 2 e 3.
In primo grado, il Tribunale di Gela, con pronuncia del 06/02/2019, assolveva Casa Bernardo e Lo Sardo Salvatore dal reato loro ascritto al capo 2) perché il fatto non sussiste; dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine al reato di cui al capo 1) nei confronti di tutti gli imputati; dichiarava Casa Bernardo, Losardo Salvatore, Di Mario Paolo e Torrisi Giuseppe colpevoli del reato loro ascritto al capo 3) e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, unificati i reati contestati sotto il vincolo della continuazione, li condannava alla pena della reclusione e della multa oltre al pagamento delle spese processuali, con pena sospesa nei confronti di tutti gli imputati nei termini e alle condizioni di legge.
Gli imputati venivano condannati al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili: Comune di Gela, Provincia Regionale di Caltanissetta, associazione “Amici della terra” e associazione “Aria nuova” da liquidarsi in separata sede civile, nonché a rimborsare alle parti civili costituite le spese del grado di giudizio svolto.
La Raffineria di Gela S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, veniva dichiarata responsabile per illecito amministrativo dipendente dal reato relativamente alla sola contestazione di cui all'articolo 256 comma 1, lettera b) del testo unico 152 del 2006, di cui al capo 3), per i fatti commessi dopo il 16/08/2011, e condannata al pagamento della sanzione pecuniaria in misura pari a 1000 quote da 400 € ciascuna per complessivi 40.000 € in data 30/06/2020.
La Corte d'appello di Caltanissetta, con sentenza del 30/06/2020, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale di Gela, assolveva Casa Bernardo, Losardo Salvatore, Di Mario Paolo e Torrisi Giuseppe dal reato di cui al capo 1) perché il fatto non sussiste, confermava nel resto l'impugnata sentenza, condannando gli appellanti in solido al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili costituite.
2. Avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione Casa Bernardo, Losardo Salvatore, Di Mario Paolo, Torrisi Giuseppe e la Raffineria di Gela S.P.A.
Di Mario Paolo
3. Il ricorso proposto nell'interesse di Di Mario Paolo si articola in tre motivi.
3.1. Nel primo si deduce la violazione degli artt. 15, cod. pen., 183, 192, 256, d.lgs. 152 del 2006, dell’art. 6, legge n. 210 del 2008 e dell’art. 1 della direttiva 2006/12/CE; l’assenza e comunque la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione.
Il provvedimento impugnato viene censurato, in primo luogo, per aver considerato, alla stregua di “rifiuto” l’idrocarburo (virgin nafta) fuoriuscito dalle tubazioni del serbatoio S314 della raffineria petrolchimica di Gela.
Ad avviso della difesa, la qualità del rifiuto deve necessariamente preesistere al suo smaltimento; nella specie invece, il prodotto sversato era uno dei più importanti che si ottengono dal processo di raffinazione del petrolio certamente destinato alla vendita, ed avrebbe, quindi, errato la Corte territoriale a qualificarlo “sostanza di cui disfarsi” sostenendo che fuoriuscendo dai giunti delle valvole delle condutture non sarebbe stata più conveniente una sua utilizzazione economica, a causa delle ulteriori lavorazioni richieste, e a considerare “abbandono” o comunque “smaltimento” l'infiltrazione negli strati sottostanti del terreno e nella falda acquifera.
3.2. Nel secondo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 42, comma 2, e 43 cod. pen., la mancanza della motivazione, e comunque la sua illogicità in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 6 legge n. 201 del 2008.
Si osserva che sarebbe illogico e contraddittorio desumere l’esistenza del dolo, anche nella forma eventuale, dalla considerazione che le condizioni della pavimentazione rendevano evidente il rischio di dispersione nel sottosuolo del liquido contenuto nei serbatoi. Si specifica che se il dolo fosse da riferire all’evento della perdita, l’eccezionalità di quest’ultimo renderebbe incompatibile una sua cosciente e volontaria previsione da parte dell’imputato; se, invece, l’elemento soggettivo fosse riferibile alla fase successiva della protrazione della perdita, e alla omissione cosciente e volontaria di interventi adeguati, la condotta sarebbe riconducibile all'articolo 257 del TUA, e non al delitto di smaltimento o di abbandono che è di natura necessariamente commissiva.
3.3. Nel terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 192 e 256 del d.lgs. 152 del 2006 e la mancanza o comunque l’illogicità della motivazione sul punto.
Rilevato che la condotta di smaltimento e di abbandono deve necessariamente articolarsi in un'azione positiva, e quindi in atti inequivocabilmente commissivi, si considera viziato l’iter logico della Corte territoriale secondo cui l’omessa realizzazione di interventi sugli impianti avrebbe provocato l’infarcimento del terreno sottostante e quindi integrato il reato di cui all’art. 256 del d.lgs. citato.
3.4. Nel quarto motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 40, cod. pen., l’assenza di motivazione o comunque la sua illogicità.
Si afferma che, per la qualifica rivestita, il ricorrente aveva il solo onere di comunicare ai suoi superiori gli eventuali inconvenienti verificatisi, non avendo alcuna competenza in ordine all’esecuzione dei conseguenziali interventi manutentivi.
