Cass. Sez. III n. 23492 del 3 agosto 2020 (CC 1 lug 2020)
Pres. Aceto Andronio Ric. Meccariello
Caccia e animali. Contravvenzione punita dall’art. 30, comma 1, lettera h), legge 157\1992
Con l’art. 30, comma 1, lettera h), della legge n. 157 del 1992 il legislatore si propone di punire i sistemi di cattura con potenzialità offensiva indeterminata, tali anche da comportare il pericolo di un depauperamento della fauna indipendentemente dall’abbattimento o meno degli animali, con anticipazione della soglia di punibilità, costituendo la relativa fattispecie un reato di pericolo (nella fattispecie, il Tribunale ha costatato che le gabbie presenti su un fondo erano munite di un meccanismo di chiusura a scatto e di un uncino per l’adescamento, e ha altresì riscontrato in una di esse pezzetti di anguria evidentemente impiegati come esche per attrarre gli animali).
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 5 novembre 2019, il Tribunale di Benevento ha rigettato la richiesta di riesame proposta dal difensore dell’indagato avverso il decreto con il quale il Gip dello stesso Tribunale aveva convalidato il sequestro preventivo di un’area recintata di circa mq 5000 e due gabbie vietate per la cattura di ungulati, in relazione ai reati di cui agli artt. 6, commi 1 e 4, della legge n. 150 del 1992, e 30, comma 1, lettera h), della legge n. 157 del 1992.
2. Avverso l’ordinanza l’indagato, tramite difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con una prima doglianza, si lamentano la violazione degli artt. 321, comma 1, e 125, comma 3, cod. proc. pen., nonché carenza di motivazione del provvedimento impugnato e travisamento della prova, sul rilievo che il Tribunale avrebbe omesso di valutare le argomentazioni difensive volte a dimostrare l’insussistenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora in ordine al reato contestato. In particolare, la difesa rileva che cinghiali selvatici si erano introdotti nella recinzione di proprietà del ricorrente, normalmente destinata a luogo di allevamento di vitellini, attraverso un foro dagli stessi creato, attratti dal bestiame ivi allevato. La presenza del foro, peraltro, troverebbe riscontro, oltre che nel verbale di sequestro, nelle dichiarazioni dei soggetti ascoltati in sede di investigazioni difensive, allegate dalla difesa. Si deduce, inoltre, la mancanza di motivazione rispetto alla deduzione difensiva concernente la carenza sopravvenuta del periculum, determinata dalla “rimozione del corpo del reato” ossia dal sequestro del branco di cinghiali.
2.2. Con un secondo motivo di doglianza, si deduce la violazione degli artt. 309, comma 9, e 324, comma 7, cod. proc. pen., in quanto, a parere della difesa, il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sulle censure dedotte in sede di riesame, con le quali il ricorrente lamentava l’omessa esposizione e autonoma valutazione, nel decreto dispositivo del sequestro, dei presupposti fondanti il titolo ablativo; vizio che avrebbe dovuto condurre alla declaratoria di nullità del provvedimento.
2.3. Con una terza doglianza, si lamenta la violazione degli artt. 30, comma 1, lettera h), della legge n. 157 del 1992 e 125, comma 3, cod. proc. pen., in quanto mancherebbero, rispetto al reato di detenzione di mezzi di caccia non consentiti, i presupposti cui l’art. 321 cod. proc. pen. subordina l’applicazione del sequestro preventivo. Nello specifico, dal momento che il ricorrente aveva giustificato la presenza delle gabbie nel terreno assumendo che venivano di consueto utilizzate per il trasporto dei vitellini dal pascolo al recinto, la prospettazione difensiva deduce l’impossibilità di ricondurre la condotta contestata all’indagato nell’alveo della fattispecie in questione, in quanto la norma punisce l’attività di caccia con mezzi vietati e non anche la detenzione degli strumenti o il loro utilizzo per diversi fini. Del resto, l’insussistenza del fumus del reato troverebbe conferma nell’imputazione notificata al difensore il 27 novembre 2019, ove era oggetto di contestazione il solo reato di detenzione di mammiferi selvatici e non anche quello di detenzione di mezzi di caccia non consentiti.
2.4. La difesa ha depositato memoria, con la quale ribadisce quanto già sostenuto nel ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile, in quanto le censure proposte esulano dai limiti fissati dall’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., per il ricorso in cassazione avverso misure cautelari reali, perché finalizzate a dolersi dell’illogicità̀ o della contraddittorietà̀ dell’ordinanza impugnata. In tema di misure cautelari reali, infatti, è ammesso il ricorso solo per violazione di legge, ovvero quando si tratti di errores in procedendo o in iudicando, oppure per radicale mancanza di motivazione (ex plurimis, Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017; Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013; Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009).
