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PROFILI DI INCOSTITUZIONALITA’ DELLA NUOVA LEGGE SUI BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI.

di A. PELLECCHIA

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“LA REPUBBLICA ITALIANA TUTELA IL PAESAGGIO ED IL PATRIMONIO ARTISTICO DELLA NAZIONE” .

Questo è il principio fondamentale affermato con forza della Costituzione italiana all’art.9 secondo comma, al quale il legislatore ha l’obbligo di ispirarsi nel decidere le politiche di tutela del patrimonio culturale della Nazione.

La Costituzione obbliga il legislatore a farsi carico del dovere davanti all’umanità intera di salvaguardare il nostro patrimonio culturale nazionale come patrimonio dell’intera umanità, in modo da poterlo preservare e trasmettere nella sua totale integrità alle generazioni future di tutto il mondo.

Si tratta di un’impresa sicuramente difficile per il legislatore dovendo egli fare i conti con circa l’80% del patrimonio culturale mondiale; tuttavia , come detto sopra, tale compito non rappresenta un onere bensì un dovere che va adempiuto e perseguito costantemente senza mai abbassare la guardia, e, soprattutto, va fatto con amore per la cultura e con la convinzione che i beni culturali e paesaggistici non rappresentano un patrimonio da investire, ma piuttosto un patrimonio comune su cui investire, mediante una corretta attività di tutela, diretta ad assicurare la conservazione e la più diffusa fruizione.

Alla luce di queste riflessioni si procede, qui di seguito, all’analisi delle novità introdotte dal nuovo Codice sui beni culturali e paesaggistici, adottato alla luce dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002 n. 137, al fine di verificare se la nuova legge in vigore dal 1 Maggio 2004 sia in linea con gli impegni costituzionali.

L’analisi critica del testo non può non partire dalla definizione di bene culturale fornitaci dall’art. 2 del Testo Unico:

1. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici.

2. Sono «beni culturali» le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.

3. Sono «beni paesaggistici» gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali e naturali del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge.

Dunque in base all’art. 2 comma 2 i beni culturali sono unicamente le testimonianze materiali aventi valore di civiltà, con la conseguenza giuridica che la disciplina di tutela e valorizzazione, prevista dal Codice, riguarderà esclusivamente le categorie dei beni mobili ed immobili.

Una prima osservazione critica va mossa nei confronti di tale definizione, poichè risulta non al passo con l’evoluzione che la nozione di bene culturale ha subito in questi ultimi anni nell’ambito della comunità internazionale.

La nozione di bene culturale, infatti, è sempre in continua evoluzione, poiché le forme di espressione dei valori e della cultura di una determinata comunità sociale cambiano con il cambiare della società e dei costumi, vale dire sempre.

Questo processo costantemente in moto, ha evidenziato l’esistenza di ulteriori mezzi comunicativi dell’arte, delle scienze e della cultura dei popoli. Si tratta di manifestazioni della cultura che si scorporano dalla rigida categoria del bene artistico materiale per abbracciare nuove frontiere di espressioni della storia di un popolo, e che, pertanto, sono da considerarsi meritevoli di tutela pur non rientrando nell’idea di materialità e di valutabilità economica.

L’UNESCO, che come sappiamo, è la maggiore organizzazione internazionale impegnata nel campo dei beni culturali, già da tempo ha individuato un nuovo settore d’intervento di tutela costituito dalla cosiddetta “cultura intangibile”, cioè da quella manifestazione della cultura costituita solo da “beni immateriali”.

Quando parliamo di cultura intangibile intendiamo riferirci alla cultura quotidiana, cioè quella che spazia dalla danza al teatro, dall’enogastronomia alla musica, passando attraverso le lingue ed i dialetti, i costumi ed i giochi, le feste ed i riti, in breve tutti quei processi assimilati dagli individui attraverso la conoscenza, l’abilità e la creatività.

L’organizzazione internazionale dell’UNESCO, ritiene, dall’alto delle sue funzioni ed esperienze in campo culturale, che il patrimonio culturale di un popolo debba essere costituito anche da quei beni immateriali che recano il senso di continuità con le generazioni precedenti, importanti per l’identità culturale, messa in pericolo dal processo di omologazione spirituale imposta dal mercato globale. Per cui compito fondamentale di ogni Nazione è quello di occuparsi della conservazione e promozione della cultura intangibile, fondamentale per preservare le particolarità culturali di ogni popolo.

