La circolazione delle opere d’arte: l’evoluzione normativa nei beni culturali ecclesiastici

di Sebastiano CARPINATO

Sommario

  1. La circolazione delle opere d’arte.

    1. Il mercato dell’arte.

L’esigenza atavica che l’uomo riserva al bisogno di rappresentare ciò che il vissuto, l’azione, il sentimento gli detta, trae le sue origini sin dalla preistoria.

Le impressioni grafiche che ci vengono tramandate dal paleolitico altro non sono che il prodotto primordiale delle manifestazioni artistiche che l’essere-umano, distinguendosi dall’essere-animale, ha necessità di trasferire sugli unici supporti che lo sviluppo dell’epoca gli permetteva di utilizzare.

Grotte anguste, ma decorate.

Una potente capacità fantastica di creare e immaginare riproduzioni con significati magici e propiziatori, volta a stabilire un contatto con l’ultraterreno. Presto tali esigenze verranno trasferite alla figura sacerdotale, lasciando all’arte un valore in maggior misura, o puramente, artistico, separandola dal mondo religioso.

Essa capacità, per altro, è stata una delle cause di superiorità dell’uomo di Cro-Magnon su altre specie umane dell’epoca, come i Neanderthal.

Comincia da qui il lungo viaggio dell’individuo umano che si circonderà, costantemente e sotto le più svariate forme, dell’arte.

Essa sarà il prodotto netto del sentimento pro tempore, tradotto dai sensori dell’epoca: pittori, scultori, ma anche musicisti, poeti, più o meno grandi artisti, ma tutti in grado di fotografare quel tempo.

La ricerca del bello, pur anche soggettivo, appassionerà gli artisti tutti, dai più grandi nomi agli anonimi, miriadi di collezionisti e di committenti, più o meno facoltosi.

Proprio con la mercificazione dell’arte, non più confinata nelle primitive mura domestiche, si assumerà la consapevolezza del bello = valore. Le singole abilità tecniche saranno oggetto di ricerca dei cultori della bellezza artistica e le botteghe di produzione centro motore del settore.

L’età ellenistica, nell'antica Roma, rappresenta già adeguatamente l’idea di emptio venditio con l’impegno di ingenti cifre, per acquistare le pitture e le sculture dei maestri greci del periodo classico.

Più avanti, nell’ “età di mezzo”, l’attenzione si concentrerà nella ricerca di manoscritti latini e greci, copiati nelle corti e nei monasteri.

L’Umanesimo rivendicherà a gran forza lo studio dell’antico e delle antichità, fino alle porte del ‘700, ove a Roma si realizzano i grandi scavi per ricercare opere del passato, che spesso verranno esportate. Fino alla composizione di una società borghese, l'antiquariato resterà, per forza maggiore, di appannaggio delle grandi e ricche famiglie, e soltanto la fine del Settecento vedrà la nascita della figura dell'antiquario, nella pseudo-concezione moderna.

L’Italia, da più parti definita un “museo a cielo aperto”, conserva le rappresentazioni storiche ed artistiche più significative del pianeta; tralasciando le opere immobili, per la cui tutela è necessaria una disquisizione giuridicamente parallela, ma fondamentalmente differente nella pratica, affrontiamo il nocciolo da cui dirama il tema cardine dell’odierna trattazione.

Dal XIX secolo in poi, il nostro idioma adotta, importandolo verosimilmente dagli anglosassoni, il termine antiquariato, recependo la parolaantiquarian che gli inglesi usavano nel senso dibookseller, venditore d’oggetto d’arte e di libri antichi 1 .

Ciò che nell’immaginario collettivo rievoca l’antiquariato è certamente il mercante di opere d’arte nella vastità dei suoi aspetti e metodi: dalla vendita di opere che un antiquario effettua privatamente, al commercio che si svolge in un negozio, ove si espongono al pubblico degli amatori acquirenti i beni d’arte. Il mercato dell’antiquariato, dal XVII secolo in poi, e soprattutto nel XIX e XX secolo, rispecchia lo stato della borghesia europea e lo sviluppo della rivoluzione industriale. In Europa, così come in Italia, si assisterà allora ad un più complesso fenomeno del collezionismo, che non è soltanto quello aulico e aristocratico. Saranno i nobili, che, per ragioni economiche e influenze politiche, cominceranno a vendere le prestigiose collezioni ai musei, ai ricchi privati, o ai grandi antiquari.

Nello sviluppo di tale peculiare commercio, si innesteranno due interessanti fenomeni: le falsificazioni e le stime. Il secondo fenomeno quale intrinseco e indispensabile meccanismo che alimenta il mercato stesso, il primo quale sistema illegale di decuplicazione della qualità originaria e richiesta delle opere più in voga.

L’attività specialistica, nell’Europa del ‘700, vede l’imposizione di due fra le più notorie case d’asta che tutt’oggi prevalgono con grande successo: la casa Christie’s e la Sotheby’s, fucina e paradigma della circolazione nei circuiti nazionali ed internazioni delle opere d’arte.

    1. La disciplina giuridica dall’Italia post-unitaria ad oggi.

La sintesi cui siamo vincolati nel presente elaborato non permette di affrontare tutte le figure contrattuali tipizzate dall’ordinamento che consentono la successione, inter vivos o mortis causa, nel possesso di un bene. Nell’affrontare la circolazione delle opere d’arte, partiremo in particolare dallo scambio commerciale, casistica che più facilmente ci permette di rilevare un bene a sfondo ecclesiastico, prendendo poi in esame le eventuali nullità emergenti e derivanti da altre figure dell’ordinamento che ne hanno permesso la fuoriuscita dalla sfera patrimoniale dell’ente proprietario, individuabili con maggior difficoltà dalle azioni di contrasto.

L’Italia post-unitaria ha normato la circolazione di beni e merci, tipizzandone l’antica figura contrattuale della “vendita”, con il R.D. 25 giugno 1865, n. 2350 – Codice Civile del Regno d’Italia e, per quanto compatibile ai singoli scambi, con il R.D. 31 ottobre 1882, n.1062 – Codice del Commercio, promulgato a seguito della constatata insufficienza del primo impianto del 1866.

La fonte a cui si ispirava il primo era il Code Napoleon, già esteso nel 1808 al Regno d’Italia ed agli altri territori italiani su cui era affermato il dominio napoleonico. Entrambi questi codici mostrano evidente il segno del diritto romano; l’autonomia privata e l’impostazione individualistica si pone al centro dell’ordinamento.

Il parallelismo normativo altro non era che il riflesso di una ripartizione sociale ben delineata della borghesia: il Codice civile rappresentava gli interessi della borghesia fondiaria e della nobiltà terriera; il Codice del Commercio era il codice della più dinamica borghesia commerciale ed industriale.

Se nel primo impianto la fattispecie privatistica trova lettura nei singoli dettati, il Codice del Commercio entrava in gioco e disciplinava non solo un gran numero di atti, definiti appunto di commercio dall’art.3, ma anche tutti quei rapporti, non intrinsecamente commerciali, nei quali almeno una parte rivestisse la qualifica di commerciante ex art.54. Nella circolazioni di beni che, quindi, unilateralmente avessero visto una delle parti qualificata come commerciante, tutti i cittadini avrebbe subito una legge che, di fatto, era nata nell’interesse di una sola classe, dall’antichità privilegiata da un proprio ius mercatorum.

La vendita è un contratto per cui uno si obbliga a dare una cosa e l’altro a pagarne il prezzo”: con questa semplicistica, ma fondamentale prescrizione l’art.1447 del R.D. 25 giugno 1865, n. 2350 apre la disciplina “Della vendita” nel Titolo VI che si concluderà con l’art.1548, integrata dai numerosi richiami interdisciplinari tratti da altri titoli.

La res - opera d’arte, come qualsivoglia altro bene mobile facilmente trasferibile, non poteva non essere al centro di apprensioni illecite o attività delittuose, tanto che, a tutela del presunto spogliato, il Codice del Regno già fissava perentoriamente con l’art.1459 2 che “La vendita della cosa altrui è nulla”. Ciò, in ius, negava il possibile trasferimento della proprietà in capo all’acquirente ancorché di buona fede, che al più poteva rivalersi sul venditore, al fine di ottenere il risarcimento dei danni causati con l’operazione, statuendo che la vendita nulla “ può dar luogo al risarcimento dei danni, se il compratore ignorava che la cosa era d’altri”.

Assumendo trattarsi di una res di provento illecito, il venditore, certo, non potrebbe assicurare il “pacifico possesso della cosa venduta”, fondamentalegarantìa sancita dall’art.1481 3 , ineludibile neppure per esplicita pattuizione (derivazione dell’autonomia privata), espressamente esclusa dal successivo art.1485 4 .

Alla nullità dell’atto, sarebbe seguita così la “ restituzione del prezzo, [omissis], le spese fatte in conseguenza della denunzia della lite al suo autore, e quelle fatte dall’autore principale, finalmente il risarcimento dei danni, come pure le spese ed i legittimi pagamenti fatti pel contratto” ai sensi dell’art.1486 5 .

Le norme codicistiche rievocate saranno trasposte nel nuovo Codice Civile del 1942, R.D. 16 marzo 1942, n.262, ove il Capo I del Titolo III nel Libro IV viene intitolato “Della vendita”.

L’art.1470 6 del Codice 1942 definisce la vendita quale “ il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo” .

In realtà, la sensibilità giuridica nei confronti dei beni di interesse storico ed artistico accrescerà con le prime leggi di tutela del patrimonio nn. 286/1871, 1461/1883, 31/1892 e r.d. n. 653/1891, che prevedevano l’inalienabilità e la indivisibilità tra gli eredi delle collezioni, la protezione delle cose di antichità e d’arte, fino al quel momento tutelate, non per la loro qualità intrinseca storico-artistico-culturale, ma quali vili res. Sull’onda politica innescata dal neo interesse per le grandi opere del passato, lo Stato deciderà di avere il controllo della commercializzazione delle opere antiche e, per abbracciare un concetto più ampio, di quelle “usate”, al fine di individuare, recuperare e tutelare i numerosi tasselli del patrimonio nazionale depredato e comunque porre un freno al traffico illecito di opere d’arte.

