Cass. Sez. III n. 4697 del 4 febbraio 2020 (UD  2 ott 2019)
Pres. Liberati Est. Zunica Ric. Bassi
Beni ambientali.Delitto paesaggistico e computo volumetrie

I parametri dimensionali richiesti ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa di cui al comma 1 bis del d. lgs. n. 42 del 2004, vanno apprezzati considerando che il complessivo aumento delle volumetrie, nell’ottica della verifica del loro computo, deve essere riferito anche al naturale sviluppo del manufatto desumibile dalla tipologia degli interventi già in concreto realizzati, a prescindere dal definitivo completamento delle opere.


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 17 maggio 2013, il Tribunale di Napoli, Sezione distaccata di Ischia, all’esito di rito abbreviato, condannava Sabato Bassi alla pena di mesi 8 e giorni 20 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole dei reati di cui agli art. 44 lett. C) del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo A), nonché 181 comma 1 bis del d.lgs. n. 42 del 2004 (capo B), a lui contestati perché, quale legale rappresentate della società “I Faraglioni s.r.l.”, affittuaria del ramo di azienda includente il complesso immobiliare sito in Forio di Ischia, alla via Provinciale Lacco, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e dichiarata di notevole interesse pubblico, proseguiva i lavori abusivi per i quali era stata già esercitata l’azione penale, costruendo, su un fabbricato di circa mq. 434, una struttura di cemento armato con travi e pilastri in latero cemento, realizzando un muro cementizio di calpestio per una superficie di circa mq. 270 con livellamento con malta, nonché l’increspatura ai pilastri e ai soffitti e la schermatura lungo due lati con pagliarelle e piante ornamentali, e inoltre continuava la costruzione di un fabbricato di mq. 288, costituito da 9 pilastri e copertura di legno lamellare, mediante posa in opera di massetto cementizio, fatti accertati in Forio di Ischia l’11 agosto 2011.   
Con sentenza del 21 novembre 2017, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava non doversi procedere in ordine al reato ex art. 44 lett. C) del d.P.R. n. 380 del 2001, perché estinto per prescrizione e, per l’effetto, rideterminava la pena, per il residuo reato di cui al capo B), in mesi 8 di reclusione, confermando nel resto la sentenza del Tribunale.  
2. Avverso la sentenza della Corte di appello partenopea, Bassi, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
Con i primi due, esposti congiuntamente, la difesa contesta la violazione degli art. 125 comma 3, 192, 546, 598 e 605 cod. pen., 133 cod. pen., 3 e 27 Cost. e 181 comma 1 bis del d. lgs. n. 42 del 2004, osservando che, a seguito della sentenza n. 56 del 2016 della Corte Costituzionale, la condotta dell’imputato doveva essere inquadrata non nell’ambito della fattispecie delittuosa di cui all’art. 181 comma 1 bis del d.lgs. n. 42 del 2004, ma nella corrispondente ipotesi contravvenzionale di cui al comma 1 del medesimo articolo, con conseguente declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
Ed invero la Corte di appello non avrebbe considerato che le opere abusivamente realizzate dall’imputato (massetto cementizio di calpestio per una superficie di 270 mq. all’interno di un preesistente fabbricato, e massetto cementizio su un preesistente fabbricato di 288 mq.) non sono computabili in termini di volume e non rientrano nei parametri previsti dalla previsione delittuosa, non essendovi stato in ogni caso alcun aumento volumetrico dei manufatti esistenti superiore al 30%, come, invece è stato sostenuto erroneamente dalla Corte di appello.