3.1. Tali considerazioni si attagliano al primo motivo di doglianza, con il quale pur richiamando la violazione di talune norme di legge, ci si duole in realtà di vizi di motivazione del provvedimento impugnato, con il chiaro fine di sollecitare una rivalutazione nel merito della questione; rivalutazione preclusa in sede di legittimità. La motivazione del provvedimento impugnato risulta, in ogni caso, pienamente sufficiente e logicamente coerente, laddove prende le mosse dall’art. 6, comma 1, della legge n. 150 del 1992, il quale dispone il divieto per chiunque di detenere esemplari vivi di mammiferi e rettili di specie selvatica o provenienti da riproduzioni in cattività che costituiscano pericolo per la salute e per l’incolumità pubblica, a prescindere da ogni valutazione sulla loro concreta nocività e sulle specifiche modalità della loro custodia, a meno che non si sia in possesso di una autorizzazione all’allevamento di fauna selvatica a scopo alimentare, di ripopolamento, ornamentale ed amatoriale rilasciata dalla regione ai sensi dell’art. 17 legge 11 febbraio 1992 n. 157 (Sez. 3, n. 16674 del 20/02/2003, Rv. 224071; Sez. 3, n. 26127 del 19/05/2005, Rv. 231999). Pertanto, sul presupposto che i cinghiali rientrano senz’altro nel generale divieto di detenzione di mammiferi e che gli agenti della Stazione forestale, sopraggiunti nei fondi concessi in affitto a Meccariello Antonio, costatavano la presenza di 16 di tali esemplari rinchiusi in un’area recintata e serrata da un lucchetto e l’assenza di qualunque autorizzazione o documentazione idonea a tracciarne la provenienza, il Tribunale ha correttamente rilevato la sussistenza del fumus in ordine al reato di detenzione di animali vivi costituenti pericolo per la salute pubblica, ritenendo del tutto inverosimili e prive di qualunque riscontro fattuale le argomentazioni difensive concernenti la presenza solo temporanea dei cinghiali sul fondo, basate sull’esistenza di un foro nella recinzione, in relazione al quale la stessa difesa richiama, del tutto genericamente, le risultanze delle indagini difensive.
3.2. Il secondo motivo, con il quale si deduce l’omessa motivazione nel decreto dispositivo di sequestro sulle esigenze cautelari e sui gravi indizi di colpevolezza, è del pari inammissibile in quanto formulato in termini assolutamente generici. Il ricorrente per cassazione che denunci la nullità del provvedimento cautelare per omessa autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza ha l’onere di indicare gli aspetti della motivazione in relazione ai quali detta omissione abbia impedito apprezzamenti di segno contrario di tale rilevanza da condurre a conclusioni diverse da quelle adottate (ex multis, Sez. 1, n. 333 del 28/11/2018, Rv. 274760). Tale adempimento non è stato assolto nel caso di specie, ove il ricorrente si limita a citare nel ricorso una cospicua giurisprudenza concernente l’obbligo di motivazione del giudice nel provvedimento dispositivo di sequestro, senza prospettare alcuna conclusione, diversa da quella adottata dal Tribunale del riesame, cui si sarebbe potuti giungere mediante l’assolvimento dell’onere di autonoma valutazione.
3.3. Il terzo motivo, con il quale si lamenta la violazione degli artt. 30, comma 1, lettera h), della legge n. 157 del 1992 e 125, comma 3, cod. proc. pen., è del pari inammissibile, esulando anch’esso dai limiti fissati dall’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. In ogni caso può rilevarsi che, con la norma incriminatrice in esame, il legislatore si propone di punire i sistemi di cattura con potenzialità offensiva indeterminata, tali anche da comportare il pericolo di un depauperamento della fauna indipendentemente dall’abbattimento o meno degli animali, con anticipazione della soglia di punibilità, costituendo la relativa fattispecie un reato di pericolo (Sez. 3, n. 3090 del 12/01/1996, Rv. 205043; Sez. 3, n. 7861 del 12/01/2016, Rv. 266278). Nella specie, il Tribunale ha costatato che le gabbie presenti sul fondo erano munite di un meccanismo di chiusura a scatto e di un uncino per l’adescamento, e ha altresì riscontrato in una di esse pezzetti di anguria evidentemente impiegati come esche per attrarre gli animali; di talché, ha correttamente ritenuto inverosimile la deduzione difensiva concernete l’impiego delle gabbie per il trasporto dei vitellini al pascolo.
4. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 01/07/2020.