Consiglio di Stato Sez. IV, n. 5821, del 24 novembre 2014
Beni Ambientali.Compiti dei gestori dei parchi e delle riserve naturali
Stante la peculiarità dei compiti dei gestori dei parchi e delle riserve naturali, appare pienamente comprensibile che agli stessi sia affidata attività comprensiva di aspetti “urbanistici”. Il principio appare omogeneo rispetto a quello dettato dalla Legislazione nazionale l. 394/1991 ed armonico alle affermazioni giurisprudenziali. Infatti, l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ben può rilevare anche la violazione di regole derivanti dagli strumenti aventi una valenza urbanistica. Le regole urbanistiche in qualsiasi modo limitative dell'edificazione ad es., quelle sul cd. lotto minimo, quelle che comunque vietano o limitano l'antropizzazione, contribuiscono alla salvaguardia del territorio e dunque dell'ambiente e, se riguardano aree sottoposte al vincolo paesaggistico, contribuiscono a determinare il concreto regime giuridico del bene tutelato. Ne consegue che l'autorità statale, preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, deve tenere conto di tale regime giuridico e constatare la preclusione normativa alla modifica dello stato dei luoghi, anche se essa non è stata tenuta in considerazione da altre autorità. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 05821/2014REG.PROV.COLL.
N. 03788/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3788 del 2014, proposto da:
Roberto Toniatti Giacometti, Giovanni Toniatti Giacometti, Domenico Toniatti Giacometti, Livia Toniatti Giacometti, rappresentati e difesi dagli avv. Alessandro Calegari, Andrea Manzi, con domicilio eletto presso Andrea Manzi in Roma, via Federico Confalonieri 5;
contro
Regione Friuli-Venezia Giulia Autonoma, Comune di Staranzano, Comune di Grado, Comune di Fiumicello, Comune di San Canzian D'Isonzo, Organo Gestore della Riserva Naturale Regionale della Foce dell'Isonzo non costituitisi in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. del FRIULI-VENEZIA-GIULIA – Sede di TRIESTE- SEZIONE I n. 00462/2013, resa tra le parti, concernente approvazione piano di conservazione e sviluppo della riserva naturale regionale della foce dell'Isonzo - procedura di esproprio.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 ottobre 2014 il Consigliere Fabio Taormina e udito per parte appellante l’ Avvocato Luca Mazzeo su delega di Manzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con la sentenza in epigrafe appellata, il Tribunale amministrativo regionale del Friuli Venezia Giulia ha deciso, respingendolo, il ricorso di primo grado proposto dall’odierna parte appellante, composta da Roberto Toniatti Giacometti, Livia Toniatti Giacometti, Giovanni Toniatti Giacometti, volto ad ottenere l’annullamento (in parte qua) del provvedimento Piano di Conservazione e Sviluppo della Riserva naturale reg.le della Foce dell'Isonzo dd. 17.12.2003, nonché dell'accordo di programma tra la Regione FVG ed i Comuni di Staranzano, Grado, Fiumicello e San Canzian d'Isonzo per la gestione della Riserva naturale regionale della Foce dell'Isonzo e le eventuali convenzioni attuative.
L’odierna parte appellante aveva fatto presente di essere proprietaria di terreni agricoli in località Isola della Cona, in Comune di Staranzano, che facevano parte di un più ampio compendio immobiliare interessato, nel tempo, da una serie di espropriazioni da parte della Regione e del Comune di Staranzano per realizzare gli obiettivi indicati dal Piano di conservazione e sviluppo (di seguito PCS) della Riserva naturale della Foce dell’Isonzo per complessivi mq 1.861.526.
Rimanevano in loro proprietà mq 636.923, di cui avrebbero dovuto essere espropriati ulteriori mq 480.724 (pp. cc. 914/1 e 1093) in seguito alle previsioni del PCS.
Di conseguenza, gli stessi sarebbero rimasti proprietari di mq 156.199 (pp.cc. 920, 921/1 e 776/4), pari a poco più del 6% dell’originaria superficie aziendale.
Avevano sottolineato che - pur prevedendo il PCS per ciascuna di dette aree una specifica destinazione - non se ne poteva dedurre la scelta di espropriarne alcune e di non espropriarne altre. Invero la medesima destinazione era stata data alle pp. cc. 914/1, 920, 921, 776/3 e ad una parte della p. c. 776/4, di cui peraltro solo la prima era destinata ad essere espropriata: ciò nonostante esse avessero la medesima destinazione in base al PCS, in quanto inserite nell’area RN di tutela naturalistica (dove l’ambiente naturale doveva essere integralmente conservato, così che erano ammessi solo lavori di ripristino o restauro di ecosistemi degradati, danneggiati o compromessi sotto il profilo naturalistico).
Peraltro anche nella zona RG di “tutela generale”, dove erano ammesse le attività colturali, purché compatibili con la conservazione della natura, la p.c. 1093 era destinata ad essere espropriata, mentre la restante parte della p.c. 776/4 non era destinata ad essere espropriata, quella pur essendo ugualmente inserita nella zona di tutela naturalistica.
Nonostante la proprietà degli originari ricorrenti fosse stata in gran parte espropriata (e per altra notevole parte destinata all’espropriazione in base al PCS), l’esigua porzione destinata a rimanere in loro proprietà, pur ricompresa per lo più in zona RN, non sarebbe stata acquisita alla proprietà pubblica.
Una simile situazione penalizzava oltremisura la loro posizione: una volta completate le espropriazioni, essi non avevano alcuna convenienza a conservare la rimanente area in proprietà (in cui era vietato, in base al PCS, ogni intervento edilizio di nuova edificazione o di ampliamento degli edifici esistenti e di bonifica fondiaria), mentre nei terreni agricoli, compresi nella zona RG, era prevista la loro possibile riconversione a rinaturazione, restauro o ripristino di habitat naturali, sulla base di progetti approvati dall’organo gestore della Riserva.