Infatti, se il Codice Zanardelli del 1889 non curerà lo specifico aspetto, l’attuale Codice Penale – R.D. 19 ottobre 1930, n.1398, accanto alla tutela generale del patrimonio, inseriva alcune misure atte al controllo di coloro i quali esercitavano il commercio di cose antiche o usate, sanzionando penalmente l’omessa comunicazione dell’inizio attività con l’art.706 –Commercio clandestino di cose antiche (oggi abrogato) 7 .

Dette misure sanzionatorie si combinavano con la disciplina amministrativistica dettata, prima del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1926, poi dal T.U.L.P.S. - R.D. 18 giugno 1931, n.773, tutt’oggi in vigore. L’art. 126 (già 127 del T.U. del 1926) 8 dispone che “ non può esercitarsi il commercio di cose antiche o usate senza averne fatta dichiarazione preventiva all'autorità locale di pubblica sicurezza” , mentre l’art.128 (già 129 del T.U. del 1926) 9 disciplinava nel dettaglio le modalità delle operazioni commerciali compiute da tali esercenti.

In particolare, il legislatore:

  • con il 1° comma, poneva e pone il divieto di compiere operazioni commerciali con persone sprovviste di carte d’identità o documento equipollente munito di foto e rilasciato dall’amministrazione dello Stato;

  • con il 2° comma, istituiva la tenuta di un registro nel quale l’esercente deve annotare le generalità delle persone con le quali le operazioni di cui sopra vengono compiute, nonché le ulteriori indicazioni imposte dal Regolamento di Esecuzione del T.U.L.P.S.;

  • con il 3° comma, impone alle stesse persone che compiono tali operazioni l’obbligo di dimostrare la propria identità nei modi prescritti dalla legge.

Il risultato complessivo sarà una tracciabilità, sia in ingresso che in uscita, sufficientemente utile quale punto di partenza per un’indagine a ritroso sulla provenienza dell’opera.

Il Regolamento di Esecuzione del T.U.L.P.S. – R.D. 06 marzo 1940, n.635, nel dettaglio, all’art.242 10 , disciplina nella pratica la dichiarazione preventiva di cui all’art.126 del Testo Unico e all’art.247 11 le modalità con le quali curare la compilazione del registro istituito dall’art.128 del Testo Unico.

Il secondo comma dell’art.247 citato, introduce una eccezione nella compilazione del registro di Pubblica Sicurezza, escludendo l’applicazione delle norme di cui all’art.126 e 128 del T.U.L.P.S. “ per il commercio di cose usate prive di valore o di valore esiguo ”. Dalla lettura testuale di quest’ultimo alinea, traspare l’antinomia rilevabile dalla inverosimile commercializzazione di “ cose usate prive di valore” che, di per sé, in quanto poste in commercio assumerebbero evidentemente un valore, ancorché non intrinseco, ma dettato dall’equilibrio domanda-offerta. La dizione in parola, appare quanto mai scomoda e frutto di una tecnica legislativa, figlia della sua epoca, oggi quanto mai anacronistica, considerando che i rifiuti stessi, tecnicamente res derelicta, oggi assumono una forte valenza economica connessa al loro recupero e riciclo.

L’applicazione letterale della norma porta, di fatto, al paradosso che l’antico comò Luigi XIV tarlato e danneggiato in più parti, gettato in discarica dallo sbadato proprietario possa essere considerato “ cosa usata priva di valore”, giustificandone la mancata e fondamentale tracciabilità.

La quantificazione dell’esiguo valore della cosa usata, invece, sembra essere stata lasciata alla discrezionalità dei singoli regolamenti comunali, con i quali poche amministrazioni locali, nel territorio nazionale, hanno fissato una soglia entro la quale non è dovuta l’iscrizione dei beni usati nell’apposito registro.

Si va dal Comune di Torri Quartesolo (VI) che, in modo indeterminato, richiama un valore di poche decine di euro, al Comune di Novara che fissa la soglia ad euro 50, ai Comuni di Trieste e Cagliari con i loro euro 250, fino al Comune di Como che, in virtù della vacatio legis, richiama impropriamente la Tabella B 12 dell’Allegato A al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio – D.L.vo 42/2004, richiamando la cifra di 13.979,50 euro (!) prevista per “ Mosaici e disegni, Incisioni, Fotografie, Carte geografiche stampate ”, quale valore minino di riferimento.

L’art.13 lett. a) 13 del D.L.vo 13 luglio 1994, n.480 - “ Riforma della disciplina sanzionatoria del testo unico delle legge di pubblica sicurezza ”, abrogherà l’art. 706 del Codice Penale, facendo slittare fra le norme depenalizzate la prescrizione di cui all’art.126 del T.U.L.P.S., da quel momento sanzionate amministrativamente dal neo art. 17 bis 14 del medesimo corpo normativo, con una somma da euro 154 a 1032.

Affianco alle norme ordinarie, i primi del ‘900 segneranno l’epoca della legiferazione speciale a tutela del patrimonio culturale italiano: la timida, ma incisiva Legge Rosadi – 10 giugno 1909, nr. 364 ed il relativo Regolamento di esecuzione – R.D. 30 gennaio 1913, nr. 363 (regolamento tutt’oggi in vigore affianco al Codice Urbani) gettano principi scarni ma fondamentali volti alla tutela “ delle antichità e delle belle arti”, ormai con ogni evidenza considerate patrimonio della comunità, sancendone l’inalienabilità. L’art. 2 della Legge Rosadi recitava infatti “ Le cose di cui all'articolo precedente [cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico] sono inalienabili quando appartengono allo Stato, a comuni, a provincie, a fabbricerie, a confraternite, a enti morali ecclesiastici di qualsiasi natura e ad ogni ente morale riconosciuto”.

Attraverso la più articolata legge n. 1089 del 1939 cd. Legge Bottai, si arriverà ad un organico coordinamento delle norme di settore, con la pubblicazione del “ Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali “– D.L.vo 29 ottobre 1999, n.490 che normava, al Titolo I Capo III Sezione III, il “Commercio”, integrando ed affiancando le norme vigenti per fini di tutela mediata del patrimonio nazionale.

Grazie alle prescrizioni previste dall’art. 62 - Obbligo di denuncia dell'attività commerciale e di tenuta del registro 15 , chiunque esercitava il commercio dei beni elencati nell’Allegato A del Testo Unico 16 , aveva l’onere di inviare copia della dichiarazione preventiva di cui all’art.126 del T.U.L.P.S. anche al Soprintendente di settore (quale organo periferico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali) ed alla Regione.

Il Soprintendente, ai sensi del 3° comma del citato art.62 del D.L.vo 42/2004 17 , avrebbe così potuto effettuare ispezioni semestrali per la verifica dei beni presenti o transitati nell’esercizio commerciale visitato, dettagliatamente descritti nell’apposito registro di Pubblica Sicurezza.

L’obbligo, già in precedenza, era stato sancito dall’art.10 della Legge 1 marzo 1975, n.44, integrando così le “ Misure intese alla protezione del patrimonio archeologico, artistico e storico nazional e”, sotto le spinte politiche delle linee guida fornite dallo studio della Commissione Franceschini, commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio (istituita con L. 26 aprile 1964 n. 310), che aveva lo scopo di effettuare un esame approfondito delle reali condizioni, in cui versava il patrimonio culturale italiano.

L’esercente peraltro, ex art.63 del D.L.vo 42/2004 18 , doveva mettere a disposizione dell’acquirente di opere di pittura, di scultura, di grafica, di oggetti di antichità o di interesse storico od archeologico un attestato di autenticità del bene, garantendo il bene circa le sue qualità.

Nell’Italia repubblicana, l’Assemblea Costituente nel 1947 non potrà non tenere in considerazione la forza e la qualità della legge Bottai, nr. 1089 del 1939, e ad essa si ispirò quando tra i principi fondamentali della Costituzione di una Repubblica, nata dai disastri della dittatura e della guerra, inserì l’art. 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

La circolazione delle opere d’arte in Italia, oggi, è regolata dalle norme civilistiche ordinarie – contemplate nel Codice Civile 1942, integrate, per il settore commerciale, dalle disposizioni di tutela ricavate dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza – R.D. 18 giugno 1931, n.773, dal relativo Regolamento di Esecuzione – R.D. 06 marzo 1940, n.635. A queste disposizioni si affianca la normativa speciale sui Beni Culturali – D.L.vo 22 gennaio 2004, n.42 con il relativo regolamento di esecuzione – R.D. 30 gennaio 1913, n.363.

    1. Le opere d’arte ecclesiastiche.

L’80 % del patrimonio artistico-culturale delle nazioni europee è stato creato dalle religioni, in modo particolare dalla Chiesa cattolica 19 .

Le ragioni di fondo di tale impegno sono da ricercare nelle fondamentali finalità della Chiesa stessa: il culto, la catechesi e la carità.

Per il culto, la Chiesa ed i fedeli hanno voluto mettere al servizio di Dio quanto di più bello e di più prezioso era capace di produrre la creatività umana; si pensi alle chiese ed alle cattedrali, agli arredi e suppellettili liturgiche, ai codici.

Per la catechesi, ogni sforzo è stato profuso dai più imponenti artisti per rappresentare, con la pittura e la scultura, le verità della fede – dalla creazione del mondo al giudizio universale – con opere che adornano le nostre chiese ed arricchiscono i nostri musei: mezzo di comunicazione per i fedeli, facilmente ed immediatamente comprensibile.

Per la carità, si rimanda alla fondazione dei monasteri, diffusi in tutto il mondo, centri di preghiera e di vita spirituale, ma anche centri di incontro e di aiuto ai poveri ed ai pellegrini; si pensi agli ospedali che la Chiesa ha fondato fin dall’antichità; non si dimentichino le Confraternite, che hanno spesso abbellito le loro sedi con opere d’arte.

