Cass. Sez. III n. 34087 del 15 settembre 2021 (UP 19 mag 2021)
Pres. Liberati Est. Bernazzani Ric. D'Amore
Caccia e animali.Maltrattamento e requisito della crudeltà o della assenza di necessità
Nel reato di maltrattamento di animali, il requisito della crudeltà o della assenza di necessità non è richiesto qualora la condotta determini una conseguenza diversa dalle lesioni, quale la sottoposizione dell'animale a comportamenti, a fatiche o a lavori insopportabili per le sue attitudini etologiche
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 29.9.2020, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la condanna inflitta dal locale Tribunale nei confronti di D’Amore Gianluca in ordine al reato di cui all’art. 544-ter cod. pen. allo stesso ascritto al capo a) ed ha dichiarato n.d.p. per intervenuta prescrizione in ordine al reato di cui all’art. 727 cod. pen. contestato sub b), rideterminando per l’effetto la pena di cui alla residua imputazione in euro 5.000,00 di multa, con il beneficio della non menzione della condanna.
La Corte territoriale ha ritenuto, in particolare, dimostrata la condotta contestata all’imputato, consistente nell’aver sottoposto, per crudeltà e, comunque, senza necessità, un cane di razza Bull terrier femmina a comportamenti non compatibili con le caratteristiche etologiche dell’animale, derivanti dall’aver custodito l’animale, per tempi prolungati, in un ambiente angusto, impedendo al medesimo di potersi muovere o correre liberamente, in quanto legato ad una catena di soli cm. 120 (condotta protrattasi a tal punto da cagionare, altresì, lesioni consistite in piaghe infette agli arti posteriori, verosimilmente causate dal decubito dell’animale sulla pavimentazione, nonché dermatiti di varia natura); nell’aver somministrato allo stesso un’alimentazione insufficiente, così cagionandogli uno stato di grave denutrizione; nell’averlo preso a bastonate; nell’aver fornito insufficienti cure alle ferite lacero contuse riscontrate sul muso, nella regione frontale ed ai padiglioni auricolari dell’animale, altresì lasciato per più ore sotto il sole e privo di acqua.
2. Avverso tale decisione l’imputato ha proposto ricorso tramite il difensore avv. Alberto Bordone, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 544-ter e 40, cpv. cod. pen.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto sussistente la responsabilità dell’imputato in ordine al reato sub a) richiamando il disposto dell’art. 40, cpv. cod. pen. e ritenendo erroneamente sussistente in capo all’imputato una posizione di garanzia, in particolare di una relazione di dipendenza a contenuto protettivo rispetto all’animale asseritamente maltrattato; posizione, in realtà, da escludersi in quanto il D’Amore non era il proprietario del cane bull terrier, come comprovato dalla deposizione della teste Annabella Di Vita, la quale aveva precisato nel dibattimento di primo grado che il cane era stato acquistato dalla compagna dell’imputato, aggiungendo che la stessa «non si occupava mai» dell’animale. Dunque, non poteva ravvisarsi in capo al D’Amore alcun obbligo giuridico di impedire le lesioni subite dall’animale, con particolare riferimento alla mancata offerta al cane di una sistemazione idonea al riposo ed alla mancata cura delle ferite, né il dovere di garantire il benessere psicofisico dell’animale.
2.2. Il secondo motivo di ricorso veicola, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., censure di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 544-ter, 40, comma 1, e 41 cod. pen., attesa l’insussistenza di un nesso causale fra la condotta umana e le lesioni riscontrate sul muso dell’animale di cui al capo a) dell’imputazione.
Tale doglianza fa leva sul rilievo che le ferite lacero contuse sul muso del cane, nella regione frontale ed ai padiglioni auricolari, le cui estremità distali erano infette da punture di mosca, dovevano trovare la propria origine causale nella zuffa con altro cane, di proprietà del D’Amore, verificatasi pochi minuti prima dell’intervento della guardia zoofila Toninelli, come dichiarato dalla teste Di Vita. Non rilevava, a tale proposito, quanto argomentato dalla Corte, secondo cui molte delle lesioni erano di vecchia data, come accertato anche dai veterinari che avevano visitato l’animale, atteso che le ferite suscettibili di essere curate erano quelle provocate pochi minuti prima dell’intervento dall’altro cane, mentre non poteva configurarsi l’addebito di aver prestato «insufficienti cure» alle vecchie ferite, rispetto alle quali non era emersa una imperfetta cicatrizzazione ascrivibile ad una condotta dell’imputato.