Di conseguenza essi avevano richiesto l’integrale espropriazione dei loro terreni: avevano quindi interesse ad impugnare il Piano di conservazione e sviluppo della riserva, nella parte in cui si prevedeva solo un esproprio parziale, non giustificato in quanto le aree destinate ad essere acquisite dalla mano pubblica o a rimanere private non avevano un regime differenziato tra loro.
Nel mezzo di primo grado avevano avversato, inoltre, la tesi dell’organo gestore secondo cui le predette aree non destinata ad essere espropriate non erano strettamente necessarie alla realizzazione del Piano. Di recente, infatti, il Comune di Staranzano aveva chiesto loro di acconsentire alla realizzazione di un approdo nautico sulla particella n. 776/4, pur non soggetta ad esproprio.
Essi avevano proposto ricorso straordinario in data 24.7.2008, cui si era opposta la Regione, con l’atto di cui all’art. 10 del dPR 1199/1971.
Costituitisi nella sede giurisdizionale avverso gli atti già oggetto di ricorso straordinario, avevano proposto tre macrocensure di violazione di legge ed eccesso di potere, partitamente scrutinate –e respinte- dal Tar.
Il Tar ha innanzitutto escluso la fondatezza delle doglianze articolate nel primo motivo di gravame (con cui si contestava la competenza dell’Organo gestore in materia urbanistica, che sarebbe stata illegittimamente sottratta ai Consigli comunali, in particolare rilevando che quello del Comune di Staranzano aveva espresso parere favorevole al dante causa di parte originaria ricorrente).
Ad avviso del primo giudice, il mezzo non teneva conto della particolare normativa della Regione Friuli Venezia Giulia, dove, sia in materia di ordinamento degli enti locali (art. 4 n. 1 dello Statuto speciale) sia in materia di urbanistica (art. 4 n. 12 dello stesso), era data alla Regione potestà legislativa esclusiva, cioè senza obbligo di adeguarsi ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato nelle singole materie.
Tale considerazione rilevava, offrendo l’art. 31 della L.R. 30 settembre 1996 n. 42 la facoltà alla Regione di scegliere, con deliberazione della Giunta regionale, l’organo gestore delle riserve naturali regionali, cui competeva, ai sensi del precedente art. 17, di adottare il Piano di Conservazione e Sviluppo, conferendolo o a un Comune, o ai Comuni territorialmente competenti in forma singola, o a detti Comuni in forma associata ed infine essendo stato individuata, mediante accordo di programma, approvato con la deliberazione della Giunta regionale n. 3602 del 3 dicembre 1997, l’associazione fra i Comuni di Fiumicello, San Canzian d’Isonzo, Staranzano e Grado quale organo gestore di detta riserva.
L’avere scelto, in base alla ricordata legge regionale, come organo gestore un’associazione di Comuni, conferendole il potere di adottare il PCS in luogo degli organi rappresentativi dei singoli Comuni costituiva, ad avviso del Tar, espressione della potestà esclusiva della Regione in materia di ordinamento degli enti locali.
Tale potestà le consentiva (purché con legge regionale e deliberazione attuativa della Giunta regionale) di sottrarre competenze ai Consigli comunali, anche in materia di urbanistica, dove del pari detta potestà esclusiva si esercitava; e ciò anche difformemente dalle leggi dello Stato in dette materie.
Detto primo motivo, inoltre, era stato giudicato infondato anche nella parte in cui lamentava la mancata motivazione della scelta dell’Organo gestore di disattendere parzialmente il parere del Comune di Staranzano e di non espropriare l’intera proprietà della società dante causa della odierna parte appellante: un organo plurale decide, infatti, a maggioranza ed era sufficiente come motivazione che la maggior parte di coloro che ne facciano parte non condividano una proposta perché questa sia respinta, (come di fatto avvenuto) senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
Del resto, in caso diverso, come disponeva il 7° comma dell’art. 17, nel testo allora vigente, sarebbe spettato alla Regione “d’intesa con l’organo gestore” apportare al PCS “le modificazioni ritenute accoglibili”; ma esse, nel caso, non sono state ritenute tali da detto organo.
Quanto all’ulteriore censura, che lamentava come il numero dei presenti a riunioni dell’organo gestore fosse stato variabile, (disattendendosi così, in tesi, le regole che presiedono al suo funzionamento), il Tar ha dato atto della circostanza che ad alcune importanti riunioni avevano partecipato anche persone che non ne facevano parte. Non risultava, però, che esse avessero votato: ed in ogni caso, anche alle adunanze dei Consigli comunali, talora, erano solite partecipare persone estranee, appositamente invitatevi.
I provvedimenti adottati in tali occasioni potevano essere dichiarati illegittimi solo se fra i votanti fossero risultate esservi persone estranee all’organo deliberante (ma di ciò non vi era prova, nella vicenda, limitandosi gli atti menzionati ad annotare l’approvazione delle proposte).
Quanto alla mancanza di requisiti definiti come propri delle deliberazioni degli organi collegiali (quorum, verbalizzazione, proclamazione ecc.), questi in tanto sussistono, in quanto vi siano norme che li prevedano: tale requisito mancava, nel caso di specie, dove è unicamente stabilita la composizione dell’organo gestore, essendo solo necessario che si dia atto dell’approvazione o meno delle proposte sottoposte al suo esame.
Anche la seconda doglianza (incentrata sulla supposta violazione degli artt. 16, 11° comma, del testo unico sulle espropriazioni e dell’art. 16, 2° comma lett. a) n. 1 della L.R. n. 42/1996) era infondata, ad avviso del Tar.