La Corte d'appello, in maniera contraddittoria, pur avendo affermato che il Di Mario, nella sua qualità di capoturno, rappresentava solo “il primo anello della catena di informazione” e riscontrato l’immediato inoltro della notizia delle perdite da parte dello stesso ai superiori abilitati a disporre gli interventi manutentivi, ha comunque attribuito all’imputato inerzie riferibili ad altri soggetti, sanzionandolo per aver omesso condotte in ordine alle quali egli non rivestiva alcuna posizione di garanzia e non aveva alcuno spazio decisionale, in palese violazione dell'articolo 40 cod. pen.
Bernardo Casa.
4. Nel primo motivo di ricorso proposto nell'interesse di Bernardo Casa si lamenta l'erronea applicazione della legge penale con riferimento all’imputazione soggettiva dei reati a lui contestati.
Si premette che il ricorrente, amministratore delegato della Raffineria di Gela p.t., in virtù della contestazione contenuta nel capo 3), è stato condannato per le condotte di smaltimento e abbandono mediante emissione nel sottosuolo del rifiuto “virgin nafta”, perché in detta qualità, rivestendo la carica di responsabile dell'osservanza della legislazione posta a tutela della sicurezza sul lavoro dell'ambiente dell'economia pubblica della società, come da ordine di servizio interno, ometteva di adottare le più adeguate misure tecniche organizzative e gestionali idonee a garantire la perfetta efficienza dell'impianto del Parco Generale Serbatoi, anche relativamente alla tenuta delle linee servite agli impianti.
Ad avviso della difesa, la sentenza impugnata non avrebbe fatto buon governo dei principi di diritto più volte affermati dai giudici di legittimità in relazione all’attribuibilità soggettiva del reato a titolo doloso, facendo discendere dalla sola posizione apicale da lui rivestita all’interno dell’azienda la responsabilità oggettiva per i fatti imputati, senza verificare se questi fatti fossero realmente rientrati nella sua sfera di rappresentazione e volontà.
Mancherebbe, ad avviso della difesa, nell’iter motivazionale, una specifica e approfondita analisi sulla sussistenza dell’elemento soggettivo, essendosi limitati i giudici d’appello a fornire a sostegno del giudizio di responsabilità l’apodittica affermazione secondo la quale il Casa, per la posizione rivestita nell’azienda, non è intervenuto per risolvere le perdite verificatesi dalle tubature, pur essendo a conoscenza della complessiva situazione di degrado in cui versava l’impianto, situazione da lui non ignorabile per essere la stessa emersa, in tutta la sua gravità, nel corso della procedura per il rilascio dell’A.I.A. e desumibile senza ambiguità dalla natura delle prescrizioni imposte in quella sede.
Ad avviso della difesa, il giudizio sull’esistenza dell’elemento soggettivo in capo al ricorrente sarebbe stato erroneamente rapportato ad un “remoto e lontano antefatto”, ovvero alla condizione di degrado dell’impianto, e non al fatto materiale oggetto del processo costituito dalla perdita accidentale di nafta, e la decisione sarebbe, quindi, viziata nella misura in cui non fornisce alcuna prova che il Casa fosse stato a conoscenza delle dispersioni verificatesi nel suolo. Il giudizio di responsabilità e l’esistenza dell’elemento oggettivo avrebbe, pertanto, riguardato in maniera erronea solo “una gamma astratta di possibili eventi”, e non quelli concretamente verificatisi nel caso di specie.
La difesa contesta quindi, l’assunto decisorio in base al quale il ricorrente “non poteva non sapere”.
In primo luogo si afferma che, al contrario, attesa la capillare organizzazione aziendale, egli non era tenuto a conoscere dell’esistenza delle perdite, sussistendo nell’organigramma specifiche figure dotate di mansioni operative sulle quali, a differenza del Casa, incombeva concretamente l'obbligo di provvedere, in piena autonomia, alla riparazione della linea da cui si è sviluppata la perdita di prodotto; obbligo discendente sia dalle regole organizzative adottate dalla società sia in ragione del relativo potere di spesa loro riconosciuto.
In particolare, si deduce che gli interventi di ripristino sulla linea interessata dalle perdite, in ragione dei costi sostenuti, inferiori a 10.000 euro, sarebbero rientrati nella competenza funzionale del responsabile interno nella cosiddetta S.O.I.3, cui erano affidati correlati poteri di spesa. In nessun modo, nella prospettazione difensiva, l’attività di riparazione avrebbe potuto riguardare la sfera dell'amministratore delegato il cui intervento era richiesto solo per impegni finanziari ben più importanti, di valore ricompreso tra 800.000 e 10 milioni di euro.
In ogni caso, si afferma, dal processo non è emersa la prova che il Casa fosse stato messo a conoscenza dell’evento specifico delle perdite.
4.1. Nel secondo motivo di ricorso si deduce la mancanza della motivazione con riferimento alla prova dell'elemento psicologico atteso che, per le ragioni esposte nel motivo precedentemente illustrato, ad avviso della difesa, la motivazione della sentenza sul punto sarebbe solo apparente, non avendo fornito alcuna risposta concreta alle deduzioni difensive.
4.2. Nel terzo motivo di ricorso si deduce l'erronea applicazione della legge penale avendo la sentenza ritenuto configurabile il concorso dei reati di cui agli artt. 256 comma, comma 1 e 256 comma 2, del testo unico dell'ambiente.