Per la salvaguardia e la valorizzazione di quell’immenso patrimonio storico-artistico che la Chiesa ha creato in venti secoli della sua esistenza in tutto il mondo, sono stati istituiti appositamente due Dicasteri della Santa Sede: la Pontificia Commissione di archeologia cristiana, voluta da Pio IX nel 1852 e la Pontificia Commissione dei Beni Culturali creata dal Giovanni Paolo II nel 1988.

Per la tutela dei beni culturali distribuiti nel territorio nazionale, la Pontificia Commissione, consapevole del notevole patrimonio culturale che accentra, opera attivamente nell’ambito della propria autonomia, ma senza disattendere il rapporto a vari livelli con le istituzioni civili, dal momento che la comunità cristiana opera all’interno delle singole Nazioni 20 .

Costanti impulsi nel settore derivano dalla documentazione di produzione propria, gli atti normativi unilaterali confessionali 21 , quali:

  • Inventariazione dei beni culturali degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica: Alcuni Orientamenti Pratici (15 settembre 2006),

  • La funzione pastorale dei musei ecclesiastici (15 agosto 2001),

  • Necessità e urgenza dell’inventariazione e catalogazione dei beni culturali della chiesa (8 dicembre 1999),

  • La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici (2 febbraio 1997),

  • I beni culturali degli istituti religiosi (10 aprile 1994),

  • Le biblioteche ecclesiastiche nella missione della Chiesa (19 marzo 1994),

  • La formazione dei futuri presbiteri all’attenzione verso i beni culturali della Chiesa (15 ottobre 1992).

Nella competenza territoriale extranazionale della Santa Sede, dello Stato della Città del Vaticano e degli Organismi, delle Amministrazioni, degli Enti e degli Istituti aventi sede nello Stato e negli immobili di cui agli artt. 15 e 16 del Trattato fra la Santa Sede e l'Italia dell' 11 febbraio 1929 e successive modifiche, ha vigore invece la legge 25 luglio 2001, n. CCCLV - Legge sulla tutela dei beni culturali emanata dallo Stato della Città del Vaticano, mentre per la normativa vigente nel territorio italiano si rimanda all’analitica argomentazione del Capitolo 2.

Non è un caso l’imponente dispiegamento normativo a tutela del patrimonio culturale ecclesiastico, in considerazione del costante depauperamento che esso subisce, principalmente a causa dell’attività criminale.

Scorrendo la tabella di seguito annessa 22 , il numero dei furti subìti da strutture chiesastiche non può far altro che confermare quanto il mercato sia ingordo delle peculiari opere ecclesiastiche, senza nulla tralasciare, dal calice liturgico all’importante tela, alla scultura lignea del venerato santo:

ITALIA - PERIODO DAL 1970 AL 2007 23

FURTI CONSUMATI IN DANNO DI STRUTTURE ECCLESIASTICHE

18.976

OGGETTI TRAFUGATI

154.700

Secondo i dati gestiti dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale grazie alla “ Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti” (art.85 del D.L.vo 42/2004), l’emorragia di migliaia di oggetti ecclesiastici, con la media di cinquecento annui, anche se non tutti di interesse storico-artistico, pervade il mercato clandestino prima, e col tempo quello ufficiale, attraverso le numerose compravendite che vedono passare di mano in mano il bene.

I casi per i quali un bene ecclesiastico di interesse storico-artistico (quello per noi di maggiore interesse) può essere legittimamente in circolazione sono estremamente limitati, tanto che, soltanto l’evidenza dell’intrinseca religiosità, dovrebbe farne sorgere il sospetto della presunta provenienza illegittima.

La probabilità di imbattersi nella trattativa di un’opera d’arte di provenienza chiesastica è alta, fenomeno consapevole o inconsapevole; è inversamente proporzionale la possibilità che essa possa essere stata regolarmente alienata dal patrimonio della Chiesa, secondo le norme sancite dall’ordinamento canonico e da quello civile.

E’ importante per chi abbia la responsabilità di amministrazione dei beni culturali della Chiesa Cattolica in Italia, saper coniugare adeguatamente la conoscenza del diritto pubblico italiano con la normativa canonica della Chiesa universale e con le competenze specifiche della Conferenza Episcopale Italiana, nonché degli Ordinari diocesani e degli uffici delegati: ciò inciderebbe, fra l’altro, nel corretto indirizzo delle azioni giuridiche di contrasto e rivendica volte a reintegrare il patrimonio stesso, che pur essendo, in diritto, dell’ente ecclesiastico, di fatto è parte integrante del tessuto sociale e della comunità pubblica.

Le figure preposte a tale gestione, normalmente religiosi, non hanno alle spalle la formazione auspicata, lasciando spazio spesso all’impronta fondamentale della loro missione spirituale; buonismo, indulgenza, solidarietà e perdono sono sentimenti che possono deviare l’oculata e ferrea gestione di un importante patrimonio: sentimenti clericali, storicamente tracciati, quali il condono di cui all’art. 28 del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia del 1929, che testualmente recitava “ Per tranquillare le coscienze, la Santa Sede accorderà piena condonazione a tutti coloro che, a seguito delle leggi italiane eversive del patrimonio ecclesiastico, si trovino in possesso di beni ecclesiastici ” .

La salvaguardia e la gestione dei beni mobili di interesse storico-artistico della Chiesa, a monte in via preventiva ed a valle in via repressiva, non può affrontarsi senza una contestuale e sinergica applicazione della normativa canonica e di quella civile, attraverso una visione integrata dei due ordinamenti giuridici, almeno per quanto concerne detti beni.

  1. L’evoluzione legislativa nei Beni Culturali Ecclesiastici.

    1. Epoca preunitaria.

La distruzione perpetrata in danno del patrimonio, così come l’incuria delle popolazioni ha imposto forte l’esigenza della tutela dei beni culturali, depauperati per altro da guerre e saccheggi. Tale esigenza è stata sempre più sentita in Italia che altrove, grazie alla presenza di una concentrazione maggiore di opere d’arte, nel paese che, sin dalle origini, è stato la sede della Suprema Autorità della Chiesa Cattolica che, storicamente, si è rivelata attenta alle diverse espressioni artistiche, proponendosi anche mecenate dei più grandi artisti di ogni tempo.

Tre ordini di motivi hanno dettato la tutela dei beni culturali: garantire il godimento del bene da parte del pubblico, conservare antiche memorie la cui alterazione, manomissione o dispersione comporterebbe la privazione per la collettività di beni artisticamente o storicamente rilevanti, ed infine salvaguardare il patrimonio storico e artistico dalla cui distruzione deriverebbe un danno all’economia ed alla ricchezza dell’ente proprietario, così come della comunità ove contestualizzato.

I governanti degli Stati preunitari, ispirati da tali principi, tennero in grande considerazione tale obiettivo e, sin dal XV secolo, adottarono significativi provvedimenti di tutela. Tuttavia le prime forme organiche di protezione del patrimonio storico, artistico e archeologico si ebbero solo agli albori del XIX secolo ed il merito maggiore appartenne proprio alla Chiesa.

La nomina di Raffaello Sanzio quale praefectus alle antichità di Roma nello Stato Pontificio da parte di Leone X, nel 1515, garantì la vigilanza sugli scavi e favorì la conservazione dei monumenti antichi, dando vita di fatto ad una carica paragonabile a quella dell’odierno Soprintendente archeologo.

Il Granducato di Toscana nel 1571, nel caso di alienazioni di edifici, vietò di eliminare e danneggiare iscrizioni e stemmi dei fondatori e nel 1597 di esportare “pietre mischie e dure”.

Nel 1745 il governatore del Regno Lombardo Veneto, sotto l’impero di Maria Teresa d’Austria, emanò una legge che sanciva il divieto di esportazione delle opere d’arte. Dello stesso tenore, il provvedimento emanato nel 1754 dal Consiglio di Reggenza toscano, che facendo seguito ad un precedente provvedimento Granducale del 1602, vietava l’esportazione di dipinti di autori morti senza l’autorizzazione, mentre imponeva il divieto assoluto d’esportazione delle opere di 18 autori fra cui Michelangelo e Raffaello.

Nel 1757 e nel 1760, anche i granducati di Modena e Parma adottarono misure contro l’esportazione di opere d’arte.

Nel 1778 il Regno delle Due Sicilie istituì il Servizio di Tutela Monumentale con due Soprintendenti, per la Sicilia occidentale e per quella orientale, curandosi in particolare dei ritrovamenti nella Val di Noto e nella Val Demone con l’invio di un perito architetto che esaminasse le antichità al fine di rilevare quali fossero le reali necessità di conservazione.

Nel 1818, nei domini dell’Impero austro-ungarico, furono emanate norme concernenti il divieto di esportazione di quadri, statue, antichità, collezioni e in genere di tutte le cose d’arte che contribuivano al decoro e all’ornamento dello Stato.

Il 7 aprile 1820 verrà emanato l’Editto del Cardinale Pacca, primo intervento organico nel settore sotto il pontificato di Pio VII; ad esso seguirà il regolamento del 6 agosto 1821: non solo si diedero disposizioni sulla conservazione ed il restauro dei beni culturali, ma si crearono anche strumenti volti ad accertare la consistenza del patrimonio da tutelare, come la catalogazione degli oggetti antichi ed artistici presenti nelle chiese ed edifici assimilati, nonché l’obbligo di denuncia alla istituita Commissione di Belle Arti, a carico dei possessori di beni antichi e d’arte. Di particolare rilievo fu la natura cautelare di tale norma e di quelle successive, tendenti ad evitare la dispersione del patrimonio culturale, investendo tutti i settori della tutela, dalla conservazione alla circolazione, dal commercio alla disciplina dei ritrovamenti e delle scoperte; venne sottoposta a licenza anche la ricerca archeologica e fu istituito il premio di rinvenimento (istituto ancora presente nella legislazione italiana), nella misura di 1/3 delle cose ritrovate o del corrispettivo in danaro, da attribuire al proprietario del terreno, al fortuito inventore o allo scopritore.