La prima delle invocate norme, in tesi, avrebbe, sì, consentito al proprietario di chiedere l’espropriazione delle frazioni residue dei suoi beni, non prese in considerazione, quando di disagevole utilizzazione; Ma, secondo il Tar, tale norma non appariva decisiva a supportare la censura, in quanto questa si limiterebbe a stabilire che in sede di osservazioni “il proprietario dell’area, nel formulare le proprie osservazioni, può chiedere” che l’espropriazione venga estesa, ma non comporterebbe alcun obbligo per l’amministrazione di accedere alla richiesta.
Del pari la disposizione regionale disponeva che il PCS “ al fine di consentire la continuità delle attività agricole…deve tener conto delle colture…esercitat(e) al momento dell’istituzione” della riserva al fine “di garantire la continuità aziendale”. Senonché tale disposizione regionale appariva espressiva, ad avviso del Tar, non dello stesso, ma di contrario senso rispetto a quella statale prima invocata. Gli appellanti, infatti, non avevano alcun interesse a continuare nell’attività aziendale, (difficile nei reliquati rimasti in loro possesso), ma avevano l’interesse contrario, a che vi fosse l’espropriazione integrale della loro proprietà; sicché la citatadisposizione non appariva utilmente invocabile.
Neppure appariva meritevole di critiche la risposta data dall’organo gestore alla dante causa degli originari ricorrenti: esso aveva subordinato la possibilità di estendere l’espropriazione all’utilità di “inserire esclusivamente quelle particelle oggetto di interventi od attività specifiche previste dal PCS”.
Unico scopo dell’espropriazione era la pubblica utilità, non già quella privata, per cui essa doveva essere giustificata da tale presupposto (tanto più in un caso, quale quello controverso, in cui essa avveniva a titolo oneroso e con fondi di cui, per la parte pressoché totale, l’organo gestore non aveva la disponibilità, essendo questi di provenienza quasi esclusivamente regionale).
La spesa, perciò, doveva essere giustificata, per l’appunto, da un’utilità pubblica, altrimenti essa non aveva ragione di essere: non sussisteva quindi alcun difetto di motivazione.
Il Tar ha infine vagliato e disatteso il terzo mezzo di critica, incentrato su tutte le figure sintomatiche di eccesso di potere, nonché denunciante la violazione degli artt. 42 e 97 Cost.
Ha in proposito ritenuto pienamente legittimo provvedere all’espropriazione soltanto quando lo imponeva la pubblica utilità, né, a tali fini, rilevava, come vorrebbero i ricorrenti, la destinazione urbanistica delle aree.
Nessuna contraddittorietà, inoltre, era ravvisabile fra il comportamento dell’organo gestore ( che si era rifiutato di estendere l’espropriazione) e quello del Comune di Staranzano e della Regione che avevano proceduto a un sistematico esproprio di aree: non era stata, infatti, dimostrata l’identità delle situazioni in entrambi i casi (la persistenza della pubblica utilità), né difettava la motivazione, come rilevatosi in sede di esame del secondo motivo, ove la stessa era stata ritenuta congrua.
Neppure a contrarie conclusioni poteva indurre la circostanza dell’approdo nautico da realizzare da parte del Comune di Staranzano: esso interessava soltanto una limitata zona della proprietà del soggetto dante causa degli originari ricorrenti, per cui detto Comune aveva chiesto il permesso del suo utilizzo senza procedere all’espropriazione, pur essendo evidente la pubblica utilità.
Non ricorreva, nel caso de quo, in effetti, un’iniziativa dell’organo gestore, ma, isolatamente, quella del Comune, per cui nemmeno in questo caso sussisteva alcun vizio di contraddittorietà.
Quanto all’ultima parte della terza censura proposta, essa è apparsa al Tar intimamente contraddittoria: era logico e coerente, invece, per il Collegio che le espropriazioni corrispondessero direttamente a un interesse pubblico (che rendesse necessarie le relative spese) mentre era parimenti del tutto logico che, essendo le proprietà ubicate ai margini dell’alveo fluviale e quindi di difficile utilizzo, esse venissero espropriate solo quando un interesse pubblico giustificasse la loro acquisizione.
Disattese le censure sostanziali, il Tar ha conseguentemente dichiarato infondato il mezzo.
Avverso tale decisione la parte originaria ricorrente, rimasta integralmente soccombente, ha proposto un articolato appello chiedendone la riforma.
Ad avviso dell’appellante il Tar aveva ripetutamente errato.
Il primo motivo del mezzo di primo grado, era fondato; non era contestato il dato normativo discendente dagli artt. 17 e 31 della legge Regionale n. 42/1996: ciò che il Tar non aveva colto – e che appariva incomprensibile - nella consisteva nella totale privazione in capo ai Comuni del potere decisionale loro spettante sul loro territorio.
In virtù di un accordo di programma, quattro persone fisiche decidevano dell’assetto territoriale dell’area, in spregio ai principi di democraticità e rappresentatività: il che appariva inaccettabile, tanto più che, così operando, era stato tenuto in non cale il parere del Comune di Staranzano, che aveva espresso l’opinione di procedere all’ablazione “totale” delle aree ricadenti nel perimetro della Riserva. E ciò per di più in carenza di motivazione alcuna, in spregio all’art. 3 della legge n. 241/1990 ed all’art. 17 della legge Regionale n. 42/1996.
L’assenza di norme procedurali sul funzionamento di quel Collegio e la presumibile partecipazione al voto di soggetti non legittimati (in un verbale si leggeva che una decisione, su emendamento del Dott. Perco, era stata adottata “all’unanimità dei presenti” ed era certo che fossero stati presenti anche persone non legittimate ad esprimere alcun voto) connotava vieppiù di illegittimità l’operato dell’Organo Gestore della Riserva.