Si contesta che i reati di smaltimento abusivo e di abbandono incontrollato di rifiuti possano concorrere tra loro, in ragione della diversità di condotta descritta nella relativa fattispecie, sostenendo che nel caso di configurazione concorrente delle relative condotte, la condotta di abbandono incontrollato, definita come occasionale, deve considerarsi destinata ad essere assorbita e ricompresa in quella, non occasionale, di smaltimento abusivo, rispetto alla quale l'abbandono può essere considerato atto sostanzialmente prodromico.
Losardo Salvatore e Torrisi Giuseppe
5.Losardo Salvatore e Torrisi Giuseppe, tramite difensore, propongono ricorso articolato in due motivi.
5.1. Nel primo si censura l'erronea applicazione dell’art. 43, cod. pen. in relazione agli artt. 256 comma 1, lett. b), smaltimento abusivo, e 256, comma 2, abbandono incontrollato, del d.lgs. n. 152 del 2006, in relazione alla lettera a) e alla lettera d), n. 2, dell’articolo 6, del d.l. 6/11/2008, n. 172, convertito con modificazioni dalla legge 30/12/2008, n. 210.
In particolare, si censura la decisione nella parte in cui, disattendendo la richiesta formulata in appello di una più favorevole riqualificazione della fattispecie nell’ipotesi colposa di cui all’art. 6, comma 1, lettera b) della normativa citata, ha reputato la condotta dei ricorrenti sorretta da coscienza e volontà, quantomeno nella forma del dolo eventuale.
Ad avviso della difesa, invece, il provvedimento impugnato è carente sotto il profilo della verifica della configurabilità e sussistenza dell’elemento psicologico del dolo, essendosi limitato a condurre un generico richiamo alle mansioni dei ricorrenti e ad evocare l’argomento del grave stato di degrado ambientale che avrebbe reso particolarmente acuta la percezione della probabile verificazione dell’evento, senza analizzare, come sarebbe stato necessario, gli elementi indicatori della specifica posizione del Torrisi e Losardo.
Si deduce che la sentenza non dimostrerebbe che gli imputati si siano confrontati ex ante con la specifica categoria di evento determinatosi aderendovi psicologicamente, aggiungendo che ciò non avrebbe potuto essere “trattandosi di eventi imprevedibili” ed essendo state effettuate le riparazioni necessarie a regola d’arte.
Si censura l’omessa motivazione circa l’asserita negligenza nella condotta degli imputati, pur contestata nel capo d’imputazione.
5.2. Nel secondo motivo di ricorso si contesta la contraddittorietà della motivazione con riferimento alla prova della condotta e dell'elemento psicologico degli imputati.
In particolare, l'affermazione di responsabilità degli imputati basata sull’omessa trasmissione del flusso di informazioni che avrebbe consentito un intervento di riparazione, si reputa contradditoria rispetto alle affermazioni contenute a pagina 19 della sentenza, in cui i giudici territoriali danno invece atto dell'avvenuta esecuzione di interventi manutentivi in data 3 agosto 2011 e 23 settembre 2011.
Si contesta la decisione nella parte in cui considera quale indice del dolo eventuale anche la “ripetizione della condotta” costituita dalla ripetitività dei guasti verificatisi. Sul punto si deduce la contraddittorietà dell’argomento con le circostanze emerse nel corso del dibattimento, si evidenzia che l’evento verificatosi in data 11 luglio 2011 non ha causato abbandono o smaltimento di rifiuto, che all'evento del 27 luglio 2011 è stato posto immediato rimedio con la riparazione del 3 agosto 2011 e che il malfunzionamento accertato il 23 settembre 2011 è stato riparato in pari data.
Ricorso proposto nell’interesse della Raffineria di Gela S.P.A.
6. Il ricorso proposto nell’interesse della Raffineria di Gela si articola in tre motivi.
6.1. Nel primo motivo si deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge penale; in particolare ci si duole della violazione del principio di legalità in relazione all'articolo 25 della Costituzione e dell'articolo 2, d.lgs. 231 del 2001 e la mancanza o comunque l'illogicità manifesta della motivazione, per avere la Corte d’appello confermato la responsabilità amministrativa dell'ente per una fattispecie incriminatrice, ovvero l’art. 6, lett. a) e d) n. 2, d.l. 6/11/2008, n. 172, non rientrante nel novero dei reati presupposti di cui all'articolo 25 undecies del d.lgs. 231 del 2001.
La censura discende dal tenore del capo 4) d’imputazione, nel quale si richiama il capo 3), che a sua volta contesta agli imputati persone fisiche il reato di cui all'articolo 256 del decreto legislativo 152 del 2006 in relazione alle lettere a) e d) n. 2 dell’art. 6 del d.l. 6/11/2008, n. 172, convertito con modificazioni dalla legge del 30/12/2008, n. 210.
Siffatta formulazione dell'imputazione, ad avviso della difesa, consente di intendere che le norme contestate siano esclusivamente i delitti della legislazione emergenziale che, tuttavia, non sono inclusi tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti di cui all’art. 2 del d.lgs. 231 del 2001.
La decisione sarebbe fondata su una erronea interpretazione del capo d’imputazione avendo la Corte d’appello ritenuto la responsabilità in ordine al reato di cui all’art. 256 TUA senza indicare perché il reato presupposto fosse contravvenzionale a fronte dell’intervenuta condanna alla pena della reclusione.
