Corte Costituzionale sent. 140 del 9 luglio 2015
Beni culturali-Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali
Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo - Modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004 - Decoro dei complessi monumentali ed altri immobili - Previsione che le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le Sovrintendenze, sentiti gli enti locali, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l'uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico - Previsione che i Comuni, sentito il soprintendente, individuano i locali nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica;
Previsione che le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le soprintendenze, sentiti gli enti locali, adottano apposite determinazioni volte a vietare le attività commerciali e artigianali, (anche) in forma ambulante o su posteggio, non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione di aree di valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, nonché delle aree ad esse "contermini".
SENTENZA N. 140
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2-bis e 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 ottobre 2013, n. 112, promossi dalle Regioni Veneto e Campania con ricorsi entrambi notificati il 9 dicembre 2013, e depositati in cancelleria il 17 e il 18 dicembre 2013, rispettivamente iscritti ai nn. 101 e 102 del registro ricorsi 2013; nonché degli artt. 4 e 16, commi 5 e 6, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83 (Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 luglio 2014, n. 106, promossi dalle Regioni Veneto e Campania, con ricorsi notificati il 29 settembre 2014 e il 29 settembre-6 ottobre 2014, depositati in cancelleria il 7 ed il 9 ottobre 2014, rispettivamente iscritti ai nn. 72 e 73 del registro ricorsi 2014.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 giugno 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati Luigi Manzi, Ezio Zanon e Daniela Palumbo per la Regione Veneto, Almerina Bove per la Regione Campania e gli avvocati dello Stato Ettore Figliolia, Maria Gabriella Mangia e Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Con ricorso notificato il 9 dicembre 2013 e depositato il successivo 17 dicembre (iscritto nel registro ricorsi del 2013 al n. 101), la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, ha proposto questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo), introdotto dalla legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112. La norma censurata – che aggiunge il comma 1-bis al comma 1 dell’art. 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) – prevede che le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le Sovrintendenze, sentiti gli enti locali, adottino apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione delle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, quali le attività commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con tali esigenze.
La Regione Veneto osserva, innanzitutto, che la formulazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004, come modificato dal d.l. n. 91 del 2013 nel testo convertito in legge, presenta un doppio comma 1-bis, il primo dei quali introdotto dall’art. 2-bis della medesima legge di conversione ed il secondo dalla norma censurata. Orbene, per la ricorrente, l’armonia legislativa dei commi 1 e 1-bis del citato art. 52 (che attribuisce ai Comuni la competenza di individuare le aree pubbliche nelle quali imporre il divieto o limitazioni all’esercizio del commercio, per preminenti ragioni di tutela di beni o siti di valenza archeologica, storica, artistica e paesaggistica; nonché i locali da destinare ad attività di artigianato tradizionale ed altre attività commerciali tradizionali, con finalità tutt’altro che impeditive, ma anzi promozionali) risulta «completamente stravolta» dalla norma censurata, che appunto, introduce un ulteriore comma 1-bis nell’art. 52 di contenuto diametralmente opposto a quello immediatamente precedente, assegnando una funzione di amministrazione attiva alle Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici ed alle Sovrintendenze, relegando contestualmente i Comuni in un ruolo di interlocutore con funzioni consultive obbligatorie ma non vincolanti.
Ripercorso, analiticamente, l’excursus normativo che ha regolato la ripartizione delle diverse competenze tra Comuni ed organi statali in subiecta materia – con specifico riferimento a quanto disposto dagli artt. 10 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), 53 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), e 52 del citato d.lgs. n. 42 del 2004; nonché dalle direttive emanate dal Ministero per i beni e le attività culturali, in data 9 novembre 2007 (Esercizio del commercio in aree di valore culturale di cui all’articolo 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) e 10 ottobre 2012 (Esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale), il contenuto della quale ultima è stato trasfuso nel censurato art. 4-bis – la ricorrente osserva come proprio l’impugnato intervento legislativo, «disgiunto dal necessario, conseguente, riordino ordinamentale ed istituzionale», abbia «creato un affastellamento normativo, fonte di grave incertezza giuridica, precludendo, altresì, il ricorso a quei meccanismi di collaborazione e concertazione posti a presidio della regolazione di ambiti connotati da un rilevante intreccio di una pluralità di interessi pubblici».
Da ciò essa desume, in primo luogo, che la disposizione lede il canone di ragionevolezza, che travalica il mero vizio di tecnica legislativa, incidendo sul corretto esercizio della potestà legislativa regionale che, specialmente in contesti di potestà normativa residuale, quale certamente è quello relativo al commercio, subisce restrizioni così rilevanti da risultarne svuotata. In secondo luogo – poiché la disposizione stessa non offre neppure canoni e parametri omogenei che consentano alle Direzioni regionali per i beni culturali ed alle Sovrintendenze l’esercizio uniforme del potere discrezionale di cui si ritrovano ad essere tributari – la ricorrente ne denuncia il contrasto con l’art. 97 della Costituzione.
Nel merito, la Regione osserva che la finalità espressa della norma (nel cui incipit è enunciato il proposito di «contrastare l’esercizio […] delle attività commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile», allo scopo dichiarato di «assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale […] nonché delle aree a essi contermini») più che ad esigenze di tutela del patrimonio culturale riservata allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sembrerebbe piuttosto riconducibile alla «valorizzazione dei beni culturali» di cui al successivo comma terzo (conformemente ai criteri distintivi enucleati da questa Corte nelle sentenze n. 212 del 2006 e n. 9 del 2004, secondo cui la valorizzazione è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione e con riferimento ai modi di questa).
Evidenziato come il fulcro della questione consista non tanto nell’apposizione di vincoli all’esercizio di determinate attività, quanto piuttosto nell’individuazione dei soggetti istituzionali a ciò competenti, la Regione osserva che – quanto ai limiti apponibili all’esercizio del commercio, al fine appunto di garantire le esigenze di valorizzazione e migliore fruibilità del patrimonio culturale, nel rispetto del principio della libertà dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost. – la relativa potestà regolamentare spetta alla amministrazione comunale (ex art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali»), cui si aggiunge una potestà legislativa regionale residuale (ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.), come riconosciuto con la sentenza n. 247 del 2010, con riferimento alla legge della Regione Veneto 25 febbraio 2005, n. 7 (Disposizioni di riordino e semplificazione normativa − collegato alla legge finanziaria 2004 in materia di miniere, acque minerali e termali, lavoro, artigianato, commercio e veneti nel mondo). Viceversa, per effetto della censurata novella statale, la portata precettiva delle disposizioni regionali, che avessero trovato puntuale attuazione nelle conseguenti e consequenziali determinazioni comunali, potrebbe subire un’inammissibile compromissione a seguito di un atto provvedimentale emanato dal sovrintendente nell’esercizio di potestà amministrative, connotate da un’estensione tale da travolgere qualsiasi competenza costituzionalmente garantita, sino a rasentare l’arbitrio.
La Regione dunque sottolinea che l’odierno ricorso è diretto a sollecitare una pronuncia della Corte, che chiarisca la reale portata legislativa della disposizione impugnata, restituendo certezza giuridica agli operatori economici del settore e ricomponendo in termini di coerenza quello che attualmente è un insieme frammentario e non coordinato di una pluralità di competenze soggettivamente ed oggettivamente simultaneamente interferenti, secondo un «modello di rovesciamento prospettico che emargina le amministrazioni comunali ad un ruolo meramente valutativo, e neppure vincolante, con riverberi decisivi sulla restante e rilevantissima attività di governo del territorio, sia pianificatoria che organizzativa».