Con la seconda doglianza (riproduttiva del secondo motivo del mezzo di primo grado) si è criticata la sentenza, laddove, trascurandosi il dato normativo, obliandosi che non v’era stata ponderazione del sacrificio imposto ai privati e disattendendosi il parere del Comune di Staranzano, era stata avallata la “scelta” dell’Amministrazione di non espropriare la totalità delle aree di pertinenza della parte appellante.
Nella forma, le dette aree erano rimaste nella disponibilità dei privati: in concreto, il relativo valore dominicale e la possibilità di un loro utilizzo erano stati azzerati.
In ogni caso l’Amministrazione avrebbe dovuto espressamente motivare in ordine alla necessarietà di un sì gravoso sacrificio imposto ai privati: l’azione amministrativa, carente di tale indispensabile motivazione, era sviata ed illegittima.
Anche il terzo motivo del mezzo di primo grado era fondato: il Tar aveva disatteso la censura facendo esclusivo riferimento ad esigenze di ordine economico.
Ma lo statuto proprietario non poteva essere mortificato a tal punto: e la circostanza che il Comune di Staranzano avesse richiestoa parte appellante un approdo era dimostrativa: a) della pubblica utilità anche di quelle aree; b)della inutilizzabilità delle stesse ad alcun fine; c) in ultima analisi, dello sviamento rispetto al fine originario, ossia quello di ablare tutte le le aree insistenti nella riserva.
L’appellante ha depositato una memoria ex art. 73 del cpa ribadendo e puntualizzando le proprie censure.
Tutte le parti processuali, in vista della odierna udienza pubblica, hanno depositato scritti difensivi tesi a puntualizzare le rispettive censure ed eccezioni.
Alla pubblica udienza del 21 ottobre 2014 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.
DIRITTO
1. L’appello è infondato e va disatteso nei termini di cui alla motivazione che segue.
2. L’appellante ha introdotto nel processo di appello due versanti critici (in larga parte riproduttivi delle censure di primo grado disattese dal Tar): il primo macroprofilo di critica, di natura sostanziale, si fonda sulla tesi secondo la quale l’amministrazione procedente avrebbe dovuto espropriare l’intero compendio immobiliare di pertinenza di parte appellante. E ciò sulla base di due convergenti dati: le aree relitte erano comunque utili alla realizzazione degli obiettivi indicati dal Piano di conservazione e sviluppo (di seguito PCS) della Riserva naturale della Foce dell’Isonzo; di converso, le dette aree – ove lasciate in proprietà di parte appellante - non avrebbero potuto spiegare alcuna utilità, né erano suscettibili di alcun utilizzo, anche economico. La espropriazione parziale, quindi, imponeva all’appellante un sacrificio spropositato, il che avrebbe imposto l’espropriazione totale delle dette aree.
Con il secondo versante critico, si censura per varie ragioni, anche di natura infraprocedimentale, l’operato dell’amministrazione procedente che era pervenuta alla irragionevole scelta di espropriare soltanto in parte le aree.
3. Sotto il profilo logico vanno scrutinate in via prioritaria le censure in ultimo indicate.
3.1. Anticipa il Collegio che nessuna di esse appare fondata.
3.2. Quanto al primo motivo, l’ appellante - che non contesta la interpretazione che il Tar ha fornito del disposto di cui agli artt. 17 e 31 della legge regionale F.V.G.n. 42/1996 - continua a sostenere la illogicità della tesi affermata dal primo giudice, in quanto dette norme avrebbero “espropriato” i Consigli comunali delle proprie prerogative.
La censura, così come è formulata, sembrerebbe preludere ad una prospettazione di vizi di legittimità costituzionale, che però non è contenuta nei motivi di appello.
La critica appellatoria in ogni caso, anche nei termini generici in cui è formulata, non appare accoglibile.
La L.R. 30-9-1996 n. 42 (recante norme in materia di parchi e riserve naturali regionali), all’art. 17 così dispone:
“1. L'Organo gestore provvede alla redazione del P.C.S., ovvero all'adeguamento del P.C.S. esistente ai contenuti della presente legge . Il P.C.S. è adottato, con apposita deliberazione, dall'Ente parco di cui all'articolo 19 o dall'organo gestore della riserva di cui all'articolo 31, di seguito denominati organo gestore.
2. Successive rielaborazioni e varianti del P.C.S., eventualmente necessarie, sono redatte dall'organo gestore ed adottate con apposita deliberazione.
3. Per la redazione delle parti specialistiche del P.C.S. o relative varianti, l'Amministrazione regionale o l'organo gestore, qualora non dispongano di specifiche professionalità, possono, in via eccezionale, ricorrere ad incarichi di consulenza esterni.
4. Nel caso di un parco o di una riserva già dotati di piano finanziato ai sensi della legge regionale n. 11 del 1983, l'Amministrazione regionale utilizza gli elaborati esistenti per le finalità del presente articolo.
5. Dopo l'adozione, il P.C.S. viene depositato presso la segreteria comunale di ognuno dei comuni compresi nel perimetro del parco o riserva per la durata di trenta giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prenderne visione e di presentare all'organo gestore, che le trasmette all'Amministrazione regionale ed ai comuni interessati, le proprie osservazioni e, se proprietario di immobili vincolati, le proprie opposizioni.
6. L'effettuato deposito è reso noto al pubblico con la pubblicazione dell'avviso sul Bollettino Ufficiale della Regione e con l'annuncio su almeno due quotidiani maggiormente diffusi nell'area territoriale del parco o riserva.