2.3. Con il terzo motivo, si deduce, sempre ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 544-ter cod. pen., per insussistenza dell’elemento psicologico in ordine alla condotta consistente nell’uso di un bastone verso l’animale. Si deduce che, in occasione delle zuffe con il cane di proprietà dell’imputato, causate dalla particolare aggressività della razza bull terrier, il D’Amore interveniva esclusivamente per dividere i due animali onde evitare che si potessero provocare lesioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è, nel suo complesso, inammissibile in quanto manifestamente infondato.
1.1. Venendo ad esaminare il primo motivo, va premesso che il delitto in esame, introdotto dalla L. 20 luglio 2004, n. 189, art. 1, comma 1, prevede testualmente la condotta di chi «per crudeltà o senza necessità cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche».
Si tratta di una fattispecie avente natura di reato comune, che può essere, pertanto, integrata da chiunque, non solo e non necessariamente dal proprietario, e che tipizza condotte a forma libera.
La nozione di lesione, in particolare, sebbene non risulti perfettamente sovrapponibile a quella prevista dall'art. 582 cod. pen., implica comunque la sussistenza di un'apprezzabile diminuzione della originaria integrità dell'animale che, pur non risolvendosi in un vero e proprio processo patologico e non determinando una menomazione funzionale, sia comunque diretta conseguenza di una condotta volontaria commissiva od omissiva (Sez. 3, n. 32837 del 27/06/2013, Prota, Rv. 255910).
Accanto ad una condotta tipizzata in ragione della sua incidenza eziologica rispetto alla produzione di lesioni, la disposizione contempla un’altra forma di condotta, parimenti rilevante sul piano penale, atta a compromettere il benessere dell'animale in relazione alle caratteristiche etologiche, attraverso comportamenti incompatibili con le sue esigenze naturali, che vanno inscindibilmente salvaguardate. Questa Corte ha già avuto modo di osservare che «la nozione di comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche non assume un significato assoluto (come raggiungimento di un limite oltre il quale l'animale sarebbe annullato), ma un significato relativo inteso quale contrasto con il comportamento proprio della specie di riferimento come ricostruita dalla scienza naturale. Ed, in questo senso, la collocazione degli animali in ambienti inadatti alla loro naturale esistenza, inadeguati dal punto di vista delle dimensioni, della salubrità, delle condizioni tecniche vale certamente ad integrare la fattispecie nei termini richiesti dal legislatore» (Sez. 3, n. 39159 del 27/03/2014, Muccini, Rv. 260295-01).
1.2. Fissata tale dimensione ermeneutica, va osservato che le doglianze del ricorrente non si confrontano con l’accertamento contenuto nell’unitario tessuto motivazionale risultante dalle due concordi decisioni di merito, secondo il paradigma della c.d. doppia conforme; né, a ben vedere, neppure con il contenuto dello stesso capo di imputazione, che la decisione impugnata, al pari di quella di prime cure, ha ritenuto pienamente dimostrato.
Invero, premesso che, nella specie, risulta pacificamente che l’animale si trovava nella sfera di disponibilità dell’imputato, risultano contestate ed accertate condotte sicuramente attive e che, pertanto, non postulano il riferimento all’esistenza di un obbligo giuridico di impedimento dell’evento che sostanzia i reati omissivi impropri; obbligo che il ricorrente sostiene non essergli attribuibile in quanto non proprietario dell’animale de quo, acquistato dalla propria compagna.