Con il terzo motivo, oggetto di doglianza è il vizio di motivazione della sentenza impugnata, oltre che il travisamento delle prove rispetto alla riferibilità a Bassi delle opere abusive, avendo la Corte di appello omesso di considerare che, come accertato dai Carabinieri di Forio e dall’Ufficio Tecnico comunale, al momento del sopralluogo dell’agosto 2011 non vi erano lavori in atto, il che smentiva la deduzione dei giudici di appello secondo cui i lavori a quell’epoca erano in corso, tanto più ove si consideri che le aree presso le quali erano stati realizzati i massetti erano utilizzate come deposito e, solo per questa ragione, era stato ivi allocato il materiale edilizio, peraltro unitamente ad altre suppellettili, come tavoli e sedie.
Con il quarto motivo, infine, il ricorrente deduce la violazione degli art. 546 comma 1 lett. E) e 598 cod. proc. pen., lamentando l’omessa valutazione da parte della Corte di appello degli elementi probatori indicati dalla difesa, come l’informativa dei Carabinieri di Forio e la relazione dell’Ufficio Tecnico di Forio dell’11 agosto 2011, che portavano a escludere il presupposto dell’affermazione della penale responsabilità, ovvero che l’imputato fosse il committente delle opere.

CONSIDERATO IN DIRITTO

      Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
1. Premesso che i motivi di ricorso possono essere trattati in maniera unitaria, perché tra loro sovrapponibili, occorre evidenziare che il giudizio sulla colpevolezza dell’imputato in ordine al residuo reato di cui all’art. 181 comma 1 bis del d. lgs. n. 42 del 2004 (capo B) non presta il fianco alle censure difensive.
Ed invero, prima di soffermarsi sulla qualificazione giuridica del reato, deve premettersi che le due sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un corpus motivazionale unitario, hanno adeguatamente ricostruito i fatti di causa, richiamando in primo luogo gli esiti del sopralluogo eseguito l’11 agosto 2011 dai Carabinieri di Forio presso il complesso immobiliare-alberghiero “Garden and villas report”, sito alla via Provinciale Lacco n. 210.
Dal controllo, svolto dalla presenza di personale dell’Ufficio Tecnico comunale, emergeva che rispetto al fabbricato di 434 mq., già sequestrato il 24 marzo 1999 e dissequestrato il 2 giugno 2003 e adibito a deposito, erano stati eseguiti ulteriori lavori abusivi, consistiti nella realizzazione di un massetto cementizio di calpestio per una superficie di 270 mq., con increspatura ai pilastri e al soffitto.
La prosecuzione dell’attività edilizia abusiva aveva riguardato anche un altro manufatto, già sequestrato l’11 marzo 2006 e dissequestrato il 9 giugno 2009, destinato parte a deposito e parte a punto di raccolta differenziata di rifiuti provenienti dall’albergo, dove veniva accertato il livellamento del calpestio interno con malta per 288 mq., anche se in quel momento non vi erano lavori in corso.
Veniva altresì acquisito, durante il sopralluogo, il contratto di fitto di ramo d’azienda del 5 agosto 2010, registrato il giorno successivo, intervenuto tra la società proprietaria locatrice “Le Carrube”, in persona del legale rappresentante Giacomo Polito, e la società “I Faraglioni s.r.l.”, in persona del legale rappresentante Sabato Bassi, contratto che, tra l’altro, conferiva a quest’ultima società il possesso e la gestione del complesso immobiliare oggetto di verifica, che dunque, già da un anno prima del sopralluogo, era nella disponibilità della società amministrata da Bassi, la quale peraltro, il 4 agosto 2011, ovvero pochi giorni prima dell’accertamento, acquisiva anche la proprietà dei cespiti immobiliari, il che ha ragionevolmente portato i giudici ad affermare la riconducibilità degli interventi abusivi all’odierno ricorrente, a nulla rilevando che, al momento del sopralluogo, i lavori non fossero in corso, posto che la presenza di materiali edilizi in loco, visibile dai rilievi fotografici (sacchi di cemento e di calce aperti) confermava che i lavori fossero ancora in itinere, anche se non in fase di svolgimento il giorno del controllo, essendo inverosimile che, come sostenuto dal teste della difesa Tommaso Castaldi,
quei sacchi, poggiati su una pedana di legno, fossero rimasti aperti da così tanto tempo all’interno di un deposito grezzo, unitamente a numerose tavelle di legno.