7. Nei sessanta giorni successivi al termine di deposito, i Consigli comunali esprimono le proprie valutazioni sul P.C.S. e sulle osservazioni ed opposizioni presentate e le trasmettono all'organo gestore che si esprime in merito. L'organo gestore provvede direttamente ad apportare le modificazioni al P.C.S. ritenute accoglibili .
8. Il P.C.S. è approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale, previa deliberazione della Giunta stessa, su proposta dell'Assessore regionale ai parchi e previo parere del Comitato tecnico-scientifico di cui all'articolo 8.
9. Il decreto del Presidente della Giunta regionale è depositato presso la segreteria dei comuni compresi nel perimetro del parco o della riserva, disponibile alla libera visione del pubblico, ed è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione”
Il successivo art. 31, invece, prevede quando di seguito:
“1. La Regione, con Delib.G.R., individua quale organo gestore delle riserve naturali regionali, previa verifica della disponibilità ad assumere le funzioni di gestione delle medesime:
a) il Comune ovvero i Comuni territorialmente competenti che esercitano la gestione in forma singola o associata, avvalendosi delle forme associative previste dagli articoli 21 e seguenti, della legge regionale 9 gennaio 2006, n. 1;
b) gli Enti parco di cui all'articolo 19 con competenza su aree protette con caratteristiche similari;
c) altri soggetti pubblici o privati con competenze idonee all'esercizio delle funzioni.
2. Qualora la Regione non abbia individuato l'organo gestore, alla gestione delle riserve naturali regionali provvede la struttura regionale competente in materia di ambienti naturali e biodiversità, la quale può delegare la gestione, anche di singole funzioni, ai soggetti di cui al comma 1, lettere a), b) e c) e stipulare convenzioni con i medesimi per l'esercizio delle funzioni delegate.
3. La gestione comprende in particolare:
a) l'attuazione delle leggi istitutive, dei piani e del regolamento;
b) la predisposizione di appositi piani annuali e pluriennali per la gestione della fauna e degli habitat naturali, la divulgazione e l'educazione ambientale, la manutenzione ordinaria e straordinaria dei beni utilizzati dall'organo gestore della riserva;
c) la redazione dei piani e progetti necessari, nonché la formulazione dei pareri di cui all'articolo 19;
d) altre attività concordate con l'Amministrazione regionale.
4. La Regione approva, con Delib.G.R., il provvedimento di riparto delle risorse finanziarie per l'esercizio di riferimento tenendo conto degli obiettivi di conservazione e promozione della riserva naturale regionale formulati dall'organo gestore in coerenza con le finalità della legge di cui all'articolo 1.
5. Gli organi gestori delle riserve individuati con accordi di programma vigenti sino all'entrata in vigore della legge regionale 29 dicembre 2011, n. 18 (Legge finanziaria 2012) o con legge regionale sono confermati e svolgono le funzioni di gestione conferite. Le convenzioni vigenti sino all'entrata in vigore della legge regionale n. 18/2011 restano efficaci tra le parti fino alla loro scadenza.”.
Ritiene il Collegio di evidenziare immediatamente che, stante la peculiarità dei compiti gestori dei parchi e delle riserve naturali, appare pienamente comprensibile che agli stessi sia affidata detta attività, e che la stessa sia comprensiva di aspetti “urbanistici”: il principio appare omogeneo rispetto a quello dettato dalla Legislazione nazionale in materia (vedasi legge quadro) ed armonico alle affermazioni giurisprudenziali (ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 18-09-2013, n. 4660, della quale si riportano di seguito alcune significative affermazioni: “l'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ben può rilevare anche la violazione di regole derivanti dagli strumenti aventi una valenza urbanistica. Le regole urbanistiche in qualsiasi modo limitative dell'edificazione - ad es., quelle sul cd. lotto minimo, quelle che comunque vietano o limitano l'antropizzazione - contribuiscono alla salvaguardia del territorio e dunque dell'ambiente e, se riguardano aree sottoposte al vincolo paesaggistico, contribuiscono a determinare il concreto regime giuridico del bene tutelato. Ne consegue che l'autorità statale, preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, deve tenere conto di tale regime giuridico e constatare la preclusione normativa alla modifica dello stato dei luoghi, anche se essa non è stata tenuta in considerazione da altre autorità.”).
In disparte tutto ciò, la volontà del Legislatore regionale è stata chiarissima nell’affidare all’Organo gestore detto complesso di prerogative e tale discrezionalità non appare abnormemente esercitata.
Parte appellante si duole (nei generici termini già segnalati) della sostanziale “estromissione” dei Comuni, il cui territorio ricade nell’area soggetta a riserva, da tale processo decisionale ed invoca l’art. 118 della Costituzione ed i principi di cui allo Statuto “speciale” della Regione Friuli: con ciò cadendo in una petizione di principio, sia perché è stato proprio il Legislatore regionale ad articolare la detta normativa, sia soprattutto perché la stessa appare non dissimile da quella nazionale.
Quest’ultima, infatti, tiene conto della (quantomeno) equiordinazione dei valori paesaggistici rispetto alle prerogative dello sviluppo e della programmazione urbanistica; la giurisprudenza (Cons. Stato Sez. VI, 10-12-2012, n. 6292), in via di principio, è pervenuta alla significativa affermazione per cui “ai sensi dell' art. 12, comma 7, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (recante la legge quadro sulle aree protette) il piano del parco ha effetto di dichiarazione di pubblico generale interesse e di urgenza e di indifferibilità per gli interventi in esso previsti e sostituisce ad ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni altro strumento di pianificazione. Le prescrizioni del piano del parco hanno pertanto netta e automatica prevalenza sulle disposizioni contenute negli altri strumenti urbanistici, avendole la legge munite di una speciale sovraordinazione ed efficacia sostitutiva immediata rispetto agli altri atti di pianificazione urbanistica.”