In tal senso rileva certamente la contestazione, come detto pienamente accertata dalla Corte territoriale con motivazione congrua, non manifestamente illogica ed immune dai vizi giuridici prospettati, di aver collocato e custodito il cane bull terrier, per tempi prolungati, in un ambiente tale da non consentire all’animale di potersi muovere liberamente e, quindi, inadatto alla sua naturale esistenza, in quanto rinchiuso all’interno di uno spazio di dimensioni estremamente anguste, delimitato da una rete, e legato ad una catena di soli cm. 120, tanto da cagionare lesioni consistite in piaghe infette agli arti posteriori, verosimilmente causate da decubito sulla pavimentazione nonché dermatiti di varia natura; spazio, altresì, inevitabilmente (attesa l’impossibilità per l’animale di potersi allontanare) divenuto pieno di escrementi, che finivano per mischiarsi con il cibo, così non consentendo all’animale di potersi alimentare. Parimenti, rilevano comportamenti quali l’aver comunque somministrato allo stesso un’alimentazione insufficiente, così cagionandogli uno stato di grave denutrizione, nonché l’avergli inflitto ripetuti colpi utilizzando un bastone e l’averlo collocato in una posizione tale da costringere l’animale ad essere esposto per più ore sotto al sole, oltre che lasciato alla mercé di un pastore tedesco, pacificamente di proprietà dello stesso ricorrente, che, libero di muoversi, attaccava frequentemente il bull terrier femmina: condotte che avevano determinato la produzione di plurime lesioni, particolarmente al muso ed alle zampe del bull terrier, alcune ancora sanguinanti all’atto dell’intervento degli operanti ed altre in fase di cicatrizzazione, così contribuendo ulteriormente a determinare condizioni di vita del tutto incompatibili con il benessere e con le esigenze naturali dell’animale.
Si tratta di condotte, come osservato, che l’unitario compendio motivazionale formato dalle conformi sentenze di merito, con accertamento adeguatamente motivato, privo di contraddizioni e di manifeste illogicità, ha ritenuto non soltanto ampiamente comprovate, ma, altresì, direttamente ascrivibili all’imputato quale soggetto nella cui diretta disponibilità si trovava l’animale, il quale, d’altro canto - merita di essere rimarcato -, risultava dotato di microchip che ne rivelava l’origine est europea, ma, come emerso all’esito delle verifiche condotte dall’Asl, non risultava iscritto in alcuna anagrafe, né regionale né nazionale, ed era sprovvisto di alcun certificato di proprietà.
1.3. In tale prospettiva, va particolarmente evidenziato come la decisione di prime cure, oggetto di puntuale conferma da parte della Corte territoriale, abbia valorizzato in maniera affatto illogica il fatto che il predetto animale, all’atto dell’intervento delle guardie ecozoofile, si trovasse legato nelle descritte condizioni all’interno del giardino di proprietà del ricorrente: collocazione per nulla occasionale, come emerso dalle dichiarazioni della teste Annabella Di Vita, vicina di casa dell’imputato, la quale altresì riferiva che era stato proprio il D’Amore a tenere vincolato l’animale nelle condizioni in cui era stato trovato, assicurando personalmente la catena, di lunghezza particolarmente contenuta, alla quale il cane era legato ad una ringhiera, in modo tale da non lasciare all’animale adeguata libertà di movimento ed a determinare le precarie condizioni di vita parimenti descritte dalla teste, che aveva più volte notato l’assenza di acqua e cibo per l’animale; circostanza, quest’ultima, che era stata motivo di discussione con il D’Amore.
In tale prospettiva, premesso che un dovere giuridico di attivarsi può derivare anche da una situazione di fatto venutasi a determinare per precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento, va detto che anche il profilo omissivo della condotta consistente nel non aver fornito sufficienti cure alle ferite lacero contuse riscontrate sul muso, nella regione frontale ed ai padiglioni auricolari dell’animale risulta, in concreto, assorbito dal rilievo che, “a monte”, la stessa causazione del compendio lesivo risulta riconducibile alla condotta cosciente e volontaria del ricorrente, atteso che, come univocamente e non illogicamente ricostruito dai giudici di merito, almeno parte delle ferite riportate dal bull terrier al muso ed alle zampe (oggetto di rilievi fotografici e di accertamenti veterinari) derivavano dai violenti colpi direttamente inferti dal D’Amore avvalendosi di un bastone, certamente non scriminati dall’asserito intento di separare i due animali, ben potendo adottarsi altre e non lesive forme di cautela, e che anche le lesioni cagionate dalle frequenti zuffe avvenute fra il bull terrier e ed il pastore tedesco derivavano pur sempre dal volontario malgoverno di quest’ultimo animale da parte del ricorrente, che era solito lasciarlo libero nella stessa zona in cui si trovava il bull terrier, pur essendo ben consapevole delle ripetute aggressioni che ne scaturivano e delle conseguenti ferite riportate dall’animale vincolato.