Per questi motivi, la ricorrente deduce la violazione del terzo comma dell’art. 117 Cost., atteso che, trattandosi di àmbito soggetto a potestà legislativa concorrente, esso avrebbe dovuto essere contenuto nei margini che gli sono propri, e cioè nei limiti dell’enucleazione dei princìpi fondamentali; nonché la violazione dell’art. 118 Cost., in assenza di qualsiasi parametro di valutazione, e di qualsivoglia meccanismo di raccordo istituzionale, che consenta il legittimo esercizio delle predette attribuzioni secondo i noti criteri di economicità, efficacia ed efficienza, senza spreco di risorse, perseguendo quegli obiettivi di valorizzazione del patrimonio culturale che non possono essere disgiunti da metodi di ottimizzazione e finalità di sviluppo.
La Regione Veneto – sul rilievo che «la necessità di una convergenza in questo particolare àmbito di legislazione, nel quale i settori del commercio e del turismo si intrecciano con quello afferente la valorizzazione dei beni culturali, appare di indiscutibile pregnanza, attesa la ragionevolezza ed assoluta condivisibilità di interventi regolatori dell’attività imprenditoriale per contemperare le esigenze di salvaguardia del diritto di impresa con quelle afferenti altri valori costituzionalmente garantiti» – sottolinea come lo stesso art. 5 del citato d.lgs. n. 42 del 2004 abbia cristallizzato in norma il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., che altre disposizioni del medesimo decreto legislativo (artt. 17, comma 1, 18, comma 2) declinano in una multiforme varietà di modelli di intesa e coordinamento tra lo Stato e le Regioni stabiliti per l’esercizio delle rispettive competenze amministrative. Pertanto, la mancata previsione di forme di leale collaborazione determina la violazione dell’art. 120 Cost., nonché – atteso l’intreccio di una pluralità di competenze, che configura come indefettibile un adeguato e fruttuoso confronto tra i vari livelli di governo – del terzo comma dell’art. 118 Cost., ove si impone alla legge statale la disciplina di forme di intesa e di coordinamento tra Stato e Regioni proprio nella materia della tutela dei beni culturali.
1.1.− Con ricorso notificato il 9 dicembre 2013 e depositato il successivo 18 dicembre [iscritto nel registro ricorsi del 2013 al n. 102], la Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, ha proposto questioni di legittimità costituzionale, oltre che dell’art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2013, dell’art. 2-bis, anch’esso introdotto dalla legge di conversione n. 112 del 2013. L’art. 2-bis (inserendo il comma 1-bis all’art. 52 del codice dei beni culturali e sostituendone la rubrica) prevede che i Comuni, sentito il sovrintendente, individuino i locali nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO, onde assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia.
Osserva la ricorrente che – poiché la disposizione censurata appare senz’altro ascrivibile alle materie «artigianato» e «commercio», oggetto di competenza legislativa residuale della Regione, cui è attribuita anche l’adozione delle relative misure di promozione, sviluppo e sostegno – essa si pone in contrasto con l’art. 117, quarto comma, Cost.
In subordine, ove anche si ravvisasse un àmbito di competenza concorrente in materia di «valorizzazione dei beni culturali», la Regione deduce la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto la norma non si limita alla individuazione dei princìpi cui informare la disciplina della materia, ma detta una disciplina di dettaglio.
Inoltre, per la ricorrente, la disposizione vìola il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, in quanto oblitera del tutto il coinvolgimento delle Regioni nel delineato procedimento volto alla individuazione delle forme di promozione e salvaguardia da adottarsi, destinate a riverberarsi in ogni caso sulle attività ascritte alla competenza regionale (artigianato e commercio).
A sua volta, il già citato art. 4-bis viene censurato per violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., in quanto non compete allo Stato la disciplina delle attività artigianali e commerciali né l’adozione di apposite determinazioni volte a vietare le attività non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione delle aree di valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico. D’altronde, secondo la Regione, la materia della valorizzazione dei beni culturali è affidata alla competenza concorrente regionale, con la conseguenza della illegittimità costituzionale della norma anche sotto il profilo dell’eccedenza del relativo contenuto rispetto ai princìpi fondamentali nella materia, e del contrasto con la necessità che essi lascino spazio per una attuazione regionale.
1.2.− Con due memorie di contenuto pressoché identico, si è costituito in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità ovvero per la non fondatezza delle questioni.
La difesa dello Stato rileva che le disposizioni censurate rientrano nell’àmbito della «tutela dei beni culturali», di competenza esclusiva dello Stato, diretta a preservare siti di particolare pregio culturale dal degrado inevitabilmente arrecato dall’esercizio diffuso e talora incontrollato di attività commerciali e/o ambulanti di varia natura e tipologia. E ciò, sia per l’art. 2-bis, il cui oggetto specifico sarebbe costituito non già dall’artigianato o dalle attività di commercio generalmente intese, ma da quelle particolari forme che – in quanto “tradizionali” e in quanto svolte “nei locali storici tradizionali” – sono considerate «espressione di identità culturale collettiva», ai sensi della Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, che riconduce l’artigianato tradizionale nel «patrimonio culturale immateriale». Sicché – pur riconoscendo le incertezze e sovrapposizioni derivanti dalla scissione operata dall’art. 117 Cost. – l’Avvocatura ritiene che quella prevista dall’art. 2-bis costituisca misura volta a garantire che le attività di artigianato e commercio tradizionali possano svolgersi con modalità e in condizioni funzionali alla conservazione e protezione (ossia tutela) della loro intrinseca natura di bene culturale, al fine di soddisfare l’interesse della collettività alla loro piena fruizione. Sia per l’art. 4-bis, il quale dispone interventi che mirano a regolamentare attività che, per le loro connaturali forme di esplicazione, appaiono suscettibili di alterare l’integrità di aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico.
Laddove, poi – ove pure si ritenesse, come osservato dalle stesse ricorrenti, che la materia sia ascrivibile alla valorizzazione dei beni culturali (cioè alla loro fruizione) ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost. – la difesa dello Stato ritiene che l’attribuzione alle Direzioni regionali del potere di individuare specifiche modalità di utilizzazione, che non risultino compatibili con le esigenze di tutela, rientri nella determinazione dei princìpi fondamentali riservata allo Stato.
1.3.− In una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza (relativamente al ricorso della Regione Veneto), la difesa dello Stato ribadisce le conclusioni ed approfondisce le argomentazioni già svolte negli atti di costituzione.
2.− Con ricorso notificato il 29 settembre 2014 e depositato il successivo 7 ottobre (iscritto nel registro ricorsi del 2014 al n. 72), la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, ha impugnato l’art. 4, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83 (Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 luglio 2014, n. 106, che ha integrato il rinumerato comma 1-ter dell’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004, tra l’altro, attribuendo ai competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni, una potestà revocatoria delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico ai fini dell’esercizio di attività commerciali e artigianali.