Lddove si consente (financo) che i detti piani prevalgono sulla formazione secondaria di esclusiva matrice comunale, non si vede come si possa dubitare della legittimità e ragionevolezza (o, più correttamente, della non abnormità e/o incompatibilità costituzionale) delle richiamate prescrizioni della legge regionale friulana.
Non si può trascurare, poi, che i componenti dell’organo gestorio erano proprio i Sindaci dei comuni interessati eletti dalla maggior parte della popolazione, e supportati (v’è da ritenere) dalla maggioranza consiliare (e, a cascata, comunque, dalla maggioranza della popolazione avente diritto a voto); il che disinnesca in radice anche le vibranti critiche contenute nell’atto di appello incentrate sulla pretermissione della volontà espressa dai cittadini su dette scelte .
Una volta che la legge affida ai rappresentanti degli Enti territoriali coinvolti il compito di adottare tali delicate scelte tecniche, è fisiologico che ci si trovi al cospetto di una forma di rappresentanza meno “immediata” (o, se si vuole, di secondo grado): ciò non significa certo, però, che sia ravvisabile alcuna “espropriazione” delle funzioni amministrative affidate agli Enti territoriali.
Tale articolazione del primo mezzo va quindi disattesa.
3.3. Non miglior sorte merita la seconda censura.
L’Organo gestorio della riserva (formato dai quattro sindaci dei comuni interessati) ha disatteso il parere contrario del Consiglio comunale di Staranzano: l’appellante, oltre a formulare considerazioni ripetitive della censura prima esaminata (sostanzialmente chiedendosi, in termini retorici, come sia possibile che un Collegio composto da soli quattro soggetti disattenda indicazioni di un Comune), sostiene che una simile scelta avrebbe richiesto una approfondita motivazione.
3.3.1. Alle considerazioni rese dal primo giudice – pienamente condivisibili dal Collegio, che le richiama integralmente, in quanto nella sostanza non smentite da parte appellante - deve aggiungersi un ulteriore argomento: l’intero impianto dell’attività amministrativa si sostanziava nel presupposto che dovessero espropriarsi (anche per l’esborso che ciò avrebbe comportato) soltanto le aree strettamente necessarie ai fini protettivi dell’ambiente e del paesaggio.
E quelle “relitte” di parte appellante (ma l’argomento sarà meglio approfondito nella seconda parte dell’iter motivo della presente decisione) non lo erano.
A fronte di un simile punto di partenza, il voto sul parere contrario espresso del Consiglio comunale di Staranzano è più che sufficiente a documentare l’intendimento di quel, pur ristretto, Collegio decidente.
Peraltro parte appellante trascura una importante circostanza: nel caso di specie trattavasi di un parere contrastante con una proposta già avanzata e non già del primo atto di impulso della procedura.
All’evidenza il voto contrario manifestava l’intendimento di non considerare superate le ragioni sottese alla proposta a monte: non pare che dovesse essere necessaria alcuna approfondita esternazione, mentre è provato che la deliberazione e discussione vi fu.
Tanto basta a sostenere il giudizio di legittimità dell’azione amministrativa spiegata: pare al Collego che anche tale profilo di critica non possa essere condiviso.
3.4. Neppure pare decisivamente supportato il motivo incentrato sulla “mutevole composizione dell’Organo”(punto 1.3. dell’appello): l’appellante cita un caso in cui vi fu unanimità del voto dei presenti e, dato atto della presenza del Dott. Perco, direttore della Riserva, trae da ciò spunto per ipotizzare che questi abbia votato, e che pertanto la manifestazione collegiale sia viziata.
3.4.1.Senonchè, da un canto l’indicazione contenuta nel verbale e surriportata non è semanticamente dimostrativa di alcunché, in quanto la unanimità dei presenti può essere riferita alla posizione dei soggetti presenti legittimati ad esprimere il voto, e non di tutti coloro i quali, per avventura, avessero assistito alle sedute dell’Organo, seppur non legittimati ad esprimere alcuna determinazione volitiva.
Ciò appare decisivo per respingere la censura.
3.4.2. Secondariamente (ma con altrettanto rilievo) appare agevole porre in luce che a fronte di un voto unanime non è dato ipotizzare alcuna decisività nel “voto” eventualmente espresso da un soggetto non legittimato. E semmai, la problematica si sarebbe potuta porre in relazione alla necessità (nel caso in esame radicalmente esclusa dall’esito unanime) di una prova di resistenza.
La nota giurisprudenza “tradizionale”, in punto di violazione di obbligo di astensione, (ex aliis T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, 27-05-1997, n. 308 “l'obbligo di astensione ex art. 290 -t.u. com. prov., r.d. 4 febbraio 1915 n. 148- si basa su un principio assoluto, correlato ai canoni costituzionali d'imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 cost., sicché il relativo vizio di mancata astensione non può essere superato nemmeno dalla c.d. prova di resistenza -cioè dal permanere del quorum della deliberazione anche escludendo il voto del membro illegittimamente non astenutosi-, poichè la sola presenza in aula dell'obbligato all'astensione è atta ad influenzare il deliberato ed a deviare la statuizione dell' organo collegiale dall'imparzialità cui dovrebbe sempre attenersi l'operato dell'amministrazione.” ), non è invocabile nel caso di specie, laddove si ipotizza la speculare ipotesi che al voto abbia partecipato un non legittimato.
Essa infatti fa riferimento alla irregolare partecipazione al voto di un soggetto stabilmente inserito nell’organo (ed in teoria pienamente legittimato ad esprimere un voto) ed in grado quindi di spiegare una possibile influenza “perturbativa”.
Influenza, questa, certamente non esercitabile (salvo ciò che si dirà di seguito) dal terzo estraneo che si sia trovato a “presenziare”alla riunione e magari, seppur non legittimato, abbia “votato”, aderendo all’una od all’altra “proposta” posta in votazione.