E ciò senza considerare che entrambi gli immobili non erano stati affatto ultimati, essendo gli stessi privi di tompagnature laterali, sostituite da semplici e precarie schermature costituite da “pagliarelle”, ciò a riprova della risalenza delle opere a epoca prossima al giorno del sopralluogo, non potendosi ricavare dalla sola natura di deposito dei locali la conclusione che gli stessi non sarebbero stati completati.
Orbene, la ricostruzione dei fatti di causa e l’ascrivibilità degli interventi abusivi all’odierno imputato, oltre ad essere scaturite da un’adeguata disamina delle risultanze investigative confluite nel giudizio abbreviato, risultano sorrette da considerazioni prive di profili di illogicità, dovendosi solo aggiungere che la Corte territoriale non si è limitata a richiamare il percorso argomentativo della sentenza di primo grado, ma lo ha sviluppato con un contributo critico autonomo.
Né può sottacersi che le censure difensive risultano prospettate in termini non adeguatamente specifici, anche rispetto al dedotto travisamento della prova, che invero non risulta in ogni caso ravvisabile, non essendovi nelle due sentenze di merito contenuti distonici rispetto al tenore dell’informativa dei Carabinieri di Forio dell’11 agosto 2011 e alla contestuale relazione redatta dall’Ufficio Tecnico: in particolare, i giudici di merito non hanno affatto equivocato la circostanza che i lavori non fossero in corso il giorno dell’accertamento, ma hanno ragionevolmente affermato che ciò non significava che le opere abusive risalissero a un anno prima, atteso che le evidenze disponibili erano sintomatiche dell’attualità dei lavori.
      2. Ciò posto, deve infine evidenziarsi che anche la qualificazione giuridica della condotta, rispetto al residuo reato di cui al capo B (art. 181 comma 1 bis del d. lgs. n. 42 del 2004), non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
In proposito, deve premettersi che, con la sentenza n. 56 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1 bis, nella parte in cui lo stesso prevede : «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed»; da ciò consegue che rientrano oggi nell’art. 181, comma 1 bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, unicamente i lavori «che abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi».
Orbene, i giudici di merito, in maniera non irrazionale, hanno ritenuto che le opere abusive ascrivibili a Bassi fossero idonee a integrare la fattispecie delittuosa e non quella contravvenzionale, valorizzando in tal senso le caratteristiche volumetriche degli interventi, atteso che, nel fabbricato di 434 mq., veniva realizzata un’opera di massetto cementizio di calpestio per una superficie di mq. 270 e altezza interna pari a 4 mt., mentre l’altro manufatto è stato oggetto di un livellamento del calpestio interno con malta per una superficie di 288 mq., con 4 mt. di altezza.
Alla luce di tali incrementi, di per sé idonei a creare maggiori volumi, i parametri dimensionali richiesti ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa di cui al comma 1 bis del d. lgs. n. 42 del 2004, sono stati quindi ritenuti ragionevolmente integrati, dovendosi solo precisare che il complessivo aumento delle volumetrie, nell’ottica della verifica del loro computo, deve essere riferito anche al naturale sviluppo del manufatto desumibile dalla tipologia degli interventi già in concreto realizzati, a prescindere dal definitivo completamento delle opere.
Non può poi ritenersi pertinente il rilievo difensivo secondo cui gli incrementi volumetrici non sarebbero indicati nella descrizione della fattispecie, posto che il capo B rinvia espressamente, quanto all’indicazione dei lavori abusivi, al contenuto del capo A, dove le dimensioni degli interventi risultano compiutamente specificati, e ciò prima ancora che intervenisse la già menzionata sentenza della Consulta
Di qui l’infondatezza della censura difensiva, formulata invero in termini assertivi.
4. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso di Bassi deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 02/10/2019