Confermate le ragioni di illegittimità costituzionale fatte valere nel precedente ricorso, al quale viene chiesta la riunione del presente, la ricorrente deduce, innanzitutto, la violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 120 Cost., in quanto la norma consente di procedere a detta revoca anche in deroga non solo alla disciplina dettata dalle Regioni in materia di commercio (attribuita alla loro competenza residuale), a norma dell’art. 28 del d.lgs. n. 114 del 1998, ma anche ai criteri stabiliti dall’art. 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). La qual cosa – in un àmbito materiale che, seppur connotato da sovrapposizione di varie materie (quali la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, il commercio ed il turismo), tuttavia, in considerazione del contenuto sostanziale delle attività interessate dalle potestà provvedimentali de quibus, ricade in modo preponderante nella materia concorrente della valorizzazione dei beni culturali – avrebbe dovuto determinare il legislatore statale a dettare esclusivamente una normativa di principio (contenente criteri ed obiettivi), lasciando alle Regioni l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere detti obiettivi. Cosa che viceversa non è avvenuta, avendo il legislatore statale previsto una puntuale disciplina incidente non solo nella materia concorrente della valorizzazione dei beni culturali, ma anche nelle materie residuali del commercio e del turismo. E, comunque, anche qualora si ritenesse l’impossibilità, stanti il concorso e la sovrapposizione di competenze, di ascrivere la disciplina impugnata in un àmbito materiale prevalente, la ricorrente denuncia la violazione del principio di leale collaborazione in mancanza di previsione di alcuna forma di coordinamento, neppure sotto forma di intesa in sede di conferenze intergovernative.
La Regione Veneto denuncia, altresì, la violazione dell’art. 118 Cost., in quanto la norma attribuisce una potestà amministrativa revocatoria in mancanza di una disciplina legislativa logicamente pertinente e idonea alla regolazione di dette funzioni, tanto più in quanto (come detto) viene prevista la possibilità di agire in deroga alla disciplina regionale in materia di commercio e di relativa concessione dei posteggi per il suo esercizio su aree pubbliche. Da ciò, la ricorrente evince anche la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., giacché quello in questione si configura come un non altrimenti regolamentato potere del tutto sui generis, che non involge una mera riconsiderazione dell’interesse pubblico, ma che consente all’autorità designata (al generico fine di tutela e valorizzazione dei beni culturali) di elidere indiscriminatamente gli effetti di un precedente provvedimento amministrativo, anche alterando il quadro normativo di riferimento, con lesione del principio di uguaglianza e del principio di legalità sostanziale dell’azione amministrativa e di buon andamento della pubblica amministrazione.
Infine, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in assenza di alcun criterio regolamentare che perimetri detto potere entro limiti che garantiscano il rispetto fondamentale del canone di non discriminazione e di libertà di concorrenza imposti dalla direttiva 12 dicembre 2006, 2006/123/CE (relativa ai servizi nel mercato interno), specificamente attuata dal citato art. 70 del d.lgs. n. 59 del 2010.
2.1.− Con ricorso notificato il 29 settembre 2014 e depositato il successivo 9 ottobre (iscritto nel registro ricorsi del 2014 al n. 73), la Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, ha impugnato gli artt. 4 e 16, commi 5 e 6, del citato d.l. n. 83 del 2014, come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2014, deducendo, innanzitutto (quanto all’art. 4) la non satisfattività di tale intervento normativo e, pertanto, riproponendo le censure mosse nel precedente ricorso.
In particolare, poi, la ricorrente denuncia la nuova normativa per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., giacché essa presuppone la perdurante applicabilità dell’art. 28 del d.lgs. n. 114 del 1998, in contrasto con il principio espresso da questa Corte (con la sentenza n. 247 del 2010), sulla base dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizione per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), secondo cui tale applicabilità viene meno quando le Regioni (come nella specie per la Campania, con legge regionale 9 gennaio 2014, n. 1, recante «Nuova disciplina in materia di distribuzione commerciale») abbiano emanato una propria legislazione in materia di commercio. E denuncia, inoltre, il contrasto con l’art. 117, secondo, terzo e quarto comma, Cost., in quanto – ricondotta la normativa impugnata nell’àmbito della materia concorrente «valorizzazione dei beni culturali» – essa (con disposizioni di dettaglio) sottrae alle Regioni, per determinate zone del loro territorio (e nelle aree contermini), la disciplina del commercio su aree pubbliche, per il generico fine di rafforzare le misure di tutela del decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti.
In via subordinata, ove si ritenesse la parziale riconducibilità della normativa de qua alla «tutela dei beni culturali», la Regione ritiene la violazione degli artt. 5, 118, terzo comma, e 120 Cost., in mancanza di previsione di forme di intesa e coordinamento, al fine di assicurare le peculiarità locali delle Regioni, non potendo la legge dello Stato disciplinare unilateralmente, senza ricorso al procedimento partecipativo, le materie oggetto delle intese stipulate ex art. 8, comma 6, della legge n. 131 del 2003. Inoltre, la ricorrente deduce il contrasto delle norme impugnate con gli artt. 117, primo, secondo e quarto comma, e 120, secondo comma, Cost., là dove queste sottraggono alle Regioni, per determinate zone del territorio, la disciplina del commercio al dettaglio su aree pubbliche, anche in relazione al comma 5 dell’art. 70 del d.lgs. n. 59 del 2010, senza che lo Stato abbia previsto intese tra le autorità competenti, con lesione del principio di leale collaborazione, che ridonda necessariamente in violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
Nello stesso ricorso, la Regione Campania impugna, infine, l’art. 16, commi 5 e 6, dello stesso d.l. n. 83 del 2014, come convertito dalla legge n. 106 del 2014, che dispone la trasformazione dell’ENIT in ente pubblico economico, senza prevedere (al comma 5), ai fini dell’approvazione del nuovo statuto, alcuna intesa con le Regioni e le Province autonome, le quali, in ragione del rinvio alla fonte statutaria dell’ente anche per la disciplina dell’Osservatorio nazionale del turismo (comma 6), sono private anche di qualsiasi competenza al riguardo (pur vantando competenza residuale in materia di turismo), con violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., e del principio di leale collaborazione di cui all’art. 5 Cost.
2.2.− Con due memorie, si è costituito in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità ovvero per la non fondatezza delle questioni.
Sulla base di analoghe considerazioni, la difesa dello Stato – ritenuta la inconferenza delle censure riferite agli artt. 3 e 97 Cost. – ribadisce come oggetto diretto ed immediato del censurato art. 4 del d.l. n. 83 del 2014 è la tutela del patrimonio culturale, materia di sicura iscrizione alla potestà legislativa statale, le cui ricadute indirette sulla disciplina del commercio o del turismo (così come quella di dettaglio in materia di valorizzazione del patrimonio culturale) costituiscono meri riflessi inevitabili della relativa disciplina di tutela, che non realizzano indebito esercizio di potestà normativa da parte dello Stato in una materia regionale, bensì effetto naturale della priorità della suddetta tutela. Sicché, ben si comprende, alla stregua della gerarchia dei valori e interessi disciplinati dall’ordinamento, perché i sopravvenuti provvedimenti revocatori svolgano effetti prevalenti sui titoli amministrativi, pur legittimi, acquisiti e vantati dai singoli, e siano pertanto idonei a travolgerli. Né per la difesa dello Stato risulta violato il principio di leale collaborazione, in quanto la norma impugnata espressamente prevede che i competenti uffici territoriali del Ministero e i Comuni avviano, d’intesa, i procedimenti di riesame delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico che risultino non più compatibili con le menzionate esigenze di tutela.