All’Editto “Pacca” si ispirarono in linea di massima tutte le legislazioni degli Stati preunitari.

Non si può comunque trattare dei beni culturali ecclesiastici, senza avere ben a mente che trattasi di beni appartenenti ad enti ecclesiastici, disciplinati in via principale dalle norme canoniche che li riguardano e poi da quelle civili.

L’avvento dell’anno mille porterà per la Chiesa la proliferazione di norme su norme emanata dai singoli pontefici. Soltanto nel 1500, il giurista francese Giovanni Chappuis pubblicherà a Parigi un’edizione a stampa di tutte le compilazioni di diritto canonico susseguitesi nel tempo. La raccolta, vera pietra miliare delle fonti, avrà il titolo di Corpus Juris Canonici per evidenziarne sia l’organicità, sia la corrispondenza con la compilazione giustinianea.

Essa comprendeva il:

  • Decretum Gratiani (1140),

  • Liber Extra (1234),

  • Liber sextus (1298),

  • Clementine (1317),

  • Extravagantes Johannis XXII (1325) Extravagantes communes (fine XV sec.).

Tale corpo normativo troverà applicazione sia nella Causae Seculares sia nelle Causae Spirituales, contenenti la gestione dei beni ecclesiastici, benefici, giuspatronati e decime.

    1. Dall’Italia post-unitaria ad oggi.

L’unità d’Italia, come in altri campi, non significò univoca considerazione del patrimonio culturale come elemento caratterizzante della Nazione; infatti l’ideologia liberale affermatasi nella seconda metà dell’ottocento, purtroppo, non solo non favorì il settore, ma causò un’inversione di tendenza nell’ambito della tutela, con particolare riferimento ai beni di proprietà privata, tanto che esso fu, in un certo senso, trascurato. L’art. 29 dello Statuto Albertino sanciva che “ tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili” e lo Stato quindi non poteva limitarle in alcun modo, neanche in presenza di un interesse pubblico. Pertanto si disinteressò completamente del settore, mentre soltanto con la legge 25 giugno 1865 n. 2359 fu prevista l’unica ipotesi in cui lo Stato avrebbe potuto procedere all’espropriazione e cioè allorquando i beni di interesse storico e artistico, a causa dell’incuria dei proprietari, fossero andati in rovina: di fatto, rimasero pertanto in vigore le leggi di tutela degli Stati preunitari.

Questa politica provocò gravi danni al patrimonio culturale a seguito di vendite e donazioni con conseguenti “fughe” all’estero.

La forte ingerenza dello Stato sulla Chiesa, la politica anticlericale e la crisi finanziaria dell’epoca colpiranno gravemente il patrimonio religioso con una serie di norme dal tenore tracciato dalle Leggi Siccardi di età preunitaria, sfociate nelle cd. Leggi eversive dopo il 1861.

Con l'avvento del Regno d'Italia e le difficoltà di bilancio provocate dalla seconda e terza guerra di indipendenza, il Governo adottò nei confronti della Chiesa una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive.

Con il regio decreto n. 3036 del 7 luglio 1866 fu negata la capacità patrimoniale a tutti gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari: i beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale.

Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.

La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 sancì la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese: restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati.

I fabbricati conventuali incamerati dallo Stato furono alienati oppure concessi ai Comuni e alle Province (con la legge del 1866, art. 20).

Il Codice Civile del 1865 lascia l’autonomia di gestione dei beni di proprietà di quegli enti ecclesiastici che, compatibilmente con la forte incidenza normativa sopra descritta, abbiano la capacità di acquistare e possedere riconosciute dalle leggi del Regno, secondo l’art. 433. 24

Grazie al disposto del successivo art. 434 25 , però, detti beni, assimilatati ad una sorta di demanio pubblico sottoposto alle leggi civili, vengono protetti dall’eventuale alienazione che non può essere disposta senza l’autorizzazione governativa.

La questione romana scoppiata nel 1870 con l’annessione del millenario Stato della Chiesa al Regno d'Italia sottolineò ancora una volta lo spirito anticlericale che percorreva la fine del secolo. Il 13 febbraio 1871 Roma è nominata Capitale del Regno d'Italia, il 13 maggio 1871 veniva approvata la Legge delle Guarentigie, la quale, pur stabilendo precise garanzie per il Papa e la Santa Sede, in virtù della sudditanza che ne scaturiva non fu mai accettata.

Nonostante l'offerta delle Legge delle Guarentigie, i segnali del governo non furono sempre di distensione e di pacificazione. Nel giugno del 1873 il governo estese anche a Roma le leggi anticlericali (leggi Siccardi e successive) e due anni dopo impose persino l'obbligo del servizio militare al clero.

Dal punto di vista dell’ordinamento interno, il Corpus iuris canonici, elaborato nel XVI sec., non rappresentava un codice autentico, esclusivo, vincolante dal punto di vista normativo, ancorché forte punto di riferimento destinato a durare nei secoli quale fonte formale di diritto canonico. Così il principio diffuso delle codificazioni e del necessario rinnovamento porterà alla redazione e promulgazione del primo codice solo nel 1917, con la emanazione del Codex iuris canonici.

Il testo del Codice venne accolto positivamente e corrispose certamente allo scopo di riunire in un unico corpo legislativo il materiale giuridico ecclesiale, facilitando l’osservanza delle leggi senza introdurre significative innovazioni di contenuto rispetto alla tradizione secolare ecclesiastica.

Questo però, alla metà del XX secolo, porterà ad un forte bisogno di rinnovamento della comunità clericale in conflitto con il primo Codice, nel quale si racchiudeva in un corpo unitario e tendenzialmente stabile il diritto antico. Così il 25 gennaio 1983 veniva promulgato il nuovo codice che manterrà la tradizionale denominazione precedente, Codex iuris canonici.

E’ sintomatico osservare che all’argomento di nostro interesse verrà dedicato specificamente il Libro V del Codice, ove la suddivisione adottata permette di intuire che la cognizione e la sensibilità nei confronti della problematica è mutata.

Il citato libro infatti, pur mantenendo il numero di 56 canoni dedicati anche nel C.i.c 1917 ai “Beni temporali della Chiesa”, prevede nel Titolo III la specifica individuazione de “ I contratti e specialmente l’alienazione”.

Nel medesimo clima, i pontificati di Pio X, di Benedetto XV e di Pio XI, nei primi anni del ‘900, videro una lenta distensione dei rapporti ed un graduale riavvicinamento Chiesa-Stato che sfocerà nella stipula dei Patti Lateranensi del 1929, con il cui Trattato si riconosceva definitivamente la sovranità del Pontefice sul neo-nato Stato della Città del Vaticano.

Proprio questo accordo bilaterale tra ordinamenti sovrani recepirà nell’ordinamento civile i principi di amministrazione e controllo dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici, sanciti prima nel Libro III parte VI del Codex 1917, disciplinante “ De Boni ecclesiae temporalibus” e poi trasposti nel Codice 1983.

Fra l’altro, con l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, in virtù della precedente norma pattizia, si diede regolamentazione alle relazioni tra lo Stato e la Chiesa Cattolica recependone e riconoscendone l’autonomia sovrana nell’art. 7 della Carta costituzionale: “ Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.”

Tale norma spiega i suoi effetti ampi e chiari sul rapporto Stato – Chiesa, ove il primo certamente non potrà più ingerire nelle questioni sostanziali confessionali, garantendo per altro il riconoscimento di una sfera in cui la Chiesa è libera di organizzarsi, senza ovviamente mettere in discussione la sovranità dello Stato italiano e nel rispetto delle sue leggi.

Richiamando il disposto costituzionale secondo il quale ” I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi “ partiremo dall’art. 30 del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia 26 , nel quale viene sancito espressamente al 1° comma che “ La gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico od associazione religiosa ha luogo sotto la vigilanza ed il controllo delle competenti autorità della Chiesa, escluso ogni intervento da parte dello Stato italiano, e senza obbligo di assoggettare a conversione i beni immobili” .

Con la legge 27 maggio 1929, n. 810 e legge 27 maggio 1929, n. 848, l’Italia renderà esecutivi gli accordi sanciti nei Patti, recependo fra l’altro nell’ordinamento civile la prescrizione di cui all’art. 30 del Concordato, che rimanda la gestione ordinaria e straordinaria alla vigilanza ed il controllo delle competenti autorità della Chiesa, evidentemente quindi ai canoni di cui al Libro III del C.i.c. 1917.

Non di meno, lo Stato italiano continuerà ad incunearsi nella gestione dell’amministrazione dei beni degli enti ecclesiastici con le prescrizioni dettate dal Capo III e IV della legge 848/1929: “Autorizzazione per gli acquisti” e “ Tutela per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione”.

Proprio l’art. 12 27 della norma citata prevedeva che i rappresentati legali degli enti ecclesiastici di cui all’art. 30 del Concordato 1929 non potevano compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza l’autorizzazione governativa, ad integrazione quindi di quella dell’autorità ecclesiastica prevista dal diritto canonico.

Negli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione venivano espressamente ricompresi, ai sensi del successivo art.13 28 , anche le alienazioni.

La norma, figlia del clima anticlericale diffuso e dell’ingerenza residua dello Stato nella Chiesa, nasce come tutela ma opera come veto. Di fatto, però, affianco alla vigilanza ed al controllo nell’amministrazione dei beni temporali disposti dal diritto canonico, integra un limite normativo alle alienazioni che determina la nullità di quei negozi posti in essere in violazione di tali dettati.

    1. La normativa vigente.

I cambiamenti intervenuti nella storia del costume, della società italiana e delle concezioni giuridiche, oltre al nuovo Codex iuris canonici nel 1983, spingeranno alla radicale revisione del primo Concordato del 1929 che verrà modificato da un nuovo Accordo di revisione tra lo Stato italiano e la Santa Sede il 18 febbraio 1984.