6.2. Nel secondo motivo di ricorso si deduce la violazione di legge e la mancata, contraddittoria e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza della colpa di organizzazione dell'ente. La difesa si duole della circostanza che la Corte avrebbe omesso di dettagliare il contenuto del modello organizzativo adottato dalla Raffineria di Gela e le ragioni per le quali lo stesso era da ritenere inidoneo a prevenire la commissione del reato presupposto.
6.3. Nel terzo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 5, 6, 7, e 25 undecies d.lgs. 231 del 2001, e la mancanza o comunque la contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riferimento ai canoni dell’interesse e o del vantaggio per l’ente.
La decisione impugnata avrebbe fatto derivare la responsabilità dell’ente dalla declaratoria di condanna delle persone fisiche, omettendo la necessaria verifica, in concreto, delle condotte contestate ex ante corrispondenti a un interesse della società o tali da far conseguire un vantaggio in termini di contenimento dei costi aziendali, anche alla luce dell’ingente perdita economica subita dalla Raffineria di Gela S.P.A. in conseguenza della dispersione accidentale di prodotto destinato alla vendita.
CONSIDERATO IN DIRITTO
7. Il ricorso proposto nell'interesse di Di Mario Paolo è inammissibile.
7.1. Il primo motivo si connota per manifesta infondatezza e genericità posto che l'accertamento della natura di rifiuto ai sensi dell'art. 183 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 costituisce una "quaestio facti", come tale demandata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (Sez. 3, n. 7037 del 18/01/2012, Fiorenza, Rv. 252445; Sez. 3, n. 14762 del 05/03/2002, Amadori e a., Rv. 221575 e da ultimo Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Schepis, Rv. 27600902).
La deduzione è inoltre riproduttiva della doglianza proposta in sede di gravame, analiticamente approfondita dalla Corte territoriale che, con motivazione corretta in diritto e immune da vizi logici, ha qualificato la “virgin nafta”, accidentalmente riversata al suolo, quale rifiuto, conformemente alle disposizioni nazionali e comunitarie in materia ambientale e dei principi enunciati in proposito dalla giurisprudenza nazionale e eurounitaria.
Come è noto, secondo la definizione contenuta nell'art. 183, comma 1, lettera a) d.lgs. 152 del 2006, nell'attuale formulazione, deve ritenersi rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi».
Tale definizione rispecchia quella contenuta nell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442 che definisce rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso di disfarsi".
L’ allegato prevede elenchi di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti.
Esso ha tuttavia soltanto un valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine "disfarsi" (v., in tal senso, sentenze 18 dicembre 1997, causa C129/96, InterEnvironnement Wallonie, Racc. pag. I7411, punto 26, e 18 aprile 2002, causa C9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. 3533, punto 22).
E' altrettanto noto che la corretta individuazione del significato del termine “disfarsi” ha lungamente impegnato dottrina e giurisprudenza, nazionale e eurounitaria.
Per la giurisprudenza sovranazionale, il verbo "disfarsi" va interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che è, ai sensi del suo terzo considerando, la protezione della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti, nonché alla luce dell'art. 174, paragrafo 2, del Trattato istitutivo dell'Unione Europea, il quale stabilisce che la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata, in particolare, sui principi della precauzione e dell'azione preventiva. Pertanto, il verbo "disfarsi", che determina l'ambito applicativo della nozione di rifiuto, non può essere interpretato restrittivamente (v., in tal senso, Corte di Giustizia 15 giugno 2000, ARCO Chemie Nederland; Corte Giustizia 11 novembre 2004, Niselli; Corte Giustizia 18 aprile 2002, Palin Granit).
In ambito nazionale, la giurisprudenza di legittimità ha affermato la necessità di interpretare l'azione di “disfarsi”, in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, e alla luce della finalità della normativa europea, volta ad assicurare un elevato livello di tutela della salute umana e dell'ambiente secondo i principi di precauzione e prevenzione e la ulteriore necessità che la qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui l'agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di eliminazione, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di utilità, per il medesimo, dei predetti materiali (Sez. 3, n. 19206 del 16/03/2017, Costantino, Rv. 269912).
Pertanto, la circostanza che l'allegato I della direttiva 75/442, intitolato "Categorie di rifiuti", menzioni, al punto Q4, le "sostanze accidentalmente riversate, perdute o aventi subito qualunque altro incidente, compresi tutti i materiali, le attrezzature, ecc. contaminati in seguito all'incidente in questione", costituisce soltanto un indizio dell'inclusione di tali sostanze e materie nell'ambito di applicazione della nozione di rifiuto.
Ciò premesso, in relazione al caso di specie la sola previsione di cui al punto Q4 non consente di per sé di qualificare rifiuti gli idrocarburi che siano stati accidentalmente sversati e che siano all'origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee, poiché è altresì necessario verificare se detto sversamento accidentale sia un atto mediante il quale il detentore "si disfa" di tali sostanze.
La corte di Giustizia ha precisato che ove la sostanza o l'oggetto in questione, costituiscano un residuo di produzione, ovvero un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore e che il detentore non può riutilizzare a condizioni economicamente vantaggiose senza prima sottoporlo a trasformazione, debbono considerarsi come un onere del quale il detentore "si disfa" (v., in tal senso, sentenza Palin Granit cit., punti 3237).