Quanto all’art. 16, censurato dalla sola Regione Campania, l’Avvocatura generale dello Stato deduce che – considerata la natura di ente pubblico economico dell’ENIT – la disciplina legislativa è riconducibile alle materie dell’«ordinamento ed organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» e dell’«ordinamento civile», riservate alla competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettere g) ed l), Cost. Laddove, poi, la competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di turismo non esclude interventi legislativi dello Stato volti a disciplinare l’esercizio unitario di determinate funzioni amministrative nella stessa materia.
Ad ogni modo, la difesa dello Stato rileva che la partecipazione delle Regioni alle attività dell’ente è assicurata dalla possibilità di stipulare convenzioni con esso (comma 3), dalla nomina a componente del consiglio di amministrazione di un membro designato dalla Conferenza Stato-Regioni (che deve essere sentita anche in ordine all’espletamento di varie attività di gestione dell’ente ed al raggiungimento di obiettivi economico-finanziari, ai sensi del comma 7) e dalla istituzione di un consiglio federale rappresentativo delle agenzie regionali per il turismo, o (in mancanza di esse) degli uffici amministrativi competenti per il turismo in àmbito regionale.
2.3.− In una memoria di udienza, la Regione Veneto ribadisce le argomentazioni svolte a sostegno dei due proposti ricorsi, e insiste nella richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme con gli stessi impugnate.
2.4.− In due memorie di udienza, la difesa dello Stato conclude, da un lato, per la dichiarazione di cessazione della materia del contendere relativamente al ricorso n. 101 del 2013; e, dall’altro lato, per l’inammissibilità o la non fondatezza del ricorso n. 72 del 2014, riportandosi alle argomentazioni già svolte.
Considerato in diritto
1.− I due ricorsi proposti dalla Regione Veneto e dalla Regione Campania, iscritti rispettivamente ai nn. 101 e 102 del registro ricorsi del 2013, riguardano un primo intervento normativo operato dal legislatore statale – con l’adozione dei censurati artt. 2-bis e 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo), introdotti dalla legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112 – sul testo dell’art. 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che, sotto la rubrica “Esercizio del commercio in aree di valore culturale” disponeva quanto segue: «Con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio».
L’art. 2-bis prevede che «All’articolo 52 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, sono apportate le seguenti modificazioni: a) dopo il comma 1 è aggiunto il seguente: “1-bis. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresì i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione”; b) la rubrica è sostituita dalla seguente: “Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali”».
A sua volta, l’art. 4-bis del menzionato decreto-legge dispone che «All’articolo 52 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, dopo il comma 1 è aggiunto il seguente: “1-bis [sic]. Al fine di contrastare l’esercizio, nelle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, di attività commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale, con particolare riferimento alla necessità di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le soprintendenze, sentiti gli enti locali, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico.”».
A seguito, dunque, delle addizioni apportate, il testo dell’art. 52 del codice dei beni culturali (sotto la nuova rubrica “Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali”, così sostituita dall’art. 2-bis, lettera b, del d.l. n. 91 del 2013, introdotto dalla legge di conversione n. 112 del 2013) era il seguente: «1. Con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio». «1-bis. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresì i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione» (comma aggiunto dall’art. 2-bis, lettera a, del d.l. n. 91 del 2013, introdotto dalla legge di conversione n. 112 del 2013). «1-bis. [sic] Al fine di contrastare l’esercizio, nelle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, di attività commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale, con particolare riferimento alla necessità di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le soprintendenze, sentiti gli enti locali, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico» (comma aggiunto dall’art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2013, introdotto dalla legge di conversione n. 112 del 2013).
1.1.− La sola Regione Campania impugna l’art. 2-bis del d.l. n. 91 del 2013, introdotto dalla legge di conversione n. 112 del 2013, deducendone il contrasto: a) con l’art. 117, quarto comma, Cost., in quanto ascrivibile alle materie «artigianato» e «commercio», oggetto di competenza legislativa residuale della Regione, cui compete anche l’adozione delle relative misure di promozione, sviluppo e sostegno; b) con l’art. 117, terzo comma, Cost., poiché – ove si ravvisasse la competenza concorrente in materia di «valorizzazione dei beni culturali» – essa non si limita ad individuare i princìpi cui informare la disciplina della materia, ma ne detta una di dettaglio; c) con il principio di leale collaborazione, in quanto oblitera il coinvolgimento delle Regioni nel delineato procedimento volto alla individuazione delle forme di promozione e salvaguardia da adottarsi, destinate a riverberarsi in ogni caso sulle attività ascritte alla competenza regionale (artigianato e commercio).
Entrambe le Regioni Veneto e Campania censurano (sulla base di argomentazioni sotto diversi profili coincidenti) l’art. 4-bis del medesimo d.l. n. 91 del 2013, come introdotto dalla citata legge di conversione, assumendone rispettivamente il contrasto: a) con l’art. 3 Cost., giacché – rilevato che la nuova formulazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004, da essa modificato, presenta un doppio comma 1-bis – travalica il mero vizio di tecnica legislativa, incidendo sul corretto esercizio della potestà legislativa regionale che, specialmente in contesti di potestà normativa residuale, quale certamente è quello relativo al commercio, subisce restrizioni così rilevanti da risultarne svuotata (Regione Veneto); b) con l’art. 97 Cost., poiché non offre neppure canoni e parametri omogenei che consentano alle Direzioni regionali per i beni culturali ed alle Sovrintendenze l’esercizio uniforme del potere discrezionale di cui si ritrovano ad essere tributari (Regione Veneto); c) con gli artt. 117, quarto comma, e 118 Cost., non competendo allo Stato la disciplina delle attività artigianali e commerciali, né l’adozione di apposite determinazioni volte a vietare le attività non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione delle aree di valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico (Regione Campania); d) con l’art. 117, terzo comma, Cost., incidendo in un àmbito soggetto a potestà legislativa concorrente, in materia di «valorizzazione dei beni culturali», che avrebbe dovuto essere contenuto nei limiti dell’enucleazione dei princìpi fondamentali (Regioni Veneto e Campania); e) con l’art. 118 Cost., non contenendo alcun parametro di valutazione, e di qualsivoglia meccanismo di raccordo istituzionale, che consenta il legittimo esercizio delle predette attribuzioni secondo i noti criteri di economicità, efficacia ed efficienza, senza spreco di risorse, perseguendo quegli obiettivi di valorizzazione del patrimonio culturale che non possono essere disgiunti da metodi di ottimizzazione e finalità di sviluppo (Regione Veneto); f) con l’art. 120 Cost., non contemplando la previsione di forme di leale collaborazione, nonostante la necessità di una convergenza in questo particolare àmbito di legislazione, nel quale i settori del commercio e del turismo si intrecciano con quello afferente la valorizzazione dei beni culturali (Regione Veneto); g) con l’art. 118, terzo comma, Cost. (secondo cui la legge statale disciplina forme di intesa e di coordinamento tra Stato e Regioni nella materia della tutela dei beni culturali) atteso l’intreccio di una pluralità di competenze, che configura come indefettibile un adeguato e fruttuoso confronto tra i vari livelli di governo (Regione Veneto).