L’Italia è terra di culture particolari, di tradizioni, di folklore e di tutto ciò che ruota attorno all’immagine delle parole appena indicate: danze, feste, giochi e quant’altro che pur non risultando tangibile è testimonianza, quanto mai visibile, della cultura di un popolo ed in quanto tale va salvaguardata alla stregua di qualsiasi altro bene culturale mobile o immobile.

Il nuovo codice dei beni culturali e paesaggistici, nonostante, vi sia una forte consapevolezza campanilistica circa l’esistenza e l’importanza della tutela della cultura intangibile in Italia, non ne ha fatto alcun cenno, limitandosi a riservare le misure di protezione alle forme culturali di tipo materiale, precludendosi, in tal modo, la possibilità di incentivare la protezione e la valorizzazione della cultura non tangibile, che è parte integrante del patrimonio artistico e storico della nazione.

Il Codice nel secondo Titolo disegna poi la nuova disciplina dell'alienabilità dei beni culturali di proprietà pubblica, provvedendo a regolare le condizioni e modi per l'alienazione degli stessi.

In particolare la nuova disciplina parte dalla distinzione tra demanialità e non demanialità riservando il vincolo di inalienabilità solo ai beni culturali demaniali, in quanto beni facenti parte del patrimonio culturale della Nazione

Tuttavia il nuovo Codice, a fronte dell’affermazione del vincolo di inalienabilità, ha previsto all’art.12, una procedura speciale finalizzata alla verifica, da parte della sopraintendenza per i beni culturali, circa l’esistenza o meno dell’interesse culturale di tutti i beni artistici mobili ed immobili, pubblici e privati.

La procedura, che può essere attivata su richiesta del proprietario del bene ma anche su iniziativa d’ufficio del Ministero dei beni culturali, ha lo scopo ben preciso di procedere alla sdemanializzazione di tutti quei beni pubblici ritenuti irrilevanti per patrimonio culturale italiano. Infatti, all’esito negativo della procedura di verifica, segue la sdemanializzazione del bene e quindi anche la sua libera alienabilità.

Occorre precisare, però, che la sdemanializzazione di un bene culturale e quindi il vincolo di inalienabilità che ne consegue, possono venir meno non già a seguito dell’esito negativo di un procedimento di accertamento dell’interesse culturale effettuato dalle sopraintendenze (così come dovrebbe essere garantito all’interno di una ottica protezionista) bensì a seguito di una procedura amministrativa prevista dall’art.27 del Dl. 30-09-2003 n.269, il quale impone che la verifica circa l’interesse artistico, storico, archeologico dei beni di proprietà pubblica, debba essere svolta dalla sopraintendenza entro un termine perentorio di 120 giorni, stabilendo, che, in caso di mancata risposta da parte della amministrazione competente entro il termine suddetto, il bene in questione debba considerarsi privo di interesse culturale e quindi liberamente alienabile.

È evidente che la norma dell’art. 27, appena descritta e richiamata dall’art. 12 del nuovo Codice sui beni culturali, sovverte pericolosamente il principio dell’inalienabilità dei beni di interesse culturale, attraverso il subdolo meccanismo del silenzio-assenso.

. Il silenzio assenso è un espediente procedurale creato esclusivamente per tutelare il cittadino dinanzi alla inerzia della pubblica amministrazione e non per comprimere un diritto che fa capo, in questo caso, non solo ai cittadini italiani ma ai cittadini del mondo.

Le sopraintendenze sono state le prime a ribellarsi al nuovo sistema introdotto dal nuovo Codice, in quanto esse non hanno mai chiesto il ricorso a strumenti semplificativi del loro enorme lavoro, quale è l’espediente del silenzio- assenso, ma hanno richiesto, altresì, un potenziamento dell’organico e degli strumenti di lavoro in modo da poter svolgere efficientemente ed entro tempi ragionevoli il procedimento di verifica dell’interesse culturale.

.A seguito delle novità introdotte dal nuovo Codice è certo infatti che una rilevante quota di beni non potranno essere valutati prima del termine previsto, a causa dell’impossibilità oggettiva per la sopraintendenza di reggere, con un organico e strumenti scarsi, una mole di lavoro ardua, con la drammatica prevedibile conseguenza dello smantellamento del patrimonio culturale più importante delmondo.
L’errore sicuramente è da rinvenire nella scelta consapevole di chi ha voluto vedere nella cultura e nelle sue forme d’espressione, anzichè una fonte di ricchezza spirituale da preservare, una fonte di ricchezza economica da investire sul mercato per trarne dei profitti.