Con specifico riferimento agli idrocarburi accidentalmente sversati che siano all'origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee, la Corte di Giustizia ha specificato che essi non costituiscono un prodotto riutilizzabile senza trasformazione. Infatti, la loro commercializzazione è assai aleatoria e, anche ammesso che si volesse intraprenderla, presupporrebbe operazioni preliminari che non sono economicamente vantaggiose per il loro detentore. Pertanto, tali idrocarburi costituiscono sostanze che quest'ultimo non aveva l'intenzione di produrre e delle quali egli "si disfa", quand'anche involontariamente, in occasione di operazioni di produzione o di distribuzione ad esse attinenti. (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24/06/2008, Proc. C-188/07)
A tali argomentazioni la Corte aggiunge che una soluzione interpretativa di senso opposto vanificherebbe la direttiva 75/442, posto che l'art. 4 della stessa, prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie ad assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo, "senza creare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo e per la fauna e la flora", nonché le misure necessarie "per vietare l'abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti". In forza dell'art. 8 della medesima direttiva, gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un operatore incaricato del loro recupero o smaltimento ovvero provveda egli stesso a tali operazioni. L'art. 15 della direttiva individua il soggetto tenuto a sopportare il costo dello smaltimento dei rifiuti, "conformemente al principio chi inquina paga". Infatti, se gli idrocarburi che sono all'origine di un inquinamento non venissero considerati rifiuti per il fatto che sono stati sversati in modo involontario, il loro detentore sarebbe sottratto agli obblighi che la direttiva 75/442 prescrive agli Stati membri di porre a suo carico, in contrasto con il divieto di abbandono, scarico e smaltimento incontrollato dei rifiuti.
Da quanto sopra chiarito è possibile affermare il principio di diritto secondo il quale gli idrocarburi sversati accidentalmente ed inquinanti il terreno e le acque sotterranee devono essere qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, trattandosi di sostanze di delle quali il detentore “si disfa", non costituendo un prodotto riutilizzabile senza trasformazione ed essendo la sua commercializzazione aleatoria e, implicante operazioni preliminari che non sono economicamente vantaggiose.
Occorre precisare che gli idrocarburi accidentalmente sversati sono peraltro considerati rifiuti pericolosi, ai sensi della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 377, pag. 20), e della decisione del Consiglio 22 dicembre 1994, 94/904/CE, che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689 (GU L 356, pag. 14).
La corte territoriale ha, in maniera immune da censure, risposto positivamente al quesito relativo alla possibilità di ritenere uno sversamento accidentale di idrocarburi, quale atto mediante il quale il detentore si disfa di tali beni.
A pagina 45 della decisione si osserva che lo sfruttamento e la commercializzazione di idrocarburi sversati o emulsionati con l'acqua o, ancora, agglomerati con sedimenti è un'operazione molto aleatoria se non addirittura ipotetica e, anche ammettendo che sia tecnicamente attuabile, presupporrebbe comunque operazioni preliminari di trasformazione che, lungi dall'essere economicamente vantaggiose per il detentore di tale sostanza, comporterebbero considerevoli oneri finanziari.
I giudici d’appello, inoltre, evidenziano che, in realtà, la stessa Raffineria di Gela era consapevole della natura di rifiuto della nafta eventualmente fuoriuscita dai serbatoi e riversata sul terreno, atteso che tutte le aree maggiormente soggette a questa evenienza erano state pavimentate e dotate di spanti che avrebbero convogliato il prodotto sversato in una destinazione finale quale la fogna oliaria, sicuramente non compatibile con la natura di sottoprodotto.
7.2. Il secondo motivo di ricorso è parimenti manifestamente infondato.
La Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, che trovano in materia del dolo eventuale la loro massima espressione nella sentenza delle Sezioni unite n. 38343 del 24/04/2014 (P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261105).
Secondo tale pronunzia il dolo eventuale partecipa, al pari delle altre forme di dolo, sia dell'elemento della rappresentazione che della volontà, in piena corrispondenza con la definizione generale di cui all'art. 43 cod. pen.
Quando sussiste il dolo eventuale la volontà si esprime nella consapevole e ponderata adesione all'evento, sicché non si può più parlare di mera accettazione del rischio come nella colpa cosciente.
Le difficoltà per l'interprete non sono tanto di definizione, di inquadramento dommatico, quanto di accertamento, per cui le Sezioni unite ne hanno sottolineato la particolare complessità <<dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall'id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l'espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici>> (così in motivazione la citata sentenza n. 38343/14).
Anche di recente si è affermato che per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'"iter" e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (tra le più recenti Sez. 4, n. 14663 del 08/03/2018, P.C. in proc. A., Rv. 27301401).
Orbene, la sentenza qui in esame ha proceduto all’accertamento dell'elemento soggettivo del dolo eventuale in maniera coerente, congrua e esente da errori logico-giuridici; ha, infatti, analizzato non solo gli indicatori richiamati dalla più volte citata sentenza delle Sezioni unite, ma ne ha valorizzato altri caratterizzanti la vicenda concreta, ovvero il grave degrado ambientale il cui di trovava il P.G.S., E anche il malgoverno delle procedure di manutenzione e di controllo dell’impianto nel suo complesso.
Quanto alla lontananza dalla condotta standard, si è evidenziato che non erano specificate le frequenze delle azioni di manutenzione ed ispezione degli impianti, e che non esisteva una programmazione di tale attività come emerso dalle deposizioni dei periti; che non risultava complessivamente rispettato il modello organizzativo aziendale sulle procedure ambientali e su quelle necessarie per individuare tempestivamente eventuali perdite da tubazioni e serbatoi e fognature atteso che la frequenza dei controlli della zona serbatoi era ripartita con cadenze approssimative, non rigide e non conosciute con certezza dagli operatori.