2.− I due successivi ricorsi, iscritti rispettivamente ai nn. 72 e 73 del registro ricorsi del 2014, riguardano il secondo intervento normativo sul testo dell’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004 (già modificato dagli artt. 2-bis e 4-bis del d.l. n. 91 del 2013, introdotti dalla legge di conversione n. 112 del 2013), attuato dal legislatore statale con l’art. 4, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83 (Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 luglio 2014, n. 106.
Il censurato art. 4, comma 1, dispone che «Il comma 1-bis dell’articolo 52 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 , aggiunto dall’articolo 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112, è rinominato a partire dalla data di entrata in vigore del presente decreto “1-ter”. Al fine di rafforzare le misure di tutela del decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti e anche in relazione al comma 5 dell’articolo 70 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno, al comma 1-ter dell’articolo 52 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, come rinominato dal presente articolo, al primo periodo, le parole: “di contrastare l’esercizio, nelle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, di attività commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale, con particolare riferimento alla necessità” sono soppresse e le parole: “le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le soprintendenze, sentiti gli enti locali” sono sostituite dalle seguenti: “i competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni”, ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “In particolare, i competenti uffici territoriali del Ministero e i Comuni avviano, d’intesa, procedimenti di riesame, ai sensi dell’articolo 21-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche a rotazione, che risultino non più compatibili con le esigenze di cui al presente comma, anche in deroga a eventuali disposizioni regionali adottate in base all’articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e successive modificazioni, nonché in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell’intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall’articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. In caso di revoca del titolo, ove non risulti possibile il trasferimento dell’attività commerciale in una collocazione alternativa potenzialmente equivalente, al titolare è corrisposto da parte dell’amministrazione procedente l’indennizzo di cui all’articolo 21-quinquies, comma 1, terzo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, nel limite massimo della media dei ricavi annui dichiarati negli ultimi cinque anni di attività, aumentabile del 50 per cento in caso di comprovati investimenti effettuati nello stesso periodo per adeguarsi alle nuove prescrizioni in materia emanate dagli enti locali”».
A seguito di tali modifiche, il testo attuale dell’art. 52 del codice dei beni culturali (sotto la rubrica “Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali”) dispone quanto segue: «1. Con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio. 1-bis. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresì i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione. 1-ter. Al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, i competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico. In particolare, i competenti uffici territoriali del Ministero e i Comuni avviano, d’intesa, procedimenti di riesame, ai sensi dell’ articolo 21-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche a rotazione, che risultino non più compatibili con le esigenze di cui al presente comma, anche in deroga a eventuali disposizioni regionali adottate in base all’articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e successive modificazioni, nonché in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell’intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall’articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. In caso di revoca del titolo, ove non risulti possibile il trasferimento dell’attività commerciale in una collocazione alternativa potenzialmente equivalente, al titolare è corrisposto da parte dell’amministrazione procedente l’indennizzo di cui all’articolo 21-quinquies, comma 1, terzo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, nel limite massimo della media dei ricavi annui dichiarati negli ultimi cinque anni di attività, aumentabile del 50 per cento in caso di comprovati investimenti effettuati nello stesso periodo per adeguarsi alle nuove prescrizioni in materia emanate dagli enti locali».
2.1.− Sul presupposto della mancata portata satisfattiva delle disposizioni sopravvenute rispetto alle ragioni della impugnazione della normativa introdotta dagli artt. 2-bis e 4-bis del d.l. n. 91 del 2013 (oggetto dei precedenti ricorsi e nei confronti delle quali vengono ribadite le censure di incostituzionalità) e richiesta la riunione dei nuovi giudizi ai precedenti, le ricorrenti propongono (in sintesi) le seguenti questioni (anche in questo caso con motivazioni parzialmente coincidenti).
Per la Regione Veneto, l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 83 del 2014, come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2014, si pone in contrasto: a) con gli artt.117, terzo e quarto comma, Cost., in quanto tale norma si colloca in un àmbito materiale che, seppur connotato da sovrapposizione di varie materie (quali la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, il commercio ed il turismo), tuttavia ricade in modo preponderante nella materia concorrente della valorizzazione dei beni culturali, che consente al legislatore statale di dettare esclusivamente una normativa di principio; mentre il legislatore statale ha previsto una puntuale disciplina incidente, non solo nella materia concorrente della valorizzazione dei beni culturali, ma anche nelle materie residuali del commercio e del turismo; b) con l’art. 120 Cost., poiché, anche a ritenere l’impossibilità, stante il concorso e la sovrapposizione di competenze, di ascrivere la disciplina impugnata in un àmbito materiale prevalente, sarebbe violato il principio di leale collaborazione in mancanza di previsione di alcuna forma di coordinamento, neppure sotto forma di intesa in sede di conferenze intergovernative; c) con l’art. 118 Cost., in quanto la norma attribuisce una potestà amministrativa revocatoria in mancanza di una disciplina legislativa logicamente pertinente e idonea alla regolazione di dette funzioni, tanto più in quanto viene prevista la possibilità di agire in deroga alla disciplina regionale in materia di commercio e di relativa concessione dei posteggi per il suo esercizio su aree pubbliche; d) con gli artt. 3 e 97 Cost., giacché quello in questione si configura come un non regolamentato potere del tutto sui generis, che non involge una mera riconsiderazione dell’interesse pubblico, ma che consente all’autorità designata (al generico fine di tutela e valorizzazione dei beni culturali) di elidere indiscriminatamente gli effetti di un precedente provvedimento amministrativo, anche alterando il quadro normativo di riferimento; e) con l’art. 117, primo comma, Cost., in assenza di alcun criterio regolamentare che perimetri detto potere derogatorio entro limiti che garantiscano il rispetto fondamentale del canone di non discriminazione e di libertà di concorrenza imposti dalla direttiva 2006/123/CE, specificamente attuata dalla disciplina di cui all’art. 70 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno).