Esso verrà ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121 29 e accompagnato dalla legge 20 maggio 1985, n. 222 30 disciplinante gli enti e i beni ecclesiastici, in sostituzione delle precedenti norme del 1929.

L’art.7, comma 5 dell’Accordo del 1984 31 prevede, in modo non differente dall’art. 30 del Concordato del 1929, che l’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici sia soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico. Con ciò, salvi i controlli sugli acquisti delle persone giuridiche previsti dalle leggi italiane, si vuole evidenziare l’autonomia, anche di gestione patrimoniale, di cui godono gli enti ecclesiastici.

Venute meno le disposizioni di cui alla legge 848/1929, il nuovo Accordo del 1984 e la successiva legge 222/1985, per quanto concerne gli atti di straordinaria amministrazione, quali le alienazioni, rimanda ai controlli di diritto canonico ai sensi dell’art. 18 32 che, appunto, stabilisce che, ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici, non possono essere opposti a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza, o l’omissione dei controlli canonici, che non risultino o dal codice di diritto canonico, o dal registro delle persone giuridiche.

Il richiamato controllo canonico previsto per gli atti di straordinaria amministrazione si sostanzia nella licenza (nel senso di autorizzazione, permesso o nulla osta), concessa per iscritto dal Vescovo diocesano o dall’autorità ecclesiastica cui è soggetta la persona giuridica, secondo le prescrizioni dell’ Istruzione in materia amministrativa – anno 2005 della Conferenza Episcopale Italiana 33 .

Il provvedimento, che deve essere espresso (presumendosi negativa la risposta in caso di silenzio), è richiesto per le alienazioni di beni che costituiscono il patrimonio stabile dell’ente, e il cui valore ecceda la somma stabilita dalla Conferenza Episcopale Italiana ai sensi del can. 1292 C.i.c. 1983, e per qualunque negozio che intacchi il patrimonio della persona giuridica peggiorandone la situazione.

Per la validità delle alienazioni e dei negozi che possono peggiorare lo stato patrimoniale della persone giuridica è necessario:

  1. per le diocesi e le altre persone giuridiche amministrate dal Vescovo diocesano, il decreto del Vescovo diocesano, con il consenso del consiglio per gli affari economici, del collegio dei consultori e di coloro che abbiano un interesse, giuridicamente tutelato, all’oggetto del negozio,

  2. per le persone giuridiche soggette al Vescovo diocesano (parrocchie, chiese, seminari diocesani, ecc.) la licenza del Vescovo diocesano con il consenso del consiglio per gli affari economici, del collegio dei consultori e di chi abbia un interesse, giuridicamente tutelato, all’oggetto del negozio;

  3. per le persone giuridiche non soggette al Vescovo diocesano (seminari, associazioni e fondazioni eretti dalla Santa Sede o dalla Conferenza Episcopale), la licenza dell’autorità competente, determinata secondo le norme statutarie.

Qualora oggetto del negozio siano ex voto donati alla Chiesa o beni preziosi di valore artistico o storico, fra i quali evidentemente opere d’arte di qualsiasi natura, è inoltre richiesta la licenza della Santa Sede, ai sensi del canone 1292, § 2 C.i.c. 34 .

Nell’ordinamento civile italiano, il bene chiesastico di valore artistico o storico, qualora avente più di 70 anni e di autore non più vivente, va ricompreso nella categoria dei “beni culturali” (denominazione tradizionalmente non utilizzata nell’ordinamento canonico) e pertanto sottoposto alle ulteriori norme speciali di tutela che inibiscono determinati atti senza l’autorizzazione ministeriale italiana.

Il primo significativo passo nella tutela dei beni di interesse storico-artistico, anche di proprietà degli enti ecclesiastici, si deve alla legge 20 giugno 1909 n. 364 che contribuì a precisare meglio i termini della tutela, improntandola ad una più sistematica organicità.

Ivi verrà sancito il regime di inalienabilità per i beni appartenenti allo Stato, agli Enti pubblici ed agli Enti morali (nei quali ricadono gli enti ecclesiastici), quello della denuncia per il trasferimento della proprietà o del possesso di beni dichiarati di particolare interesse di proprietà privata, introducendo il diritto di prelazione da parte dello Stato e l’acquisto coattivo, nonché quello relativo al divieto di esportazione, nel caso in cui questa costituisse un grave danno per la storia, l’archeologia e l’arte.

La legge disciplinò anche una serie di misure conservative, vietando qualsiasi intervento sui beni culturali (rimozione, demolizione, restauro etc.) senza la preventiva autorizzazione del Soprintendente o del Ministero; essa fu corredata dal suo regolamento di esecuzione composto da 189 articoli, approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1913, n. 363 e tuttora vigente.

Nel regime di tutela venivano annoverati anche le proprietà mobiliari degli enti ecclesiastici, secondo il disposto dell’art. 26 del Regolamento. 35

Prima di poter disporre della prima vera normativa organica si dovrà attendere il 1939: il riferimento è alla Legge 01 giugno 1939, n. 1089 sulla tutela delle cose di interesse storico ed artistico proposta dal Ministro Bottai (da cui presero il nome), che si avvalse però di due consiglieri d’eccezione, Santi Romano sul versante giuridico ed il giovane Giulio Carlo Argan su quello storico-artistico.

L’Assemblea Costituente non poté non tenere in considerazione la forza e la qualità delle leggi Bottai e ad esse si ispirò quando tra i principi fondamentali della Costituzione di una Repubblica, nata dai disastri della dittatura e della guerra, inserì l’art. 9:

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione ”.

In epoca repubblicana, quindi, è rimasta in vigore la fondamentale legge n. 1089 del 1939, sebbene modificata ed integrata dalle leggi n. 1552 del 1961 e n. 292 del 1968, fino alla legge 8 ottobre 1997 n. 352 recante “ Disposizioni sui beni culturali” che delegò il governo ad emanare un decreto legislativo recante un Testo Unico nel quale fossero riunite e coordinate tutte le disposizioni vigenti in materia di beni culturali e ambientali. Venne così emanato il D.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490 contenente il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, riunione e coordinamento di tutte le norme vigenti in materia. Poche le novità, ad eccezione dell’inserimento nel T.U. della disciplina degli archivi e dei documenti dello Stato, degli enti pubblici e dei privati, non proprio in linea con la delega che non nomina esplicitamente i beni archivistici, anche se è fuor di dubbio che essi appartengano a pieno titolo al patrimonio culturale nazionale.

Il testo normativo si sviluppava essenzialmente su otto raggruppamenti di norme, in particolare:

  • l’oggetto della tutela (tipologia di beni e individuazione, artt. 1/9);

  • le disposizioni generali e transitorie (ambito di applicazione, coordinamento delle competenze di Regioni ed Enti locali, la regolamentazione del regime transitorio, raccolte ex-fidecommissarie, vigilanza e cooperazione, catalogazione, funzione consultiva, artt. 10/20);

  • la conservazione (controlli, restauro ed altri interventi, altre forme di protezione, artt. 21/53);

  • la circolazione in ambito nazionale (alienazione e altri modi di trasmissione, prelazione, commercio, artt. 54/64);

  • la circolazione in ambito internazionale (uscita e ingresso nel territorio nazionale, esportazione dal territorio dell’U.E., restituzione di beni culturali illecitamente usciti dal territorio di uno stato membro dell’U.E., artt. 65/84),

  • la disciplina dei ritrovamenti e delle scoperte (artt. 85/90);

  • la valorizzazione ed il godimento pubblico (espropriazione, fruizione, uso individuale, artt. 91/117);

  • le sanzioni penali e amministrative (artt. 118/137).

Il regolamento di esecuzione rimase il R.D. 30 gennaio 1913 n. 363 (Regolamento in esecuzione alle leggi 20 giugno 1909 n. 364 e 23 giugno 1912 n. 688 per le antichità e belle arti) specificatamente richiamato dall’art. 12 del T.U., così come ancora oggi con l’analogo richiamo dell’art. 130 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Nell’evoluzione storica delle disposizioni di tutela nell’ordinamento italiano merita particolare attenzione l’operato della Commissione Franceschini, che ha grandemente influito sulle normative riguardanti i beni culturali ed i beni paesaggistici.

Nel 1964 l'Italia visse un momento di massimo risveglio culturale e destandosi dagli orrori e dalle distruzioni della guerra sotto la spinta della ripresa economica, cominciò a constatare le reali condizioni del Paese; cosicché il legislatore, dopo un'attenta ricognizione volta ad effettuare un bilancio delle perdite che il patrimonio nazionale aveva subito, ritenne opportuno rivolgere nuovamente la sua attenzione al settore delle «cose d'arte» e iniziò a predisporre strumenti adeguati per il recupero e la valorizzazione del patrimonio storico e artistico, istituendo una Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio (L. 26 aprile 1964 n. 310), che aveva per l'appunto lo scopo di effettuare un esame approfondito delle reali condizioni, in cui versava il patrimonio culturale italiano.

La Commissione Franceschini, chiamata così dal nome del Presidente, pubblicò alla fine dei lavori, nel 1966, i risultati della indagine, che aveva toccato tutti i settori culturali e cioè il settore archeologico, artistico, storico, monumentale, urbanistico, museale.

Individuava in tutti i settori carenze macroscopiche, quali la mancanza di programmazione, una catalogazione insufficiente e, in alcuni casi, addirittura inesistente, e la dispersione di beni. Su tali presupposti prospettava alcune proposte, articolate in 84 dichiarazioni che investivano principalmente quattro settori: i beni archeologici, i beni artistici e storici, i beni archivistici, librari e ambientali; integrava 9 raccomandazioni consistenti in direttive fornite dalla Commissione per intervenire tempestivamente e opportunamente in materia. La dichiarazione più pregevole è la prima, da cui poi è stata enucleata la definizione di beni culturali, che sarà presa a base di tutto il sistema. Nasce, infatti, proprio in questo periodo, la nozione di “beni culturali e ambientali”, terminologia che costituisce la reductio ad unitatem” delle categorie previste dalle leggi del 1939. Si volle sottolineare, con questo termine, che le cose d’arte o di notevole interesse storico e artistico devono essere considerate soprattutto come beni che forniscono un'utilità prevalentemente di tipo spirituale e, quindi, culturale.