La pavimentazione del bacino di contenimento era in stato di totale degrado e non vi era una previsione in bilancio, o atti correlati, diretta alla valutazione di opportunità e fattibilità economica di impermeabilizzazione del bacino di contenimento.
In merito alla durata della ripetizione delle condotte, si è evidenziato che per l'evento verificatosi in data 11 luglio 2011 non fu effettuato alcun intervento nonostante la presenza di gocciolamento dalle tubazioni che aveva provocato una macchia scura su sottosuolo, mai ripulita; che per l'evento del 27 giugno vi era stato un argine mediante l'attività di svuotamento della linea della cui consistenza, ma nulla era stato indicato nei relativi registri; per l'evento del 3 agosto fu effettuato un intervento di manutenzione in pari data, a partire dalla quale, tuttavia, fino al 23 settembre nessun controllo risulta essere stato effettuato per verificare la buona riuscita della riparazione. Con riferimento al 23 settembre nel 2011, nel corso del sopralluogo e seguito dalla polizia giudiziaria, fu riscontrata una copiosa perdita, nel medesimo punto che era stato oggetto di riparazione del giorno 5 agosto, immediatamente assorbita nel sottosuolo.
In riferimento alla qualità dell'efficienza delle manutenzioni effettuate, la decisione ha richiamato e fatto proprie le considerazioni rese dai periti che le hanno reputate inadeguate.
Sullo specifico aspetto relativo alla probabilità di verificazione dell'evento, la sentenza, in maniera logica e non contraddittoria, ha evidenziato che l'alto grado di compromissione ambientale, lo stato fatiscente delle tubazioni del serbatoio interessato dalla perdita, le condizioni del bacino di contenimento, e, soprattutto, il suo degrado di bacino di contenimento costituivano indicatori significativi della sussistenza di gravi indizi dell’elevata probabilità di verificazione dell'evento.
In queste condizioni, ha affermato la Corte territoriale, la dispersione del gasolio del suolo e del sottosuolo costituiva “un evento annunciato” a fronte del quale evidente era la necessità di porre in essere azioni indirizzate in modo deciso e risolutivo finalizzate ad impedire l'evento e, o, il suo protrarsi in un arco temporale significativo.
A ciò si è aggiunto che l'evidente stato di incuria del bacino costituiva, senza ombra di dubbio, la condizione di fatto essenziale per il verificarsi dell'evento, perché in assenza di un sistema idoneo ad assicurare l'immediato contenimento delle perdite di gasolio, l'abbandono lo smaltimento nel suolo e del sottosuolo della nafta erano prefigurabili quali conseguenze certe e non soltanto prevedibili o altamente probabili.
Infine nella motivazione, in maniera logica e coerente, operando un giudizio di valutazione di natura controfattuale, si è affermato che, in presenza di una corretta manutenzione e controllo delle tubature ed in presenza di una pavimentazione del bacino di contenimento in ottime condizioni, lo smaltimento sul suolo non si sarebbe verificato.
7.3. Anche il terzo motivo proposto è manifestamente infondato.
Il Tribunale ha fatto buon governo dei seguenti principi di diritto, applicabili alla fattispecie in esame, affermando che i titolari e i responsabili di enti ed imprese rispondono del reato di abbandono incontrollato di rifiuti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che abbiano posto in essere la condotta di abbandono (Sez. 3, n. 40530 del 11/06/2014, Mangone, Rv. 261383; Sez. 3, n. 23971 del 25/05/2011, Graniero, Rv. 250485; Sez. 3, n. 24736 del 18/05/2007, Sorce, Rv. 236882).
In particolare si è osservato che la procedura P-RAGE 117/03 avente lo scopo di definire e disciplinare le attività riferite alla raffineria per gestire situazioni “anomale” foriere di danni all’ambiente in occasione di attività di movimentazione e stoccaggio, prevedeva una sezione specifica relativa agli spanti delle attrezzature di terra.
Con riguardo a serbatoi, linee, pompe, sistemi di caricazione, era prescritto l’obbligo degli operatori dipendenti della Unità organizzativa di raffineria (S.O.I. 3- STOCC), nella cui area ricadevano le attrezzature, di assicurare un controllo frequente, costante e routinario circa il corretto funzionamento delle stesse e delle rispettive istallazioni, soprattutto nelle zone ove era potenzialmente maggiore il rischio di compromissione dell’ambiente; al contempo veniva fatto loro obbligo, a fronte di “ogni situazione che potrebbe evolvere verso una situazione di anomalia” di effettuare una segnalazione al Responsabile del S.O.I. al fine di intraprendere tutte le azioni correttive necessarie, quali tempestivi interventi operativi e manutentivi.
Nel mansionario delineato dall’albero aziendale, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che Di Mario Paolo e Torrisi Giuseppe, nella qualità di responsabili del turno operativo giornaliero in presenza di molteplici “segnali precisi e peculiari e anomali, costituiti dal visibile stato di degrado, avrebbero dovuto assolvere al duplice onere sopra indicato relativo non solo alla trasmissione di notizie (che non risulta essere stata effettuata efficacemente) ma anche dei costanti continui controlli, ben prima del concreto verificarsi delle perdite.