A sua volta, la Regione Campania deduce che il censurato art. 4, comma 1, si pone in contrasto: a) con l’art. 117, quarto comma, Cost., giacché essa presuppone la perdurante applicabilità dell’art. 28 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), in contrasto con il principio espresso dalla Corte (con la sentenza n. 247 del 2010), sulla base dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizione per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), secondo cui tale applicabilità viene meno quando le Regioni (come nella specie per la Campania, con la legge regionale 9 gennaio 2014, n. 1, recante «Nuova disciplina in materia di distribuzione commerciale») abbiano emanato una propria legislazione in materia di commercio; b) con l’art. 117, secondo, terzo e quarto comma, Cost. in quanto – nell’àmbito della materia concorrente «valorizzazione dei beni culturali» – essa (con disposizioni di dettaglio) sottrae alle Regioni, per determinate zone del loro territorio (e nelle aree contermini), la disciplina del commercio su aree pubbliche, per il generico fine di rafforzare le misure di tutela del decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti; c) con gli artt. 5, 118, terzo comma, e 120 Cost., in quanto non prevede forme di intesa e coordinamento, al fine di assicurare le peculiarità locali delle Regioni, non potendo la legge dello Stato disciplinare unilateralmente, senza ricorso al procedimento partecipativo, le materie oggetto delle intese stipulate ex art. 8, comma 6, della legge n. 131 del 2003; d) con gli artt. 117, primo, secondo e quarto comma, e 120, secondo comma, Cost., là dove la norma sottrae alle Regioni, per determinate zone del territorio, la disciplina del commercio al dettaglio su aree pubbliche, anche in relazione al comma 5 dell’art. 70 del d.lgs. n. 59 del 2010 (di attuazione della direttiva 2006/123/CE), senza che lo Stato abbia previsto intese tra le autorità competenti, con lesione del principio di leale collaborazione, che ridonda necessariamente in violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
2.2.− La sola Regione Campania impugna, infine, anche l’art. 16, commi 5 e 6, del d.l. n. 83 del 2014, come modificato, in sede di conversione, dalla legge n. 106 del 2014, che – nell’àmbito della trasformazione dell’ENIT in ente pubblico economico – regolamenta i tempi e le modalità di approvazione del nuovo statuto dell’ente e di nomina del presidente (comma 5); rinvia allo statuto per la definizione dei compiti dell’ente, l’istituzione di un consiglio federale rappresentativo delle agenzie regionali per il turismo o (in assenza) degli uffici amministrativi competenti per il turismo in àmbito regionale, la composizione del consiglio di amministrazione e la disciplina delle funzioni e delle competenze degli organismi sopra indicati e della loro durata, nonché dell’Osservatorio nazionale del turismo (comma 6).
Detti commi sono impugnati in quanto non prevedono, per l’approvazione del nuovo statuto, alcuna intesa con le Regioni e le Province autonome, le quali, dato il rinvio alla fonte statutaria dell’ente anche per la disciplina dell’Osservatorio nazionale del turismo, sono private di qualsiasi competenza al riguardo (pur vantando competenza residuale in materia di turismo), così violando gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., ed al principio di leale collaborazione di cui all’art. 5 Cost.
3.− I ricorsi vertono, in gran parte, sulle medesime disposizioni e pongono questioni analoghe, sicché ne appare opportuna la riunione (come anche richiesto dalle Regioni) ai fini di una decisione congiunta.
4.− Preliminarmente, va rilevato che entrambe le ricorrenti, nonostante la sopravvenuta modifica della normativa originariamente impugnata, hanno ritenuto il nuovo intervento legislativo, di cui all’art. 4, comma 1, del d.l. n. 83 del 2014, non solo non satisfattivo delle ragioni azionate, ma anzi peggiorativo delle stesse, a causa della ulteriore previsione, in capo ai competenti uffici ministeriali ed ai Comuni (d’intesa fra loro), di un potere di riesame e di revoca delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico ai fini dell’esercizio di attività commerciali e artigianali. Sicché le Regioni medesime nei ricorsi n. 72 e n. 73 del 2014, oltre a formulare le nuove censure sullo ius superveniens, hanno esplicitamente mantenuto e ribadito tutte quelle proposte nei ricorsi n. 101 e n. 102 del 2013.
Tali considerazioni non consentono di accogliere la richiesta di declaratoria di cessazione della materia del contendere (proposta dalla difesa dello Stato nella memoria di udienza, con riferimento peraltro al solo ricorso n. 101 del 2013 della Regione Veneto). Mancano, infatti, i due requisiti richiesti da questa Corte per pervenire a siffatta pronuncia: ciò, sia per la portata, come detto, non satisfattiva della novella rispetto al contenuto delle originarie censure mosse dalle ricorrenti, sia per il rilevante arco di tempo trascorso tra i due successivi interventi normativi (circa dieci mesi), a fronte del quale non risultano elementi da cui dedurre la non intervenuta applicazione medio tempore delle norme allora censurate (ex plurimis, sentenze n. 17, n. 8 e n. 2 del 2015).
5.− Sempre in via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità della questione proposta dalla Regione Veneto, la quale (con il ricorso n. 101 del 2013) impugna l’art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2013 (nella parte in cui erroneamente introduce un secondo comma 1-bis nell’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004), in primo luogo, per violazione del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., poiché l’errore travalicherebbe il mero vizio di tecnica legislativa, incidendo sul corretto esercizio della potestà legislativa regionale che, specialmente in contesti di potestà normativa residuale in materia di «commercio», subirebbe restrizioni così rilevanti da risultarne svuotata; e, in secondo luogo, per contrasto con l’art. 97 Cost., poiché la disposizione non offrirebbe neppure canoni e parametri omogenei che consentano alle Direzioni regionali per i beni culturali ed alle Sovrintendenze l’esercizio uniforme del potere discrezionale di cui si ritrovano ad essere tributari.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che, nei giudizi in via principale, le Regioni sono legittimate a censurare le leggi dello Stato esclusivamente in riferimento a parametri relativi al riparto delle rispettive competenze legislative; potendo esse evocare altri parametri soltanto qualora la violazione di questi comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, tale cioè da provocare la ridondanza delle asserite violazioni sul relativo riparto, e la ricorrente abbia indicato le specifiche competenze ritenute lese e le ragioni della lamentata lesione (ex plurimis: sentenze n. 79, n. 44 e n. 36 del 2014).
Nel caso di specie, la Regione lamenta la cattiva redazione della norma, deducendo (del tutto assertivamente) come dal refuso redazionale potesse derivare una incidenza negativa sul concreto esercizio della potestà legislativa regionale. A fronte di una così formulata doglianza, è evidente, viceversa, che la lesione di tali competenze non potrebbe derivare di per sé dalla mera numerazione, seppure errata, data al comma (poi correttamente rinominato comma 1-ter dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 83 del 2014), ma solo dalla portata normativa di questo. La questione, pertanto, risulta carente di una adeguata motivazione in ordine ai profili di una possibile ridondanza della lamentata violazione del corretto ordine numerico dei commi sul riparto di competenze, oltre che incompiuta quanto alla indicazione delle attribuzioni considerate lese e delle ragioni dell’asserita lesione.
5.1.− Altrettanto priva di motivazione in tal senso appare la diversa questione, proposta nel ricorso n. 72 del 2014 sempre dalla Regione Veneto, riguardante l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 83 del 2014, censurato – là dove attribuisce ai competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni, una potestà revocatoria delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico ai fini dell’esercizio di attività commerciali e artigianali – per violazione degli artt. 3 e 97 Cost., giacché quello in questione si configurerebbe come un non regolamentato potere del tutto sui generis, che non involgerebbe una mera riconsiderazione dell’interesse pubblico, consentendo all’autorità designata di elidere indiscriminatamente gli effetti di un precedente provvedimento amministrativo, alterando il quadro normativo di riferimento.
Anche in questo caso, la censura viene riferita dalla ricorrente agli artt. 3 e 97 Cost., senza alcuna argomentazione a sostegno della ridondanza dello specifico vizio paventato sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni; peraltro, la lamentata violazione degli evocati parametri sembrerebbe piuttosto riguardare, non già l’assetto delle attribuzioni regionali, bensì la latitudine e la portata della attribuita potestà amministrativa revocatoria, nonché la sua indiscriminata incidenza sulle pregresse situazioni soggettive dei destinatari dei provvedimenti.