Secondo la definizione che ne fornisce la Commissione, sono beni culturali tutti quei beni, come i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale, paesistico, archivistico e librario, nonchè ogni altro bene che costituisca “testimonianza materiale avente valore di civiltà”.

La tutela dei beni culturali, a seguito della modifica del Titolo V della parte II della Costituzione, attuata dalla Legge Cost. 18 ottobre 2001 n. 3, sottoposta a referendum popolare, è stata fatta rientrare, a pieno titolo, tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, mentre sono materie di legislazione concorrente la valorizzazione dei beni culturali e la promozione e organizzazione delle attività culturali.

Sulla base di tali presupposti ed in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 10 della legge 6 luglio 2002 n. 137, veniva emanato il decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 recante il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che entrava in vigore dal 1° maggio 2004. Successivamente esso è stato modificato ed integrato dai decreti legislativi n. 156 e 157 del 27 aprile 2006 e n. 62 e 63 del 26 marzo 2008.

La parte seconda dedicata ai beni culturali, quella che interessa nella presente trattazione, si suddivide in due titoli.

Il Titolo I si occupa della tutela e si compone di VII Capi; il Capo I (artt. 10-17) è dedicato all’oggetto della tutela e definisce:

  • le cose che posseggono le caratteristiche per essere qualificate beni culturali, distinguendole a seconda dei modi del loro assoggettamento alla normativa di tutela, anche in relazione al loro regime di appartenenza;

  • le categorie di cose che non sono assoggettate all’intera disciplina di tutela, ma solo ad alcune specifiche disposizioni, con riguardo evidentemente a determinati fini;

  • la disciplina della verifica dell’interesse culturale;

  • i provvedimenti di dichiarazione di interesse culturale, la disciplina del relativo procedimento, la relativa notifica e la novità di esperire il ricorso amministrativo avverso la stessa dichiarazione;

  • l’esigenza fondamentale della catalogazione, che deve essere assicurata dal Ministero con il concorso delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali.

Il Capo II (artt. 18 e 19) è deputato alla vigilanza ed all’ispezione.

Il Capo III, dedicato alla protezione e conservazione, si articola in tre sezioni, di cui la prima (artt. 20-28) comprende le misure di protezione a carattere generale; in particolare le disposizioni che pongono limiti all’uso e al godimento materiale dei beni, a protezione del loro valore culturale..0000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000 La seconda sezione (artt. 29-44) regola la conservazione attiva dei beni culturali, disciplinando, in particolare, gli obblighi conservativi posti in capo ai proprietari, possessori o detentori dei beni medesimi.

Nel Capo IV viene disciplinata la circolazione in ambito nazionale e anch’esso consta di tre sezioni: la prima (artt. 53-59) tratta dei modi e dei limiti concernenti l’alienabilità dei beni appartenenti a soggetti pubblici, disciplina i procedimenti di autorizzazione all’alienazione per le fattispecie precedenti, ovvero la permuta quando ciò comporti l’arricchimento delle pubbliche raccolte, prescrive l’obbligo di denuncia di trasferimento della proprietà, del possesso o della detenzione di beni culturali. La seconda (artt. 60-62) si occupa dell’istituto della prelazione, dettandone le condizioni ed il procedimento.

Nella terza sezione (artt. 63 e 64) vengono esplicitati, in funzione di tutela, gli obblighi imposti agli esercenti di attività commerciali che abbiano ad oggetto beni culturali, ossia l’obbligo di denuncia di inizio di tale attività e la tenuta del registro, nonché l’obbligo di denuncia della vendita e dell’acquisto di documenti e della consegna all’acquirente degli attestati di autenticità e di provenienza dei beni di cui accennato nel 1° capitolo.

Il Capo V regola la circolazione in ambito internazionale dei beni culturali. Si compone di quattro sezioni: nella prima (artt. 65-72) vengono regolamentati l’uscita dal territorio nazionale e l’ingresso nel territorio nazionale dei beni. La seconda sezione (artt. 73 e 74) concerne l’esportazione dal territorio dell’Unione Europea.

La terza sezione (artt. 75-86) contiene norme, relative alla restituzione di beni culturali illecitamente usciti dal territorio di uno Stato membro dell’Unione Europea, che riproducono il recepimento della direttiva 93/7 CEE del Consiglio in data 15 marzo 1993, peraltro già attuato dagli artt. 1-16 della legge 30 marzo 1998 n. 88, successivamente confluiti negli artt. 73-84 del Testo Unico.

La quarta sezione, con il solo art. 87, disciplina la restituzione dei beni culturali rubati ed il ritorno di quelli illecitamente esportati, richiamando le norme della Convenzione UNIDROIT Roma 1995 e delle relative leggi di ratifica ed esecuzione.

Il Capo VI è dedicato ai ritrovamenti e alle scoperte di cose suscettibili di costituire beni culturali.

Il Capo VII (artt. 95-100) reca norme relative all’espropriazione.

Il Titolo II è dedicato alla fruizione e valorizzazione dei beni culturali, con un’impostazione atta a porre in evidenza che la funzione di valorizzazione, così come definita dall’art. 6 comma 1, presuppone necessariamente un prius, consistente nell’ordinaria attività di fruizione del patrimonio culturale.

La tutela dei beni ecclesiastici con valenza storica o artistica (“ oggetti preziosi di valore artistico o storico” di cui al can. 1292 C.i.c.) la rileviamo nell'art. 10 che introduce la parte seconda del Codice.

La norma, insieme al successivo art. 11, costituisce specificazione del principio enunciato nell'art. 2, comma 2, secondo cui " sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà ". Gli artt. 10 e 11 riportano l'elencazione delle tipologie dei beni culturali sottoposti a tutela, mantenendo la bipartizione, già propria degli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 490/1999, tra beni culturali sottoposti all'intera disciplina di tutela e beni oggetto di specifiche disposizioni di tutela (definiti, dall'art. 3 d.lgs. n. 490/1999, come " categorie speciali di beni culturali").

Il criterio seguito è sempre quello dell'individuazione dei beni culturali sulla base di una caratterizzazione tipologica che ne determina l'appartenenza ad altrettante categorie, espressamente definite. Relativamente all'individuazione del bene culturale viene mantenuta l'impostazione tradizionale, pur senza trascurare una definizione globale che ha il carattere della residualità. Il che lo si deduce dal richiamo, contenuto nell'art. 2, co. 2, alle " altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà ".

L'art. 10 fornisce l'indicazione delle cose che hanno le caratteristiche per essere qualificate come beni culturali, le classifica e distingue a seconda delle modalità di assoggettamento alla normativa di tutela, anche in relazione al loro regime di appartenenza. Vere innovazioni sono costituite dall'espressa menzione dello Stato tra i soggetti destinatari delle disposizioni di tutela e dalla precisazione che, anche per i beni degli enti pubblici e delle persone giuridiche private senza scopo di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, l'assoggettamento "definitivo" a tutela ha luogo in presenza di un interesse culturale il cui accertamento è demandato ad un'apposita verifica, da effettuarsi d'ufficio o su istanza di parte.

Il comma 1 dell’art.10 qualifica come beni culturali le cose appartenenti allo Stato, alle regioni agli altri enti pubblici territoriali, nonché a ogni altro ente e istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico archeologico o etnoantropologico. La precisazione relativa agli enti ecclesiastici è stata inserita dal D.lgs. n. 62/2008 e si è resa necessaria anche per fugare definitivamente non irrilevanti dubbi interpretativi della norma attuale, proprio in ragione dell’estensione dell’assoggettamento alla tutela ex lege delle cose di proprietà dei suddetti enti, aventi le caratteristiche richiamate dal Codice; in vero l’art. 26 del regolamento del 1913, sopra richiamato, (spesso nella pratica lasciato in disparte) ha da sempre ricondotto anche tali enti sotto le norme del settore.

E’ opportuno evidenziare che la giurisprudenza ritiene che la tutela (di cui alla l. n. 1089/1939) riguardi cose storiche e artistiche materiali. Tuttavia, in virtù della sentenza n. 4566/2002 del Consiglio di Stato, Sez. VI, la nozione di bene culturale è passata da un'accezione di tipo materialistico, a una diversa connotazione, di tipo immateriale, che vede nel bene un valore espressivo di un ambiente storico e sociale. L’aggettivo “demo-etno-antropologico”, introdotto nel contesto normativo della materia dell’art. 148, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 112/1998 (in precedenza l’art. 1, co 1, n.1089/1939 parlava di interesse “etnografico”), è stato sostituito con l’aggettivo “etno-antropologico”, più corretto dal punto di vista scientifico e già presente nel sistema normativo (v. art. 48 d.P.R. n. 616/1977).

Nell’ambito del regime vincolistico, si devono ricomprerete le cose appartenenti, oltre che a soggetti pubblici, tra i quali sono compresi pure gli enti pubblici economici, anche a " persone giuridiche private senza fine di lucro" (l'art. 4, comma 1, L. n. 1089/1939 parlava, con un'espressione più ampia e onnicomprensiva, di "enti e...istituti legalmente riconosciuti"). Si pensi, a esempio, alle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, ONLUS) di cui all'art. 10 d.lgs. n. 460/1997. Alla locuzione " persone giuridiche private senza fine di lucro", con il d.lgs. n. 62/2008, recante modifiche ed integrazioni al Codice, si è aggiunto “ ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti”, sebbene fosse già comunque pacifica la riconducibilità di tali enti a quelli oggetto delle specifiche disposizioni su riportate (anche in virtù del più volte citato regolamento del 1913).