In altre parole: in sede di deliberazione sarebbe ovviamente auspicabile che il voto venga espresso soltanto dai soggetti legittimati, in quanto componenti di un organo.
Per avventura, laddove accada (come pare ipotizzare l’appellante) che alle sedute dello stesso sia stato consentito di assistere ad altri soggetti, non legittimati, ed alle votazioni abbiano “partecipato” detti soggetti non legittimati, ciò non integra,ex se irregolarità dirimente, ove l’esito della votazione non appaia numericamente influenzata da tali espressioni di voto.
Eccezionalmente, in teoria, potrebbero ipotizzarsi situazioni concrete contrastanti con quanto sinora affermato: e ciò nel solo caso in cui si provasse che l’influenza della “espressione di voto” del soggetto esterno e non legittimato abbia decisivamente influenzato il modo di votare dei soggetti legittimati (ad esempio perché intimiditi, impauriti, condizionati, etc).
Ma nulla di tutto ciò è stato neppure ipotizzato da parte appellante, di guisa che la censura deve essere disattesa.
4. Passando alla disamina delle censure sostanziali, giova al Collegio in primo luogo riportare un breve passaggio di una recente decisione della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. Unite, 01-12-2010, n. 24303, ancor più di recente ribadita da Cass. civ. Sez. I, 03-07-2013, n. 16616, ma si veda anche Cass. 4 novembre 2005 n. 21401) che dimostra la recessività ed infondatezza della critica avanzata da parte appellante.
Il giudice di legittimità, nel ricostruire giuridicamente l’istituto invocato da parte appellante, così ebbe ad esprimersi nelle surrichiamate pronunce: “la L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 20 (abrogato dal D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 58 a decorrere dal 30 giugno 2003; abrogazione ribadita dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 24 con la decorrenza prevista dal medesimo art. 24, comma 1) - a mente del quale "a richiesta dei proprietari debbono pure comprendersi fra i beni da acquistarsi dagli esecutori dell'opera le frazioni residue degli edifici e terreni, in parte soltanto segnate nel piano di esecuzione, qualora le medesime siano ridotte per modo da non poter più avere pel proprietario una utile destinazione, o siano necessari lavori considerevoli per conservarle od usarne in modo profittevole" -, invero (Cass., un., 26 settembre 1997 n. 9478), attribuisce all'espropriato una posizione di mero di interesse legittimo, non già di diritto soggettivo, atteso il carattere discrezionale delle valutazioni necessarie per l'applicazione della menzionata disposizione normativa, la quale presuppone e richiede, oltre l'accertamento della solo parziale inclusione dei fondi nel piano d'esecuzione, anche la valutazione della loro inutilità in relazione alla estensione o della necessità di lavori considerevoli: di conseguenza il giudice ordinario è carente del potere di conoscere sia dell'adempimento in forma specifica del preteso obbligo di estensione che della connessa responsabilità dell'espropriante.
L'eventuale decremento di valore derivato alla frazione residua dall'esecuzione dell'opera pubblica, peraltro (Cass., 1^, 18 febbraio 2000 n. 1806 nonchè 4 giugno 1981 n. 3603), può essere fatto valere dal proprietario (solo) in sede di opposizione alla stima, quale diritto ad un'indennità comprensiva del suddetto decremento.
Da tali principi - da ribadire in assenza di qualsiasi argomentazione contraria - discende che deve negarsi la sussistenza, "per l'Ente espropriante", sia dell'"obbligo ... di acquisire agli espropri le superficie residue" che di quello di "corrispondere un qualche indennizzo per la perdita del relativo reddito", diverso dalla ed in aggiunta alla indennità di espropriazione "accettata".”
4.1. L’attualità di tale insegnamento, dal quale il Collegio non ravvisa alcuna decisiva ragione per discostarsi, implica la reiezione anche della seconda censura.
Non esprimono un principio diverso :
- né l’art.16 della L.R.. 30-9-1996 n. 42 (“1. Le attività agricole e silvo-pastorali rientrano tra le economie locali da qualificare e valorizzare nelle aree protette di cui all'articolo.
2. I P.C.S., al fine di consentire la continuità delle attività di cui al comma 1, devono tener conto prioritariamente:
a) per le attività agricole:
1) delle colture e degli allevamenti esercitati al momento dell'istituzione dell'area protetta per i quali deve essere garantita l'economicità aziendale;
2) della possibilità di aprire o ampliare le strade finalizzate alle attività agricole;
3) della possibilità di intervenire per la manutenzione ordinaria e straordinaria, per il ripristino e il restauro conservativo e per la nuova costruzione di fabbricati rurali e delle relative pertinenze, nel rispetto delle vigenti normative urbanistiche;
b) per le attività silvo-pastorali:
1) delle zone destinate a pascolo e delle zone forestate al momento dell'istituzione dell'area protetta;
2) della gestione dei pascoli e dei boschi, nel rispetto delle vigenti normative nazionali e regionali in materia;
3) della possibilità di aprire o ampliare le strade finalizzate alle attività silvo-pastorali;
4) della possibilità di intervenire per la manutenzione ordinaria e straordinaria, per il ripristino e il restauro conservativo e per la nuova costruzione di fabbricati rurali e delle relative pertinenze, nel rispetto delle vigenti normative urbanistiche.
3. Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione nell'ambito delle procedure di cui all'articolo 17, comma 1, limitatamente alle zone RG e RP dei P.C.S. dei parchi e sino alla prima verifica di cui all'articolo 3, comma 3”), in combinato-disposto con l’art. 17 che si è prima citato;
- né l’art. 16 comma 11 del T.U. Espropriazioni (“Nei casi previsti dall'articolo 12, comma 1, il proprietario dell'area, nel formulare le proprie osservazioni, può chiedere che l'espropriazione riguardi anche le frazioni residue dei suoi beni che non siano state prese in considerazione, qualora per esse risulti una disagevole utilizzazione ovvero siano necessari considerevoli lavori per disporne una agevole utilizzazione.”).
Il privato, infatti “può chiedere”: ma tale richiesta può essere soddisfatta soltanto se l’estensione non risulti pregiudizievole per l’Amministrazione. Ee certamente ciò non è laddove la stessa, per soddisfare la richiesta privata, si veda “costretta” a divenire proprietaria di un compendio del tutto inutile al soddisfacimento dei fini pubblicistici sottesi all’esercizio della potestà ablatoria.
E’ ben vero che gli interessi dell’Amministrazione pubblica (e per essa dell’Autorità espropriante) vanno contemperati con quelli dei privati proprietari espropriati: ma ciò postula il rispetto del minor sacrificio possibile per questi ultimi.
L’aggettivo “possibile” non può certo essere inteso in termini così spinti da postulare che l’Amministrazione espropri (e paghi) porzioni di aree del tutto inutili od inservibili per gli scopi cui l’attività ablatoria è destinata.
Ciò parrebbe pretendere l’appellante, laddove - pur ammettendo che le aree de quibus non siano decisive per gli scopi di conservazione del Piano – pretenderebbe che le stesse vengano comunque acquisite alla mano pubblica perché egli non saprebbe cosa farsene, in quanto tali suoli non sarebbero coltivabili, e sarebbero difficilmente raggiungibili.
Ma così opinando si sposta del tutto l’asse delle valutazioni che devono presiedere alla scelta, e si postula un obbligatorio “sacrificio totale” a carico dell’Erario pubblico, il che, certamente, è principio non desumibile dalle norme di legge suindicate.
4.2. Le restanti articolazioni della seconda censura ed il terzo motivo di doglianza, reiterano un convincimento che il Collegio ha già dimostrato di non condividere: in particolare non appare rilevante dimostrare quali siano state, in passato, le opzioni amministrative sul punto.
Ciò che è certamente esatto è il principio per cui laddove aree reliquate non rivestano alcun interesse per i pubblici scopi sottesi all’esercizio del potere espropriativo, l’Amministrazione non può essere obbligata ad acquisirle: e ciò anche laddove la mancata acquisizione crei un indiretto danno al privato, che resta proprietario di spezzoni di area non proficuamente utilizzabili.
4.3.Né parte appellante può essere seguita laddove (censure 3.1. e 3.2) pretende di sostituirsi (peraltro mercé affermazioni apodittiche ed indimostrate) alle determinazioni amministrative e si spinge a sostenere (in assenza di alcun supporto tecnico) che anche i reliquati si sarebbero dovuti ritenere funzionali alla realizzazione della Riserva della Foce dell’Isonzo.
4.4. Quanto (motivo 3.3. dell’atto di appello) alla circostanza che il Comune di Staranzano aveva chiesto l’apertura di un approdo su una delle aree (mappale 776/4) reliquate - oltre alla ovvia deduzione del primo giudice secondo cui tale richiesta avanzata “singulatim” da un Comune non poteva indurre a ravvisare contraddittorietà alcuna della scelta demandata all’Organo procedente (diverso, lo si ripete, dal Comune che aveva avanzato la richiesta) - evidenzia il Collegio che non pare che la detta circostanza sia dimostrativa di alcunché di rilevante.
Invero lo stesso Comune di Staranzano si era limitato a chiedere la concessione di un approdo, ma non aveva manifestato certo l’esigenza che l’intera particella fosse acquisita: ciò comprova vieppiù che la stessa non era né utile, né indispensabile alla Riserva Naturale.
In ultimo, la reiezione della censura n. 3.4. si impone per le medesime ragioni sinora illustrate: le risorse economiche erariali non costituiscono un dato inesauribile, e non possono essere impiegate se non per perseguire fini primari.
Nel caso di specie, all’evidenza, l’Amministrazione ha perseguito il fine di acquisire le aree indispensabili alla Riserva; e fruibili dal pubblico.
Tali non erano quelle ubicate ai margini dell’alveo fluviale e, quindi, appare conseguente e logica la scelta di non espropriarle: la parte odierna appellante esprime auspici ed ipotizza iniziative (la futura bonifica delle stesse da parte delle pubbliche amministrazioni) sollecitando un sindacato di merito non consentito: ma essa stessa, non contestando decisivamente il giudizio di inutilità espresso dall’Amministrazione (ai fini “fruibilità-riserva”), introduce elementi non favorevolmente delibabili e sottratti al sindacato di legittimità.
5. Alla stregua delle superiori considerazioni l’intero appello va disatteso, fermo restando che, in sede di determinazione dell’indennità, in base alla disposizione dell'art. 40, della l. n. 2359 del 1865 (la quale prevede che, in sede d'opposizione alla stima, si deve tener conto della diminuzione dell'area residua), l’amministrazione dovrà tenere conto di tale circostanza, che comunque potrebbe essere fatta valere dall’appellante inella predetta sede oppositoria (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 30-09-2013, n. 4871 e Cass. civ. Sez. I, 21-03-2013, n. 7195: “In tema di espropriazione parziale, l'indennità di espropriazione calcolata sulla base del valore venale delle aree espropriate deve tenere conto dell'ulteriore pregiudizio subito dall'espropriato per la minore volumetria realizzabile sulle residue aree rimaste di sua proprietà).
6. Nessuna statuizione è dovuta sulle spese di giudizio stante la mancata costituzione in giudizio delle parti appellate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Giuseppe Castiglia, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 24/11/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)