2. Le considerazioni che precedono danno, altresì, ragione dell’inammissibilità del secondo motivo di ricorso, attesa la sussistenza di un nesso causale fra la condotta del ricorrente ed il complesso lesivo riscontrato sull’animale di cui al capo a) dell’imputazione, alla luce della riconducibilità alla condotta del D’Amore sia delle ferite direttamente cagionate mediante l’impiego di un bastone, come detto non scriminate dall’intento di dividere i due animali, attesa la possibilità di prevenire aggressioni mediante altre e non lesive cautele, sia di quelle materialmente provocate dal pastore tedesco che il D’Amore lasciava deliberatamente libero di avvicinarsi al bull terrier, pur nella piena consapevolezza delle conseguenze che ne sarebbero scaturite ai danni di quest’ultimo, privato di possibilità di allontanarsi o difendersi, sempre a cagione della condotta cosciente e volontaria dell’odierno ricorrente.
3. Il terzo motivo di ricorso risulta, non diversamente da quelli esaminati, inammissibile.
Premesso che il motivo è esclusivamente riferito allo specifico segmento di condotta contestato consistente nel «prendere a bastonate» il cane bull terrier, va premesso che l’elemento soggettivo della fattispecie contemplata dall'art. 544-ter cod. pen. si configura quale dolo specifico quando la condotta è tenuta «per crudeltà», ovvero quale dolo generico quando la condotta è tenuta «senza necessità» (vedi in tal senso Sez. 3, n. 44822 del 24/10/2007, Borgia, Rv. 238455-01: «In materia di delitti contro il sentimento per gli animali, la fattispecie di maltrattamento di animali (art. 544-ter cod. pen.) configura un reato a dolo specifico nel caso in cui la condotta lesiva dell'integrità e della vita dell'animale è tenuta per crudeltà, mentre configura un reato a dolo generico quando la condotta è tenuta senza necessità»).
Orbene, nel caso di specie la condotta, riguardata sotto lo specifico profilo considerato, è stata consapevolmente e volontariamente tenuta, quantomeno senza alcuna necessità, ossia con dolo generico, come adeguatamente motivato, in assenza di contraddizioni e di manifeste illogicità dalla sentenza impugnata e dalla decisione di primo grado, con accertamenti in fatto insindacabili in sede di legittimità. Né, come già affermato, risulta configurabile alcuna situazione di necessità o di tipo scriminante, tale non potendo in alcun modo ritenersi tale l’esigenza di dividere i due animali mediante l’inflizione di violenti colpi di bastone, attesa, da un lato, la piena consapevolezza delle aggressioni provocate dal pastore tedesco che il D’Amore lasciava deliberatamente libero di avvicinarsi al bull terrier, privato di possibilità di allontanarsi o difendersi, e, dall’altro, l’agevole possibilità per il D’Amore di prevenire aggressioni o zuffe fra i due animali mediante altre e non lesive cautele.
Per completezza, infine, va annotato che, come già affermato da questa Sezione, «nel reato di maltrattamento di animali, il requisito della crudeltà o della assenza di necessità non è richiesto qualora la condotta determini una conseguenza diversa dalle lesioni, quale la sottoposizione dell'animale a comportamenti, a fatiche o a lavori insopportabili per le sue attitudini etologiche». (Sez. 3, n. 32837 del 27/06/2013, Rv. 255911-01), onde anche sotto tale profilo della complessiva condotta le conclusioni della Corte territoriale, avuto riguardo alle condizioni ambientali in cui l’animale era costretto a vivere, incompatibili con la sua tendenziale situazione di benessere, risultano logiche ed immuni da vizi.
4. Conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, onde, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente va condannata al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro tremila, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186 e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 19/05/2021