Con le modifiche al Concordato del 1984, si è concretamente sottolineato l’interesse sia della Chiesa che dello Stato italiano verso un’azione di tutela congiunta, racchiusa nell’art. 12 del nuovo accordo, che ne rappresenta il cardine in materia: “ La Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico e artistico”. Detta norma quadro, a carattere programmatico, essendo stata concordata bilateralmente, incide in ambito sia statuale, sia ecclesiastico.

In tale ottica devono richiamarsi le seguenti ulteriori intese, conseguenza logica delle forme di collaborazione:

  • Intesa fra il Ministro per i Beni Culturali ed Ambientali ed il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana firmata il 13 settembre 1996, ratificata con D.P.R. 26 settembre 1996, n. 571,

  • Intesa fra il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ed il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana firmata il 18 aprile 2000, entrata in vigore nell’ordinamento italiano con D.P.R. 16 maggio 2000, n. 189, ed afferente specificamente gli archivi e le biblioteche ecclesiastiche,

  • Intesa fra il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ed il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana firmata il 26 gennaio 2005, ratificata con D.P.R. 4 febbraio 2005, n. 78, che abroga la prima ed assume carattere procedimentale, finalizzata a definire forme e modalità di cooperazioni riguardo ai “beni culturali di interesse religioso”.

L’Intesa del 2005, fra l’altro, richiama ancora una volta e recepisce nell’ordinamento italiano, con l’art. 8 36 , le autorizzazioni richieste dalla normativa canonica per le eventuali intese fra le regioni e gli enti ecclesiastici.

1 L. GRASSI, M. PEPE, G. SESTIERI, “ Dizionario di antiquariato”, A. Vallardi – Garzanti editore, ed. 1992,

2 Art.1459 R.D.25 giugno 1865, nr.2358:

La vendita della cosa altrui è nulla: essa può dar luogo al risarcimento dei danni, se il compratore ignorava che la cosa era d’altri.

La nullità stabilita da questo articolo non si può mai opporre dal venditore”.

3 Art.1481 R.D.25 giugno 1865, nr.2358:

La garantìa che il venditore deve al compratore ha due oggetti: il primo riguarda il pacifico possesso della cosa venduta; il secondo riguardava i vizi o i difetti occulti della medesima”.

4 Art.1485 R.D.25 giugno 1865, nr.2358:“ Nello stesso caso di stipulata esclusione della garantìa, il venditore, accadendo l’evizione, è tenuto alla restituzione del prezzo, eccetto che il compratore fosse consapevole del pericolo dell’evizione all’atto della vendita o avesse comprato a suo rischio e pericolo”.

5 Art.1486 R.D.25 giugno 1865, nr. 2358:

Se fu promessa la garantìa o nulla fu stipulato su tale oggetto, il compratore che ha sofferta l’evizione, ha diritto di domandare al venditore:

1° la restituzione del prezzo;

2° quella de’ frutti, quando sia obbligato di restituirli al proprietario, che ha rivendicato la cosa;

3° le spese fatte in conseguenza della denunzia della lite al suo autore, e quelle fatte dall’autore principale;

4° finalmente il risarcimento dei danni, come pure le spese ed i legittimi pagamenti fatti pel contratto”.

6 Art. 1470 - Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262:

La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo”.

7 Art. 706 – Codice Penale: Commercio clandestino di cose antiche:

Chiunque esercita il commercio di cose antiche o usate, senza averne prima fatta dichiarazione all'autorità quando la legge la richiede, o senza osservare le prescrizioni della legge, è punito con l'ammenda da lire ventimila a seicentomila”.

8 Art. 126 – T.U.L.P.S.: “ Non può esercitarsi il commercio di cose antiche o usate senza averne fatta dichiarazione preventiva all'autorità locale di pubblica sicurezza”.

9 Art.128 – T.U.L.P.S. : “ I fabbricanti, i commercianti, gli esercenti e le altre persone indicate negli artt. 126 e 127 non possono compiere operazioni su cose antiche o usate se non con le persone provviste della carta di identità di altro documento munito di fotografia, proveniente dall'amministrazione dello Stato.

Essi devono tenere un registro delle operazioni di cui al primo comma che compiono giornalmente, in cui sono annotate le generalità di coloro con i quali le operazioni stesse sono compiute e le altre indicazioni prescritte dal regolamento.

Tale registro deve essere esibito agli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, ad ogni loro richiesta.

Le persone che compiono operazioni di cui al primo comma con gli esercenti sopraindicati, sono tenute a dimostrare la propria identità nei modi prescritti.

L'esercente, che ha comprato cose preziose, non può alterarle o alienarle se non dieci giorni dopo l'acquisto, tranne che si tratti di oggetti comprati presso i fondachieri o i fabbricanti ovvero all'asta pubblica”.

10 Art. 242 T.U.L.P.S. : “ La dichiarazione all'autorità locale di pubblica sicurezza di chi intende far commercio di cose antiche o usate deve contenere l'indicazione della sede dell'esercizio e della specie del commercio, precisando se si tratti di commercio di oggetti aventi valore storico od artistico oppure di commercio di oggetti usati di nessun pregio.

In caso di trasferimento o di trapasso dell'azienda, la dichiarazione deve essere rinnovata.

L'autorità locale di pubblica sicurezza, nel rilasciare ricevuta della dichiarazione, indica se, nell'esercizio, si faccia commercio di oggetti aventi valore storico od artistico, oppure di oggetti usati”.

11 Art.247 T.U.L.P.S. :” Il registro di chi fa commercio di cose antiche od usate o di chi commercia o fabbrica oggetti preziosi deve, agli effetti dell'art. 128 della legge, indicare, di seguito e senza spazi in bianco, il nome, cognome e domicilio dei venditori e dei compratori, la data dell'operazione, la specie della merce comprata o venduta ed il prezzo pattuito.

Fatte salve le disposizioni di legge in materia di prevenzione del riciclaggio, le disposizioni degli articoli 126 e 128 della legge si applicano al commercio di cose usate quali gli oggetti d'arte e le cose antiche, di pregio o preziose, nonché al commercio ed alla detenzione da parte delle imprese del settore, comprese quelle artigiane, di oggetti preziosi o in metalli preziosi o recanti pietre preziose, anche usati. Esse non si applicano per il commercio di cose usate prive di valore o di valore esiguo ”.

12 Allegato A - D.L.vo 42/2004 – Codice dei beni culturali e del paesaggio - Tabella B. Valori applicabili alle categorie indicate nella lettera A (in euro):

1) qualunque ne sia il valore

1. Reperti archeologici

2. Smembramento di monumenti

9. Incunaboli e manoscritti

12. Archivi

2) 13.979,50

5. Mosaici e disegni

6. Incisioni

8. Fotografie

11. Carte geografiche stampate

3) 27.959,00

4. Acquerelli, guazzi e pastelli

4) 46.598,00

7. Arte statuaria

10. Libri

13. Collezioni

14. Mezzi di trasporto

15. Altri oggetti

5) 139.794,00

3. Quadri

13 Art. 13 D.l.vo 13 luglio 1994, nr. 480: ” Sono abrogate le seguenti disposizioni:

a ) gli articoli 662, 665, 667 e 706 del codice penale;

b ) gli articoli 66, 70, 73, 130 e 213 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 ;

c ) gli articoli 126, 127, 128, 129, 132, 138 e 248 del regolamento per l'esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773 , delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 ;

d ) il terzo comma dell' art. 38 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ;

e ) il decreto legislativo 11 febbraio 1948, n. 50”.

14 Art.17 bis T.U.L.P.S. : 1. Le violazioni alle disposizioni di cui agli articoli 59, 60, 75, 75- bis , 76, se il fatto è commesso contro il divieto dell'autorità, 86, 87, 101, 104, 111, 115, 120, comma secondo, limitatamente alle operazioni diverse da quelle indicate nella tabella, 121, 124 e 135, comma quinto, limitatamente alle operazioni diverse da quelle indicate nella tabella, sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 516 a euro 3.098.

2. La stessa sanzione si applica a chiunque, ottenuta una delle autorizzazioni previste negli articoli indicati nel comma 1, viola le disposizioni di cui agli articoli 8 e 9.

3. Le violazioni alle disposizioni di cui agli articoli 76, salvo quanto previsto nel comma 1, 81, 83, 84, 108, 113, quinto comma, 120, salvo quanto previsto nel comma 1, 126, 128, 135, escluso il comma terzo e salvo quanto previsto nel comma 1, e 147 sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 154 a euro 1.032 .

15 Art.62 D.L.vo 490/99 - Obbligo di denuncia dell'attività commerciale e di tenuta del registro.

[1. Chiunque esercita il commercio dei beni elencati nell'allegato A di questo Testo Unico invia al soprintendente e alla Regione copia della dichiarazione prevista dall'articolo 126 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 .

2. I soggetti indicati al comma 1 annotano giornalmente le operazioni eseguite nel registro prescritto dall'articolo 128 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, descrivendo le caratteristiche dei beni acquistati o venduti con le modalità stabilite dal regolamento. Il registro è esibito, a richiesta, ai funzionari del Ministero e della Regione.

3. Il soprintendente verifica, con ispezioni periodiche a cadenza almeno semestrale, la regolare tenuta del registro e la fedeltà delle annotazioni in esso contenute. Il verbale dell'ispezione è notificato all'interessato ed alla locale autorità di pubblica sicurezza]

16 Tabella A dell’allegato A - D.L.vo 42/2004:

A. Categorie di beni:

1. Reperti archeologici aventi più di cento anni provenienti da:

a ) scavi e scoperte terrestri o sottomarine;

b ) siti archeologici;

c ) collezioni archeologiche.

2. Elementi, costituenti parte integrante di monumenti artistici, storici o religiosi e provenienti dallo smembramento dei monumenti stessi, aventi più di cento anni.

3. Quadri e pitture diversi da quelli appartenenti alle categorie 4 e 5 fatti interamente a mano su qualsiasi supporto e con qualsiasi materiale [1].