Il legislatore costituente era ben lungi da una idea così aberrante, anzi, esso consapevole dell’importanza delle testimonianze artistiche dei nostri popoli, ha voluto, con il brocardo contenuto nel secondo comma dell’art.9 della Costituzione, rafforzare l’idea che è fondamentale salvaguardare l’ inestimabile patrimonio culturale italiano, su cui occorre investire denaro ed idee per poterlo sempre mantenere integro e restituirlo libero alle generazioni future.

D’altra parte le scelte operate dal legislatore nella costruzione del nuovo Codice sui beni culturali, rispondono a logiche politiche ben precise; vero è, infatti, che una disposizione di legge può attribuire all’inerzia della p.a. o un significato positivo (silenzio assenso) o un significato negativo (silenzio diniego o rigetto). La scelta tra le due diverse soluzioni risolve un conflitto di interessi, decidendo in astratto, quale tra gli interessi configgenti è da considerarsi più meritevole di tutela.

Nel caso di specie il Codice sui beni culturali, di fronte all’inerzia della pubblica amministrazione, adotta la soluzione del silenzio-assenso anzichè del silenzio-rifiuto, implicando che il legislatore ha voluto privilegiare l’interesse alla vendita dei beni culturali.

Se, al contrario, avesse optato per il silenzio-diniego, all’inerzia della pubblica amministrazione sarebbe seguito il vincolo di inalienabilità e quindi avrebbe vinto l’interesse alla conservazione del bene culturale.

Analoga riflessione va fatta in ordine alle autorizzazioni per gli interventi di edilizia sui beni culturali, la cui procedura è disciplinata all’art. 22 del Testo Unico. In particolare l’art. 21 comma 4, prevede che l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali è subordinata all’autorizzazione del sopraintendente.

La ratio della norma è di tutto rispetto in quanto mira ad evitare che l’iniziativa dei proprietari privati di beni culturali, soprattutto immobili, possano, attraverso interventi di natura edilizia, intaccare liberamente l’importanza storica ed artistica di un determinato bene culturale.

Tuttavia, nonostante i buoni propositi il Testo Unico inciampa nel medesimo errore e nel disciplinare la procedura di autorizzazione per gli interventi edilizi sui beni culturali ricorre nuovamente alla figura del silenzio-assenso nel caso di inerzia della pubblica amministrazione.

In particolare all’art. 22 comma 3 prevede che, ove la soprintendenza voglia procedere ad accertamenti di natura tecnica, dandone preventiva comunicazione al richiedente, il termine di 120 giorni, entro il quale la p.a. deve provvedere, si sospende fino all’acquisizione delle risultanze degli accertamenti d’ufficio e comunque per non più di trenta giorni. L’articolo continua al 4°comma sostenendo che decorso inutilmente il termine suddetto, il richiedente può diffidare l’amministrazione a provvedere ed ove l’amministrazione non provveda, neanche, entro i trenta giorni successivi al ricevimento della diffida, la autorizzazione si intende concessa.

Anche in questo caso, pertanto, l’inerzia della sopraintendenza, che può essere determinata dalla scarsità delle risorse umane impiegate in uffici aberrati di lavoro, determinerà un provvedimento favorevole al proprietario del bene culturale il quale voglia realizzare gli interventi edilizi senza che l’amministrazione competente si possa esprimere circa l’incidenza della nuova opera sul valore artistico del bene gravato dall’intervento.

Si ritiene che anche in questo caso i limiti temporali, per lo più brevi (se consideriamo che talune valutazioni tecniche di beni culturali richiedono mesi), imposti dalla legge alla sopraintendenza siano quanto mai contrari alla volontà di voler garantire la tutela del patrimonio culturale della nazione; si deve considerare, infatti, che gli interventi strutturali anche di piccolo rilievo possono pregiudicare la importanza prospettica, luminosa e soprattutto strutturale di un bene culturale.

Alla luce di tali spunti di osservazione ci sembra doveroso denunciare, oltre alla mancata possibilità di migliorare i profili di tutela dei beni culturali, la assoluta illegittimità costituzionale di norme, che in totale spregio dell’art. 9 della Costituzione, ledono il principio della tutela dei beni culturali, arrecando un danno irreparabile alla integrità del patrimonio storico ed artistico della Nazione.