6.− Nel merito, con riguardo alle censure rispettivamente mosse dalle due Regioni ricorrenti ai due interventi con cui, in successione, il legislatore statale ha ampliato e rimodulato la portata precettiva dell’art. 52 del codice dei beni culturali, occorre, in primo luogo, individuare l’àmbito materiale nel quale ascrivere la complessa disciplina in esame. Ciò nel rispetto del consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui l’identificazione della materia nella quale si colloca la disposizione censurata richiede di fare riferimento all’oggetto e alla disciplina stabiliti dalla medesima, tenendo conto della sua ratio, e tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato (ex plurimis, sentenze n. 167 e n. 119 del 2014).
Orbene, dal contenuto del modificato art. 52 del codice dei beni culturali, emerge con chiarezza il fine (esplicitato dal legislatore statale ed attuato mediante specifica regolamentazione dell’«esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali») di assicurare la tutela, la salvaguardia ed il decoro, da un lato, dei «locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis» (art. 52, comma 1-bis); e, dall’altro lato, «dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini», attraverso «apposite determinazioni», che i competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni, adottano «volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione» (art. 52, comma 1-ter).
Risulta, pertanto, evidente come alle specifiche esigenze di “tutela” si accompagnino contestualmente anche quelle di “valorizzazione” dei beni culturali de quibus, comprensive della attività di “promozione” del patrimonio culturale, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 42 del 2004.
6.1.− Ciò premesso, va (sotto altro profilo) riaffermato come la tutela dei beni culturali, inclusa nel secondo comma dell’art. 117 Cost., sotto la lettera s), tra quelle di competenza legislativa esclusiva dello Stato, sia materia dotata di un proprio àmbito, ma nel contempo contenente l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce quindi una materia-attività (sentenza n. 26 del 2004), in cui assume pregnante rilievo il profilo teleologico della disciplina (sentenza n. 232 del 2005).
D’altro canto, è però significativo come lo stesso art. 1 del codice dei beni culturali, nel dettare i princìpi della relativa disciplina, sancisca (al comma 2) che «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura». Ciò implica, per un verso, il riferimento a un “patrimonio” intrinsecamente comune, non suscettibile di arbitrarie o improponibili frantumazioni ma, nello stesso tempo, naturalmente esposto alla molteplicità e al mutamento e, perciò stesso, affidato, senza specificazioni, alle cure della “Repubblica”; per altro verso, una sorta di ideale contiguità, nei limiti consentiti, fra le distinte funzioni di “tutela” e di “valorizzazione” di questo “patrimonio” medesimo, ciascuna identificata nel proprio àmbito competenziale fissato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost. (sentenza n. 194 del 2013).
All’interno di questo sistema, appare indubbio che “tutela” e “valorizzazione” esprimano – per esplicito dettato costituzionale e per disposizione del codice dei beni culturali (artt. 3 e 6, secondo anche quanto riconosciuto sin dalle sentenze n. 26 e n. 9 del 2004) – aree di intervento diversificate. E che, rispetto ad esse, è necessario che restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l’esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e conservazione; mentre alle Regioni, ai fini della valorizzazione, spettino la disciplina e l’esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza, utilizzazione e fruizione di quel patrimonio (sentenza n. 194 del 2013). Tuttavia, nonostante tale diversificazione, l’ontologica e teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale dinamica della produzione legislativa, la possibilità (come nella specie) che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio culturale si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso; ciò comportando una situazione di concreto concorso della competenza esclusiva dello Stato con quella concorrente dello Stato e delle Regioni.
6.2.− Inoltre, nella specie, il legislatore statale – sempre per i menzionati fini di tutela e valorizzazione – ha fatto ricorso anche ad ulteriori previsioni riguardanti le concrete modalità di individuazione dei locali di artigianato e commercio tradizionali da parte dei Comuni, sentito il sovrintendente, ovvero l’adozione da parte dei competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni, di apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché il rilascio di concessioni di occupazione di suolo pubblico; previsioni tutte che incidono direttamente sulla regolamentazione di attività riconducibili alle materie del «commercio» ed «artigianato», appartenenti alla competenza residuale delle Regioni (sentenze n. 49 del 2014, n. 251 del 2013 e n. 203 del 2012). Rispetto alle quali (con specifico riguardo alla attività del commercio in forma itinerante) questa Corte ha sottolineato come vada ricompresa anche la possibilità per il legislatore regionale di disciplinarne nel concreto lo svolgimento, nonché quella di vietarne l’esercizio in ragione della particolare situazione di talune aree metropolitane, di modo che l’esercizio del commercio stesso avvenga entro i limiti qualificati invalicabili della tutela dei beni ambientali e culturali, allo scopo di garantire, indirettamente, attraverso norme che ne salvaguardino la ordinata fruizione, la valorizzazione dei maggiori centri storici delle città d’arte a forte vocazione turistica (sentenza n. 247 del 2010).
Contrariamente, dunque, a quanto affermato dalla difesa dello Stato, le indiscutibili ricadute della normativa censurata sulle predette materie di competenza residuale non costituiscono meri riflessi della predisposta disciplina di tutela del bene culturale. Le previsioni de quibus posseggono, infatti, un contenuto strumentale per il conseguimento degli specifici fini di tutela e di valorizzazione, predisponendo (nel dettaglio) i mezzi per il conseguimento degli stessi, attraverso limitazioni aventi ricadute dirette su attività e su rapporti, anche concessorii, altrimenti oggetto della competenza residuale delle Regioni.
6.3.– Nella specie, va dunque ravvisata una situazione di “concorrenza di competenze”, comprovata dalla constatazione che le norme censurate si prestano ad incidere contestualmente su una pluralità di materie, ponendosi all’incrocio di diverse competenze («tutela dei beni culturali», «valorizzazione dei beni culturali», «commercio», «artigianato») attribuite dalla Costituzione rispettivamente, o alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, ovvero a quella concorrente dello Stato e delle Regioni, ovvero infine a quella residuale delle Regioni, senza che (in termini “qualitativi” o “quantitativi”) sia individuabile un àmbito materiale che possa considerarsi prevalente sugli altri (sentenze n. 237 del 2009 e n. 219 del 2005).
Orbene, in tale contesto, l’impossibilità di comporre il concorso di competenze statali e regionali mediante l’applicazione del principio di prevalenza, in assenza di criteri contemplati in Costituzione e avendo riguardo alla natura unitaria delle esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, giustifica l’applicazione del principio di leale collaborazione, che deve, in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2014, n. 273 del 2013 e n. 50 del 2008).
Ciò tanto più in quanto, nel modificare il quadro costituzionale delle competenze di Stato e Regioni per la parte che qui interessa, è significativo che il legislatore costituzionale del 2001 ha tenuto conto delle caratteristiche diffuse del patrimonio storico-artistico italiano, disponendo espressamente, al novellato terzo comma dell’art. 118 Cost., che la legge statale disciplini forme di intesa e coordinamento tra Stato e Regioni proprio nella materia della tutela dei beni culturali (sentenza n. 232 del 2005). Norma, quest’ultima, di cui questa Corte ha, peraltro, auspicato un’applicazione che, attribuendo allo Stato la salvaguardia delle esigenze primarie della tutela che costituisce il fondamento di tutta la normativa sui beni culturali, non trascuri le peculiarità locali delle Regioni (sentenza n. 9 del 2004).