8.Anche il ricorso proposto nell’interesse di Losardo Salvatore e Torrisi Giuseppe, è da dichiarare inammissibile.
8.1. Quanto al primo motivo, in cui si censura la denegata riqualificazione della condotta contestata nell’ipotesi colposa di cui all’art. 6, comma 1, lettera b) della legge 210 del 2008, a supporto della sua manifesta infondatezza si fa integrale richiamo a quanto già evidenziato in precedenza circa la correttezza della qualificazione effettuata dalla Corte territoriale e l’assenza di vizi di legittimità nell’approfondito iter motivazionale in cui si è dato conto dell’esistenza di elementi indicativi idonei a ritenere configurabile, in capo a tutti i ricorrenti, dell’elemento soggettivo del dolo eventuale.
8.2. Il secondo ed il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente consistendo entrambi, in sostanza, in una generica e inammissibile richiesta di rivalutazione del ragionamento svolto dalla Corte territoriale.
Le censure dedotte si sviluppano, infatti, sul piano della ricostruzione fattuale e sono sostanzialmente volte a sovrapporre un'interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai giudici di merito, piuttosto che a far emergere una violazione di legge o un vizio della motivazione rilevante ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen.
Secondo i principi consolidati dalla Corte di cassazione la sentenza non può essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148).
La Corte territoriale, come già precisato, ha dato conto, in maniera dettagliata ed immune da vizi di illogicità e di contraddittorietà dell’inadeguatezza degli interventi svolti a fronte delle perdite riscontrate, reputate, anche in tal caso con ragionamento logico e coerente, reiterate e ripetute.
9.Il ricorso proposto da Casa Bernardo è inammissibile.
9.1.Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono generici e inammissibili, le censure rivolte alla motivazione resa dalla Corte d’appello appaiono prive di fondamento, in quanto volte ad una riconsiderazione dei fatti inammissibile in sede di legittimità, avendo, i giudici d’appello, con ragionamento esente dai vizi denunciati, dato dettagliatamente conto delle ragioni per le quali dalla sua qualifica di datore di lavoro, anche in presenza di altre figure competenti in relazione agli interventi di manutenzione, era derivata la responsabilità in ordine al reato ascrittogli.
Si è affermato chiaramente che nonostante la complessità della struttura aziendale e la puntuale ripartizione delle mansioni e dei settori di competenza, non imponesse al ricorrente un capillare controllo delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni o del dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa, la qualifica di “datore di lavoro”, ai sensi del d.lgs. n. 81 del 2008, lo rendeva comunque responsabile, civilmente e penalmente, degli eventi riconducibili alla attuazione di tutte e scelte gestionali di fondo ed in particolare a quelle non deliberatamente attenta alla prevenzione del danno ambientale quale quella dell'omessa manutenzione dei bacini di contenimento.
A ciò si è aggiunto che, secondo un consolidato orientamento di legittimità, l'amministratore della società per azioni riveste la posizione di garanzia di cui all'articolo 2639 del codice civile, in forza della quale deve conservare il patrimonio sociale, impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi; in tale prospettiva la responsabilità si configura a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ai sensi degli artt. 40, comma secondo, cod. pen., e 2639 del codice civile, a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto.
In relazione a quest’ultimo aspetto, i giudici d’appello hanno evidenziato, altresì, che il Casa Bernardo, nella sua qualità di gestore richiedente l’A.I.A. era ben a conoscenza delle criticità rilevate nel corso della procedura di rilascio in ordine allo stato dell'impianto e delle consequenziali prescrizioni resesi necessarie tra le quali figurava, al punto 67, anche la manutenzione del bacino di contenimento.
Con motivazione logica non contraddittoria e comunque immune dai vizi censurati la Corte d’appello ha affermato che le emergenze processuali dimostrano che il Casa fosse ben consapevole dello stato di grave degrado del bacino di contenimento e delle tubature a servizio dei serbatoi (cfr. osservazioni in sede di rilascio dell’A.I.A.) e che, a fronte della allarmante condizione non abbia provveduto alla puntuale osservanza dei piani di manutenzione delle tubazioni e alla impermeabilizzazione del bacino di contenimento, né avanzato proposte, nella competente sede deliberativa, per una previsione in bilancio della relativa spesa.
Il Casa, quindi, è stato dichiarato responsabile in base al ruolo di amministratore delegato in considerazione dell’omessa vigilanza dell’osservanza dei modelli aziendali e per non aver promosso o proposto, nelle adeguate sedi deliberative, adeguati piani di investimento per la manutenzione dei bacini di contenimento e delle tubature da servizio dei serbatoi, e comunque per non avervi provveduto direttamente entro il budget di spesa da lui gestibile, giacché se il sistema di controllo previsto dai modelli aziendali fosse stato attuato, le perdite dai fatiscenti tubi del serbatoio fossero state immediatamente contenute e bloccate, se il pavimento del bacino di contenimento fosse stato idoneo alla sua funzione, la sostanza pericolosa non sarebbe mai penetrata nel suolo e nel sottosuolo.
9.2. Quanto al terzo motivo di ricorso esso è manifestamente infondato, avendo la Corte d’appello chiarito che la contestazione di cui al capo 3) è riferita a delitti previsti dalla legislazione emergenziale alle lettere a) e d), n. 2, dell’art. 6, d.l. 6/11/2008, n. 172, convertito con modificazioni dalla legge del 30/12/2008, n. 210.
10. In relazione al ricorso proposto nell’interesse della Raffineria di Gela, la verifica della sua fondatezza del impone, preliminarmente, una valutazione di correttezza circa l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale alla contestazione di cui al capo 4) d’imputazione.
La Corte ha respinto il motivo d’impugnazione della società affermando che “la pronuncia di responsabilità è stata emessa per il reato di cui all’art. 256 T.U. ambiente, norma richiamata per relationem nel capo d’imputazione”.
La motivazione è censurabile per più ragioni.
La Corte territoriale, non ha tenuto conto del tenore del rinvio contenuto nel capo 4) che evoca chiaramente in maniera omnicomprensiva il capo 3) in cui ben si chiarisce, giova ricordarlo, che l’art. 256, comma 1, lett. b) e comma 2 del d.lgs. n. 152 del 2006, viene contestato in relazione alla lettera a) ed alla lettera d) n. 2, dell’art. 6, d.l. 6/11/2008, n. 172, convertito con modificazioni dalla legge 30/12/2008, n. 210.
La motivazione si palesa altresì contraddittoria con quanto già affermato dal Collegio di merito a pag. 39, ove, nel disattendere i motivi di ricorso proposti in relazione al capo 3) d’imputazione, si è soffermato ampiamente sulla ratio e sulla genesi del delitto di cui all’art. 6, legge 210 del 2008, evidentemente ritenendo tale disposizione il fulcro del capo d’imputazione.
Quanto affermato in ordine al motivo di ricorso relativo al capo di cui al n. 4), infine, contrasta con la circostanza che per il già citato capo 3) i giudici di merito di seconde cure hanno confermato la pena della reclusione irrogata in primo grado.
Accolta la prospettazione difensiva secondo la quale il reato contestato alla persona giuridica è il delitto di cui alle lettere a) e d) n. 2 dell’art. 6 del d.l. 6/11/2008, n. 172, convertito con modificazioni dalla legge del 30/12/2008, n. 21, il ricorso è pertanto da ritenersi fondato.
Come noto, il d.lgs. 231 del 2001, inserito nell’ordinamento italiano in forza di fonti normative internazionali e comunitarie, disciplina la responsabilità amministrativa degli enti collettivi per i fatti costituenti reato.
Questo modello di responsabilità, originariamente previsto con riguardo ad un ristretto novero di reati presupposti, è stato poi progressivamente esteso, con l’inserimento dell’art. 25 undecies, da parte del d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121, e con la successiva, legge 22 maggio 2015, n. 68, ad una più ampia serie di reati inclusivi anche delle fattispecie poste a tutela dell’ambiente, tra le quali, tuttavia non si rinviene l’art. 6, lett. a) e d) citato.
Giova ribadire che è costante affermazione della giurisprudenza di legittimità che la dichiarazione di responsabilità degli enti, impone un doppio livello di legalità, è necessario, cioè, che il fatto commesso dagli organi apicali dell'ente sia previsto da una legge entrata in vigore prima della commissione dello stesso e che tale reato sia previsto nel tassativo elenco dei reati presupposto.
Dal complesso delle norme del d.lgs. n. 231 del 2001, infatti, emerge che il sistema italiano, a differenza di altri ordinamenti giuridici, non prevede una estensione della responsabilità da reato alle persone giuridiche di carattere generale, coincidente cioè con l'intero ambito delle incriminazioni vigenti per le persone fisiche, ma limita detta responsabilità soltanto alle fattispecie penali tassativamente indicate nel decreto stesso.
Una tale impostazione è stata seguita dalla Suprema Corte (Sez. 3, n. 41329 del 07/10/2008, Galipò, Rv. 241528) in tema di reati ambientali prima che ad alcuni di essi venisse collegato l'illecito amministrativo dell'ente con il d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121, ed è stata confermata dalle Sezioni Unite (sent. n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv 258646) in tema di reati tributari non previsti nei tassativi elenchi del più volte citato decreto 231 del 2001 (vedi anche per una particolare applicazione del principio indicato Sez. 6, n. 3635 del 20/12/2013, Riva Fi.Re s.p.a., Rv. 257789).
Per tale ragione, non potendo il reato previsto dalla disciplina emergenziale legittimare l’affermazione della responsabilità della raffineria di Gela, la sentenza impugnata, sul punto, va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce illecito amministrativo.
L’accoglimento della prima doglianza rende superflua l’analisi del secondo e del terzo motivo di ricorso in quanto ad esso strettamente connessi.
10. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di Casa Bernardo, Losardo Salvatore, Di Mario Paolo e Torrisi Giuseppe consegue l'onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 3.000,00, nonché la rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio nei confronti delle parti civili, come da dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti della Raffineria di Gela S.P.A. perché il fatto non costituisce l’illecito amministrativo contestato.
Dichiara inammissibili i ricorsi di Casa Bernardo, Losardo Salvatore, Di Mario Paolo e Torrisi Giuseppe che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio nei confronti delle parti civili Comune di Gela, libero consorzio comunale di Caltanissetta, associazione Aria Nuova che liquida in euro 3500 oltre ad accessori di legge per ciascuna di esse, condanna altresì predetti alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile associazione Amici della terra ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Caltanissetta con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83. D.P.R. 115/2002 disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso il 9/07/2021.