4. Acquerelli, guazzi e pastelli eseguiti ínteramente a mano su qualsiasi supporto.

5. Mosaici diversi da quelli delle categorie 1 e 2 realizzati interamente a mano con qualsiasi materiale [1] e disegni fatti interamente a mano su qualsiasi supporto.

6. Incisioni, stampe, serigrafie e litografie originali e relative matrici, nonché manifesti originali [1].

7. Opere originali dell'arte statuaria o dell'arte scultorea e copie ottenute con il medesimo procedimento dell'originale [1], diverse da quelle della categoria 1.

8. Fotografie, film e relativi negativi [1].

9. Incunaboli e manoscritti, compresi le carte geografiche e gli spartiti musicali, isolati o in collezione [1].

10. Libri aventi più di cento anni, isolati o in collezione.

11. Carte geografiche stampate aventi più di duecento anni.

12. Archivi e supporti, comprendenti elementi di qualsiasi natura aventi più di cinquanta anni.

13. a) Collezioni ed esemplari provenienti da collezioni di zoologia, botanica, mineralogia, anatomia.

b ) Collezioni aventi interesse storico, paleontologico, etnografico o numismatico.

14. Mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni.

15. Altri oggetti di antiquariato non contemplati dalle categorie da 1 a 14, aventi più di cinquanta anni.

17 Idem nota 14

18 Art. 63 D.L.vo 42/2004 - Attestati di autenticità e di provenienza:

[1. Chiunque esercita l'attività di vendita al pubblico o di esposizione a fine di commercio di opere di pittura, di scultura, di grafica, di oggetti di antichità o di interesse storico od archeologico ha l'obbligo di porre a disposizione dell'acquirente gli attestati di autenticità e di provenienza delle opere e degli oggetti medesimi, che comunque si trovino nell'esercizio o nell'esposizione.

2. All'atto della vendita i soggetti indicati al comma 1 sono tenuti a rilasciare all'acquirente copia fotografica dell'opera o dell'oggetto con retroscritta dichiarazione di autenticità e indicazione della provenienza, recanti la sua firma].

19 F. MARCHISANO, Le religioni e la tutela del Patrimonio storico-artistico-culturale, in Bollettino della Numismatica – Supplemento al nr. 36, Anno 2001,

20 Profilo della Pontificia Commissione per i Beni Culturali: http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/pcchc/documents/rc_com_pcchc_pro_20011008_it.html

21 Documenti della Pontifica Commissione per i Beni Culturali: http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/pcchc/documents/rc_com_pcchc_index-documents_it.html

22 R. CONFORTI, “ Circolazione illecita delle opere d’arte. Principio della buona fede”, in Bollettino di Numismatica – Supplemento nr.36, Anno 2001.

23 Dati statistici tratti dalla Banca Dati dei Beni Culturali illecitamente sottratti, gestita dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (art.85 D.L.vo 42/2004) – pagina 63 - V. CICALE, “ Amministrazione e tutela dei beni culturali della Chiesa”, Ed. Assosicurezza, Anno2008.

24 Art. 433 Codice Civile 1865 – “ I beni degli istituti civili od ecclesiastici e degli altri corpi morali appartengono ai medesimi, in quanto le leggi del regno riconoscano in essi la capacità di acquistare e di possedere”.

25 Art. 434 Codice Civile 1865 – “ I beni degli Istituti ecclesiastici sono soggetti alle leggi civili e non si possono alienare senza l’autorizzazione del governo”.

26 Art.30 Concordato 11.02.1929: “ La gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico od associazione religiosa ha luogo sotto la vigilanza ed il controllo delle competenti autorità della Chiesa, escluso ogni intervento da parte dello Stato italiano, e senza obbligo di assoggettare a conversione i beni immobili.

Lo Stato italiano riconosce agli istituti ecclesiastici ed alle associazioni religiose la capacità di acquistare beni, salve le disposizioni delle leggi civili concernenti gli acquisti dai corpi morali.

Lo Stato italiano, finché con nuovi accordi non sarà stabilito diversamente, continuerà a supplire alle deficienze dei redditi dei benefìci ecclesiastici con assegni da corrispondere in misura non inferiore al valore reale di quella stabilita dalle leggi attualmente in vigore: in considerazione di ciò, la gestione patrimoniale di detti benefìci, per quanto concerne gli atti e contratti eccedenti la semplice amministrazione, avrà luogo con intervento da parte dello Stato italiano, ed in caso di vacanza la consegna dei beni sarà fatta colla presenza di un rappresentante del Governo, redigendosi analogo verbale.

Non sono soggetti all’intervento suddetto le mense vescovili delle diocesi suburbicarie ed i patrimoni dei capitoli e delle parrocchie di Roma e delle dette diocesi. Agli effetti del supplemento di congrua, l’ammontare dei redditi, che su dette mense e patrimoni sono corrisposti ai beneficiati, risulterà da una dichiarazione resa annualmente sotto la propria responsabilità dal Vescovo suburbicario per le diocesi e dal Cardinale Vicario per la città di Roma. “

27 Art.12 legge 27 maggio 1929, n. 848: “ I rappresentanti legali dei benefici ecclesiastici contemplati nell'art. 30, secondo capoverso, del Concordato, eccettuate le mense vescovili della diocesi di Roma e suburbicarie, i capitoli e le parrocchie di Roma e delle dette diocesi, non possono compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione senza l'autorizzazione governativa, da concedersi, sentita l'autorità ecclesiastica, nelle forme che verranno stabilite nel regolamento . “

28 Art.13 legge 27 maggio 1929, n. 848: “ Per gli effetti dell'articolo precedente si comprendono fra gli atti e contratti eccedenti la ordinaria amministrazione, oltre le alienazioni propriamente dette, le affrancazioni volontarie di censi e di canoni, i mutui, gli atterramenti di piante di alto fusto, le esazioni e gli impieghi di capitali, le locazioni ultra novennali d'immobili, le liti, sia attive che passive, attinenti alla consistenza patrimoniale degli enti ”.

29 Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato Lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede.

30 Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi.

31 Art. 7 dell’Accordo fra Stato e Chiesa cattolica del 18 febbraio 1984:
1. La Repubblica italiana, richiamandosi al principio enunciato dall’art. 20 della Costituzione, riafferma che il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, nè di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.
2. Ferma restando la personaità giuridica degli enti ecclesiastici che ne sono attualmente provvisti, la Repubblica italiana, su domanda dell’autorità ecclesiastica o con il suo assenso, continuerà a riconoscere la personalità giuridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di culto. Analogamente si procederà per il riconoscimento agli effetti civili di ogni mutamento sostanziale degli enti medesimi.
3. Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime.
4. Gli edifici aperti al culto, le pubblicazioni di atti, le affissioni all’interno o all’ingresso degli edifici di culto o ecclesiastici, e le collette effettuate nei predetti edifici, continueranno ad essere soggetti al regime vigente.
5. L’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico. Gli acquisti di questi enti sono però soggetti anche ai controlli previsti dalle leggi italiane per gli acquisti delle persone giuridiche.
6. All’atto della firma del presente Accordo, le Parti istituiscono una Commissione paritetica per la formulazione delle norme da sottoporre alla loro approvazione per la disciplina di tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici e per la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano e degli interventi del medesimo nella gestione patrimoniale degli enti ecclesiastici. In via transitoria e fino all’entrata in vigore della nuova disciplina restano applicabili gli articoli 17, comma terzo, 18, 27, 29 e 30 del precedente testo concordatario
.”

32 Art. 18 legge 20 maggio 1985, n. 222: “ Ai fini dell'invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l'omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche ”.

33 In : http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/bd_edit_doc.edit_documento?p_id=11087.

34 Canone 1292 C.i.c. : “§1. Salvo il disposto del can. 638, §3, quando il valore dei beni che s'intendono alienare, sta tra la somma minima e quella massima da stabilirsi dalla Conferenza Episcopale per la propria regione, l'autorità competente, nel caso di persone giuridiche non soggette all'autorità del Vescovo diocesano, è determinata dai propri statuti; altrimenti l'autorità competente è lo stesso Vescovo diocesano, con il consenso del consiglio per gli affari economici e del collegio dei consultori nonché degli interessati; il Vescovo diocesano stesso ha anche bisogno del consenso dei medesimi organismi per alienare i beni della diocesi.

§2. Trattandosi tuttavia di beni il cui valore eccede la somma massima stabilita, oppure di ex-voto donati alla Chiesa o di oggetti preziosi di valore artistico o storico, per la valida alienazione si richiede inoltre la licenza della Santa Sede .

§3. Se la cosa che s'intende alienare è divisibile, nel chiedere la licenza si devono indicare le parti già alienate in precedenza; altrimenti la licenza è nulla.

§4. Coloro che sono tenuti a prendere parte alla alienazione dei beni con il consiglio o il consenso, non diano il consiglio o il consenso senza essersi prima esattamente informati, sia sulle condizioni finanziarie della persona giuridica i cui beni si vogliono alienare sia sulle alienazioni già fatte”.

35 Art. 26 R.D. 30.01.1913, n. 363: “Le cose di cui all' art. 1 della L. 20 giugno 1909, n. 364 , di spettanza dei Comuni, delle Provincie, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, delle fabbricerie, delle confraternite, di enti morali ecclesiastici di qualsiasi natura e di ogni ente morale riconosciuto, sono, ai fini della legge medesima, soggette alla tutela e alla vigilanza del Ministero della pubblica istruzione.

Nei casi dubbi dovranno gli enti rivolgere domanda al sovrintendente, affinché conosca se la cosa raggiunge l'interesse sovraccennato.

36 Art. 8 dell’Intesa Intesa fra il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ed il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana firmata il 26 gennaio 2005, ratificata con D.P.R. 4 febbraio 2005, n. 78: 1. Entro i limiti fissati in materia dalla Costituzione della Repubblica e dai principi della legislazione statale, le presenti disposizioni costituiscono indirizzi per le eventuali intese stipulate tra le regioni o le province autonome di Trento e di Bolzano e gli enti ecclesiastici, fatte salve le autorizzazioni richieste dalla normativa canonica.”