6.4.− Ne consegue, pertanto, che gli artt. 2-bis e 4-bis del d.l. n. 91 del 2013, introdotti dalla legge di conversione n. 112 del 2013, e l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 83 del 2014, come convertito dalla legge n. 106 del 2014 (che rispettivamente aggiungono e successivamente modificano i commi 1-bis e 1-ter dell’art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004), devono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non prevedono l’intesa a garanzia della leale collaborazione fra Stato e Regioni.
6.5.− Restano assorbiti gli ulteriori motivi di censura.
7.− La Regione Campania censura, infine, l’art. 16, commi 5 e 6, del d.l. n. 83 del 2014.
Gli impugnati commi sanciscono, rispettivamente, che «Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto si provvede all’approvazione del nuovo statuto dell’ENIT. Lo statuto, adottato in sede di prima applicazione dal Commissario di cui al comma 4, è approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. Il presidente dell’ENIT è nominato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo» (comma 5). E che «Lo statuto dell’ENIT definisce i compiti dell’ente nell’àmbito delle finalità di cui al comma 2 e prevede, tra l’altro, senza alcun nuovo o maggiore onere per la finanza pubblica, l’istituzione di un consiglio federale rappresentativo delle agenzie regionali per il turismo e, in assenza di queste ultime, degli uffici amministrativi competenti per il turismo in àmbito regionale, con funzioni progettuali e consultive nei confronti degli organi direttivi di cui al comma 3. I componenti del predetto consiglio non hanno diritto ad alcun compenso, emolumento, indennità o rimborso di spese. Lo statuto stabilisce, altresì, che il consiglio di amministrazione sia composto, oltre che dal presidente dell’ENIT, da due membri nominati dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, di cui uno su designazione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, e l’altro sentite le organizzazioni di categoria maggiormente rappresentative, nel rispetto della disciplina in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni di cui al decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39. Lo statuto provvede alla disciplina delle funzioni e delle competenze degli organismi sopra indicati e della loro durata, nonché dell’Osservatorio nazionale del turismo. L’ENIT può avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’articolo 43 del testo unico approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e successive modificazioni».
La Regione ricorrente deduce che detti commi si pongono in contrasto con gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., e con il principio di leale collaborazione di cui all’art. 5 Cost., poiché non prevedono, per l’approvazione del nuovo statuto, alcuna intesa con le Regioni e le Province autonome, le quali, dato il rinvio alla fonte statutaria dell’ente anche per la disciplina dell’Osservatorio nazionale del turismo, sono private di qualsiasi competenza al riguardo, pur vantando competenza residuale in materia di turismo.
7.1.− La questione non è fondata.
Il comma 1 del medesimo art. 16 dispone che «Al fine di assicurare risparmi della spesa pubblica, di migliorare la promozione dell’immagine unitaria dell’offerta turistica nazionale e favorirne la commercializzazione, anche in occasione della Presidenza italiana del semestre europeo e di EXPO 2015, l’ENIT − Agenzia nazionale del turismo è trasformata in ente pubblico economico, sottoposto alla vigilanza del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo».
La normativa in esame interviene nuovamente sull’assetto dell’Ente nazionale per il turismo (ENIT), cui era già stata attribuita personalità giuridica di diritto pubblico ed autonomia statutaria e regolamentare, dall’art. 1 della legge 11 ottobre 1990, n. 292 (Ordinamento dell’Ente nazionale italiano per il turismo) e che, successivamente, era stato trasformato in Agenzia nazionale del turismo dall’art. 12, comma 2, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano d’azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, che, al comma 3, dotava l’Agenzia di personalità giuridica di diritto pubblico, e di autonomia statutaria, regolamentare, organizzativa, patrimoniale, contabile e di gestione.
7.2.− Orbene, rispetto alla denunciata violazione della competenza residuale delle Regioni in materia di «turismo», va innanzitutto ribadito che l’intervento del legislatore statale appare giustificato in virtù del rilievo del turismo nell’àmbito dell’economia italiana e dell’estrema varietà dell’offerta turistica italiana, la cui valorizzazione presuppone un’attività promozionale unitaria, perché essa scaturisce solamente dalla combinazione delle offerte turistiche delle varie Regioni (sentenze n. 88 del 2007 e n. 214 del 2006).
Inoltre, la preminenza della portata prettamente ordinamentale e organizzativa della modifica della personalità e struttura dell’Ente (espressamente finalizzata, oltre che a «migliorare la promozione dell’immagine unitaria dell’offerta turistica nazionale e favorirne la commercializzazione, anche in occasione della Presidenza italiana del semestre europeo e di EXPO 2015», anche ad «assicurare risparmi della spesa pubblica») porta a ritenere che alla natura pubblica di esso se ne accompagni il carattere nazionale (sentenza n. 153 del 2011).
Pertanto, rispetto alla non contestata esigenza promozionale unitaria del turismo, interventi di riassetto ed organizzativi del tipo di quello prefigurato – incidendo profondamente in un settore dominato da soggetti che realizzano finalità dello Stato – devono essere ascritti alla materia «ordinamento e organizzazione amministrativa […] degli enti pubblici nazionali», di competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera g), Cost.
7.3.− Ne consegue, pertanto, l’infondatezza di tutte le censure mosse dalla ricorrente.
Ciò non senza, peraltro, sottolineare che la normativa in esame prevede espressamente forme di partecipazione, quali le convenzioni che l’Ente potrà stipulare con le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano, gli enti locali e altri enti pubblici (art. 16, comma 3); l’istituzione di un consiglio federale rappresentativo delle agenzie regionali per il turismo e, in assenza di queste ultime, degli uffici amministrativi competenti per il turismo in àmbito regionale (art. 16, comma 6); la previsione che uno dei due membri del consiglio di amministrazione sia nominato su designazione della Conferenza permanente Stato-Regioni (art. 16, comma 6); la definizione, sentita la Conferenza medesima, degli obiettivi, finanziamenti, strategie e modalità di verifica dei risultati di gestione (art. 16, comma 7).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali), introdotto dall’art. 1, comma 1, della legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112, proposta – in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione – dalla Regione Veneto, con il ricorso notificato il 9 dicembre 2013 e depositato il successivo 17 dicembre (iscritto nel registro ricorsi del 2013 al n. 101);
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83 (Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 luglio 2014, n. 106, proposta – in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. – dalla Regione Veneto, con il ricorso notificato il 29 settembre 2014 e depositato il successivo 7 ottobre (iscritto nel registro ricorsi del 2014 al n. 72);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 2-bis e 4-bis del citato decreto-legge n. 91 del 2013, introdotti dalla legge di conversione n. 112 del 2013, nella parte in cui non prevedono l’intesa fra Stato e Regioni;
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, del citato decreto-legge n. 83 del 2014, come convertito dalla legge n. 106 del 2014, nella parte in cui non prevede alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni;
5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 5 e 6, del citato decreto-legge n. 83 del 2014, come convertito dalla legge n. 106 del 2014, proposta – in riferimento agli artt. 5, 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost. – dalla Regione Campania, con il ricorso notificato il 29 settembre 2014 e depositato il successivo 9 ottobre (iscritto nel registro ricorsi del 2014 al n. 73).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2015.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 luglio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI