Corte di Giustizia (Grande Sezione) 9 marzo 2010
«Principio “chi inquina paga” – Direttiva 2004/35/CE – Responsabilità ambientale – Applicabilità ratione temporis – Inquinamento anteriore alla data prevista per il recepimento di detta direttiva e proseguito dopo tale data – Normativa nazionale che imputa i costi di riparazione dei danni connessi a detto inquinamento a una pluralità di imprese – Requisito del comportamento doloso o colposo – Requisito del nesso di causalità – Appalti pubblici di lavori»
SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione)
9 marzo 2010 (*)
«Principio “chi inquina paga” – Direttiva 2004/35/CE – Responsabilità ambientale – Applicabilità ratione temporis – Inquinamento anteriore alla data prevista per il recepimento di detta direttiva e proseguito dopo tale data – Normativa nazionale che imputa i costi di riparazione dei danni connessi a detto inquinamento a una pluralità di imprese – Requisito del comportamento doloso o colposo – Requisito del nesso di causalità – Appalti pubblici di lavori»
Nel procedimento C‑378/08,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, con decisione 5 giugno 2008, pervenuta in cancelleria il 21 agosto 2008, nelle cause
Raffinerie Mediterranee (ERG) SpA,
Polimeri Europa SpA,
Syndial SpA
contro
Ministero dello Sviluppo economico,
Ministero della Salute,
Ministero Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare,
Ministero delle Infrastrutture,
Ministero dei Trasporti,
Presidenza del Consiglio dei Ministri,
Ministero dell’Interno,
Regione siciliana,
Assessorato regionale Territorio ed Ambiente (Sicilia),
Assessorato regionale Industria (Sicilia),
Prefettura di Siracusa,
Istituto superiore di Sanità,
Commissario Delegato per Emergenza Rifiuti e Tutela Acque (Sicilia),
Vice Commissario Delegato per Emergenza Rifiuti e Tutela Acque (Sicilia),
Agenzia Protezione Ambiente e Servizi tecnici (APAT),
Agenzia regionale Protezione Ambiente (ARPA Sicilia),
Istituto centrale Ricerca scientifica e tecnologica applicata al Mare,
Subcommissario per la Bonifica dei Siti contaminati,
Provincia regionale di Siracusa,
Consorzio ASI Sicilia orientale Zona Sud,
Comune di Siracusa,
Comune di Augusta,
Comune di Melilli,
Comune di Priolo Gargallo,
Azienda Unità sanitaria locale n. 8,
Sviluppo Italia Aree Produttive SpA,
Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa) SpA, già Sviluppo Italia SpA,
con l’intervento di:
ENI Divisione Exploration and Production SpA,
ENI SpA,
Edison SpA,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. J.N. Cunha Rodrigues, K. Lenaerts, J.‑C. Bonichot, dalle sig.re R. Silva de Lapuerta, P. Lindh e C. Toader (relatore), presidenti di sezione, dai sigg. C.W.A. Timmermans, K. Schiemann, P. Kūris, E. Juhász, A. Arabadjiev e J.‑J. Kasel, giudici,
avvocato generale: sig.ra J. Kokott
cancelliere: sig.ra L. Hewlett, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15 settembre 2009,
considerate le osservazioni presentate:
– per la Raffinerie Mediterranee (ERG) SpA, dagli avv.ti D. De Luca, M. Caldarera, L. Acquarone e G. Acquarone;
– per la Polimeri Europa SpA e la Syndial SpA, dagli avv.ti P. Amara, S. Grassi, G.M. Roberti e I. Perego;
– per la Sviluppo Italia Aree Produttive SpA e la Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa) SpA, già Sviluppo Italia SpA, dall’avv. F. Sciaudone;
– per la ENI SpA, dagli avv.ti G.M. Roberti, I. Perego, S. Grassi e C. Giuliano;
– per il governo italiano, dalla sig.ra G. Palmieri, in qualità di agente, assistita dal sig. D. Del Gaizo, avvocato dello Stato;
– per il governo ellenico, dalla sig.ra A. Samoni‑Rantou e dal sig. G. Karipsiadis, in qualità di agenti;
– per il governo olandese, dalle sig.re C. Wissels e B. Koopman nonché dal sig. D.J.M. de Grave, in qualità di agenti;
– per la Commissione delle Comunità europee, dal sig. C. Zadra e dalla sig.ra D. Recchia, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 22 ottobre 2009,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione del principio «chi inquina paga» di cui alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 21 aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (GU L 143, pag. 56), nonché, segnatamente, alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114).
2 Questa domanda è stata presentata nell’ambito di alcune controversie tra le società Raffinerie Mediterranee (ERG) SpA, Polimeri Europa SpA e Syndial SpA, da un lato, e diverse autorità nazionali, regionali e comunali italiane, dall’altro, in merito a misure di riparazione di danni ambientali adottate da dette autorità per quanto concerne la Rada di Augusta, attorno alla quale si trovano gli impianti e/o i terreni delle citate società.
Contesto normativo
Il diritto dell’Unione
3 I ‘considerando’ della direttiva 2004/35, rilevanti ai fini della presente causa, sono del seguente tenore:
«(1) Nella Comunità esistono attualmente molti siti contaminati, che comportano rischi significativi per la salute, e negli ultimi decenni vi è stata una forte accelerazione della perdita di biodiversità. Il non intervento potrebbe provocare in futuro ulteriori contaminazioni dei siti e una perdita di biodiversità ancora maggiore. (…)
(2) (…) Il principio fondamentale della presente direttiva dovrebbe essere quindi che l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile (…).
(…)
(8) La presente direttiva dovrebbe applicarsi, con riferimento al danno ambientale, alle attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente. In linea di principio, tali attività dovrebbero essere individuate con riferimento alla normativa comunitaria pertinente che prevede requisiti normativi in relazione a certe attività o pratiche che si considera presentino un rischio potenziale o reale per la salute umana o l’ambiente.
(9) La presente direttiva dovrebbe inoltre applicarsi, per quanto riguarda il danno causato alle specie e agli habitat naturali protetti, alle attività professionali che non sono già direttamente o indirettamente contemplate nella normativa comunitaria come comportanti un rischio reale o potenziale per la salute umana o l’ambiente. In tali casi l’operatore sarebbe responsabile ai sensi della presente direttiva, soltanto quando vi sia il dolo o la colpa di detto operatore.
(…)
(13) A non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché quest’ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere concreto e quantificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti.
(…)
(24) È necessario assicurare la disponibilità di mezzi di applicazione ed esecuzione efficaci, garantendo un’adeguata tutela dei legittimi interessi degli operatori e delle altre parti interessate. Si dovrebbero conferire alle autorità competenti compiti specifici che implicano appropriata discrezionalità amministrativa, ossia il dovere di valutare l’entità del danno e di determinare le misure di riparazione da prendere.
(…)
(30) La presente direttiva non si dovrebbe applicare al danno cagionato prima dello scadere del termine per la sua attuazione.
(…)».
4 Ai sensi dell’art. 3, n. 1, della direttiva 2004/35, intitolato «Ambito di applicazione», quest’ultima si applica:
«(…)
a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività;
b) al danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle attività professionali non elencate nell’allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività, in caso di comportamento doloso o colposo dell’operatore».
5 L’art. 4, n. 5, di detta direttiva prevede che quest’ultima «si applica al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno causati da inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori».
6 L’art. 6 della medesima direttiva, intitolato «Azione di riparazione», dispone quanto segue:
«1. Quando si è verificato un danno ambientale, l’operatore comunica senza indugio all’autorità competente tutti gli aspetti pertinenti della situazione e adotta:
(…)
b) le necessarie misure di riparazione conformemente all’articolo 7.
2. L’autorità competente, in qualsiasi momento, ha facoltà di:
(…)
c) chiedere all’operatore di prendere le misure di riparazione necessarie;
d) dare all’operatore le istruzioni da seguire riguardo alle misure di riparazione necessarie da adottare; oppure
e) adottare essa stessa le misure di riparazione necessarie.
3. L’autorità competente richiede che l’operatore adotti le misure di riparazione. Se l’operatore non si conforma agli obblighi previsti al paragrafo 1 o al paragrafo 2, lettere (…) c) o d), se non può essere individuato o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della presente direttiva, l’autorità competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure, qualora non le rimangano altri mezzi».
7 Per quanto concerne i costi connessi alla prevenzione e alla riparazione, l’art. 8 della direttiva 2004/35 enuncia quanto segue:
«1. L’operatore sostiene i costi delle azioni di prevenzione e di riparazione adottate in conformità della presente direttiva.
2. Fatti salvi i paragrafi 3 e 4, l’autorità competente recupera, tra l’altro attraverso garanzie reali o altre adeguate garanzie, dall’operatore che ha causato il danno o l’imminente minaccia di danno i costi da essa sostenuti in relazione alle azioni di prevenzione o di riparazione adottate a norma della presente direttiva.
Tuttavia, l’autorità competente ha facoltà di decidere di non recuperare la totalità dei costi qualora la spesa necessaria per farlo sia maggiore dell’importo recuperabile o qualora l’operatore non possa essere individuato.
3. Non sono a carico dell’operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione adottate conformemente alla presente direttiva se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno:
a) è stato causato da un terzo, e si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza, (…)
(…)
In tali casi gli Stati membri adottano le misure appropriate per consentire all’operatore di recuperare i costi sostenuti.
(…)».
8 L’art. 9 di detta direttiva, intitolato «Imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del danno», è del seguente tenore:
«La presente direttiva lascia impregiudicata qualsiasi disposizione del diritto nazionale riguardante l’imputazione dei costi nel caso di pluralità di autori del danno, in particolare per quanto concerne la ripartizione della responsabilità tra produttore e utente di un prodotto».
9 L’art. 11 della medesima direttiva, intitolato «Autorità competente», prevede quanto segue:
«1. Gli Stati membri designano l’autorità competente o le autorità competenti ai fini dell’esecuzione dei compiti previsti dalla presente direttiva.
2. Spetta all’autorità competente individuare l’operatore che ha causato il danno o la minaccia imminente di danno, valutare la gravità del danno e determinare le misure di riparazione da prendere a norma dell’allegato II. A tal fine, l’autorità competente è legittimata a chiedere all’operatore interessato di effettuare la propria valutazione e di fornire tutte le informazioni e i dati necessari.
(…)
4. Le decisioni adottate ai sensi della presente direttiva che impongono misure di prevenzione o di riparazione sono motivate con precisione. Tali decisioni sono notificate senza indugio all’operatore interessato, il quale è contestualmente informato dei mezzi di ricorso di cui dispone secondo la legge vigente dello Stato membro in questione, nonché dei termini relativi a detti ricorsi».
10 L’art. 16 della direttiva 2004/35, intitolato «Relazione con il diritto nazionale», enuncia, nel suo n. 1, che quest’ultima «non preclude agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, comprese l’individuazione di altre attività da assoggettare agli obblighi di prevenzione e di riparazione previsti dalla presente direttiva e l’individuazione di altri soggetti responsabili».
11 L’art. 17 della stessa direttiva, intitolato «Applicazione nel tempo», prevede che quest’ultima non si applica:
«(…)
– al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatosi prima della data di cui all’articolo 19, paragrafo 1;
– al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatosi dopo la data di cui all’articolo 19, paragrafo 1, se derivante da una specifica attività posta in essere e terminata prima di detta data;
– al danno in relazione al quale sono passati più di 30 anni dall’emissione, evento o incidente che l’ha causato».
12 L’art. 19, n. 1, primo comma, di detta direttiva precisa che gli Stati membri dovevano mettere in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla medesima entro il 30 aprile 2007.
13 Il punto 1 dell’allegato III alla direttiva 2004/35 riguarda specificamente il funzionamento di impianti soggetti ad autorizzazione, conformemente alla direttiva del Consiglio 24 settembre 1996, 96/61/CE, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento (GU L 257, pag. 26).
14 Ai sensi dell’art. 1 della direttiva 96/61, quest’ultima ha per oggetto la prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento proveniente dalle attività di cui all’allegato I alla medesima. I punti 2.1 e 2.4 del citato allegato riguardano, rispettivamente, le «attività energetiche» e l’«industria chimica».
Il diritto nazionale
15 Il giudice del rinvio fa riferimento al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, recante attuazione delle direttive 91/156/CEE [del Consiglio 18 marzo 1991, che modifica la direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti] (GU L 178, pag. 32), 91/689/CEE [del Consiglio 12 dicembre 1991,] sui rifiuti pericolosi (GU L 377, pag. 20) e 94/62/CE [del Parlamento europeo e del Consiglio 20 dicembre 1994], sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio (GU L 365, pag. 10) (Supplemento ordinario alla GURI n. 38 del 15 febbraio 1997; in prosieguo: il «d. lgs. n. 22/1997»). Questo decreto è stato abrogato e sostituito con decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale (Supplemento ordinario alla GURI n. 88 del 14 aprile 2006; in prosieguo: il «d.lgs n. 152/2006»), il quale, negli artt. 299‑318, recepisce nell’ordinamento giuridico italiano la direttiva 2004/35.
16 L’art. 17 del d. lgs. n. 22/1997 prevedeva che «(…) chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento (…)».
17 L’art. 9 del decreto ministeriale 25 ottobre 1999, n. 471, recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modifiche e integrazioni (Supplemento ordinario alla GURI n. 293 del 15 dicembre 1999; in prosieguo: il «decreto 471/1999») ha il seguente disposto:
«Il proprietario di un sito o altro soggetto che (…) intenda attivare di propria iniziativa le procedure per gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza, di bonifica e di ripristino ambientale, ai sensi dell’articolo 17, comma 13 bis, del D. lgs. [n. 22/1997], è tenuto a comunicare alla Regione, alla Provincia e al Comune la situazione di inquinamento rilevata nonché gli eventuali interventi di messa in sicurezza di emergenza necessari per assicurare la tutela della salute e dell’ambiente adottati e in fase di esecuzione. La comunicazione deve essere accompagnata da idonea documentazione tecnica dalla quale devono risultare le caratteristiche dei suddetti interventi. (…) Il Comune o, se l’inquinamento interessa il territorio di più comuni, la Regione verifica l’efficacia degli interventi di messa in sicurezza d’emergenza adottati e può fissare prescrizioni ed interventi integrativi con particolare riferimento alle misure di monitoraggio da attuare per accertare le condizioni di inquinamento ed ai controlli da effettuare per verificare l’efficacia degli interventi attuati a protezione della salute pubblica e dell’ambiente circostante (…)».
18 L’art. 311, comma 2, del d. lgs. n. 152/2006 così dispone:
«Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato».
Cause principali e questioni pregiudiziali
19 Le cause principali concernono il territorio di Priolo Gargallo (Sicilia), dichiarato «sito di interesse nazionale ai fini della bonifica», e, in particolare, la Rada di Augusta. Quest’ultima è interessata da fenomeni ricorrenti di inquinamento ambientale la cui origine risalirebbe già agli anni ‘60, quando è stato realizzato il polo petrolchimico Augusta-Priolo-Melilli. Da tale periodo, numerose imprese, operanti nel settore degli idrocarburi e della petrolchimica, si sono installate e/o succedute in questo territorio.
20 La zona ha costituito oggetto di una «caratterizzazione» diretta a valutare lo stato dei terreni, delle falde freatiche, delle acque costiere e dei fondali marini. Conformemente all’art. 9 del decreto n. 471/1999, le imprese insediate nel polo petrolchimico, in qualità di proprietarie delle aree industriali terrestri comprese nel sito di interesse nazionale, hanno presentato progetti di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica della falda, approvati con decreto interministeriale.
21 Mediante diverse misure consecutive e a causa del ritardo contestato alle imprese nell’esecuzione dei progetti di intervento, la pubblica autorità ha ordinato a dette imprese di procedere alla bonifica dei fondali marini della Rada di Augusta, in particolare alla rimozione dei sedimenti contaminati presenti in quest’ultima per una profondità pari a m 2, con l’espressa sanzione che, in caso di inadempienza delle imprese, tali lavori sarebbero stati effettuati d’ufficio, a carico e a spese di queste ultime. In occasione della conferenza preparatoria dei servizi svoltasi il 21 luglio 2006, è stato parimenti deciso di completare le misure precedentemente approvate con la realizzazione di un confinamento fisico della falda.
22 Sostenendo che un’opera del genere era irrealizzabile e le esponeva a costi sproporzionati, le imprese interessate hanno proposto ricorso avverso dette decisioni amministrative in questione dinanzi al giudice del rinvio. Con sentenza 21 luglio 2007, n. 1254, quest’ultimo ha accolto tali ricorsi, dichiarando che gli obblighi di bonifica menzionati erano illeciti poiché non si era tenuto conto, all’atto della loro adozione, né del principio «chi inquina paga», né delle norme nazionali che disciplinano le procedure di bonifica, né del principio del contraddittorio. Inoltre, non si era svolto nessun dibattito con le imprese coinvolte in merito ai presupposti per la realizzazione di una siffatta bonifica.
23 Questa pronuncia è stata impugnata dalle autorità amministrative dinanzi al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia il quale, con ordinanza cautelare 2 aprile 2008, ha considerato dimostrato il fumus boni iuris dell’appello e, in considerazione delle conseguenze dannose connesse al ritardo indotto nell’esecuzione delle misure ordinate dalla pubblica amministrazione, ha disposto la sospensione dell’esecuzione della citata sentenza n. 1254/2007.
24 Successivamente, le autorità amministrative hanno constatato che le misure precedentemente approvate erano inadeguate a porre rimedio all’inquinamento esistente nella Rada di Augusta. A fronte, inoltre, del rifiuto delle società ricorrenti ad ottemperare, il 20 dicembre 2007 la conferenza dei servizi decisoria ha prescritto a queste ultime altre misure, tra le quali figurava la realizzazione di un confinamento la cui esecuzione sarebbe stata affidata alla società Sviluppo Italia Aree Produttive SpA (in prosieguo: la «Sviluppo»). Queste misure sarebbero state confermate in occasione della conferenza dei servizi decisoria svoltasi il 6 marzo e il 16 aprile 2008. Infine, è stato adottato il decreto 21 febbraio 2008, n. 4378, avente ad oggetto un «provvedimento finale di adozione (…) delle determinazioni della conferenza di servizi decisoria relativa al sito di interesse nazionale di Priolo del 20 dicembre 2007» (in prosieguo: il «decreto n. 4378/2008»).
25 Avverso questo decreto nonché contro altri atti amministrativi ad esso correlati, le ricorrenti nelle cause principali hanno proposto nuovamente ricorso dinanzi al giudice del rinvio. In tal sede esse denunciano, in particolare, la circostanza che il progetto accolto, di cui la società Sviluppo ha garantito l’elaborazione e che le è stato attribuito in assenza di gara d’appalto, non avrebbe scopi di tutela ambientale, bensì servirebbe piuttosto alla realizzazione di un’infrastruttura pubblica, ossia la realizzazione di un’isola artificiale all’interno della Rada di Augusta mediante sedimenti contaminati.
26 Il giudice del rinvio sottolinea che, in pronunce precedenti concernenti la medesima controversia, il Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia, in qualità di giudice d’appello, aveva dichiarato, in particolare, che «appare irrilevante (…) ogni accertamento (…) volto a verificare il coinvolgimento, o meno, degli attuali proprietari o concessionari di aree industriali (…) così come (…) ogni accertamento volto a verificare la sussistenza di eventuali responsabilità in capo ad organi della P.A. che abbiano in passato autorizzato l’esercizio di attività inquinanti». Infatti, secondo questo stesso giudice, «il punto di equilibrio fra i diversi interessi di rilevanza costituzionale alla tutela della salute, dell’ambiente e dell’iniziativa economica privata (…) va (…) ricercato (…) in un criterio di oggettiva responsabilità imprenditoriale, in base al quale gli operatori economici che producono e ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti, o in quanto utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono perciò stesso tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, in correlazione causale» con tutti i fenomeni di inquinamento collegati all’attività industriale.
27 Il giudice del rinvio sottolinea che la prassi della competente autorità pubblica, confermata dal giudice d’appello, consiste pertanto, allo stato degli atti, nell’addossare alle imprese che operano nella Rada di Augusta la responsabilità per l’inquinamento ambientale esistente, senza distinzioni tra l’inquinamento precedente e quello attuale e senza accertamento di dirette responsabilità nella genesi del danno a carico di ciascuna delle imprese coinvolte.
28 Nel prospettare un eventuale sviluppo della propria giurisprudenza in accordo con il suo giudice d’appello, il giudice del rinvio pone in evidenza la situazione specifica dell’inquinamento proprio della Rada di Augusta. Esso sottolinea in particolare che nella zona si sono succedute una pluralità di imprese petrolchimiche, per cui sarebbe non solo impossibile, ma parimenti inutile determinare il rispettivo grado di responsabilità, qualora si tenga presente, in particolare, che la circostanza di condurre nel sito contaminato attività di per se stesse pericolose può bastare a far dichiarare accertata la loro responsabilità.
29 È alla luce di questo complesso di circostanze che il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha deciso di sospendere il procedimento e di proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se il principio “chi inquina paga” (art.174 CE) (…) nonché le disposizioni di cui alla [direttiva 2004/35] ostino ad una normativa nazionale che consenta alla Pubblica Amministrazione di imporre agli imprenditori privati – per il solo fatto che essi si trovino attualmente ad esercitare la propria attività in una zona da lungo tempo contaminata o limitrofa a quella storicamente contaminata – l’esecuzione di misure di riparazione a prescindere dallo svolgimento di qualsiasi istruttoria in ordine all’individuazione del responsabile dell’inquinamento.
2) Se il principio “chi inquina paga” (art.174 CE) (…) nonché le disposizioni di cui alla [direttiva 2004/35] ostino ad una normativa nazionale che consenta alla Pubblica Amministrazione di attribuire la responsabilità del risarcimento del danno ambientale in forma specifica al soggetto titolare di diritti reali e/o esercente un’attività imprenditoriale nel sito contaminato, senza la necessità di accertare previamente la sussistenza del nesso causale tra la condotta del soggetto e l’evento di contaminazione, in virtù del solo rapporto di “posizione” nel quale egli stesso si trova (cioè essendo egli un operatore la cui attività sia svolta all’interno del sito).
3) Se la normativa comunitaria di cui all’art. 174 [CE ed alla direttiva 2004/35] osti ad una normativa nazionale che, superando il principio “chi inquina paga”, consenta alla Pubblica Amministrazione di attribuire la responsabilità del risarcimento del danno ambientale in forma specifica al soggetto titolare di diritti reali e/o d’impresa nel sito contaminato, senza la necessità di accertare previamente la sussistenza, oltre che del nesso causale tra la condotta del soggetto e l’evento di contaminazione, anche del requisito soggettivo del dolo o della colpa.
4) Se i principi comunitari in materia di tutela della concorrenza di cui al Trattato che istituisce la Comunità europea e le (…) direttive 2004/18, [del Consiglio 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori (GU L 199, pag. 54)] e [del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori e di forniture (GU L 395, pag. 33)] ostino ad una normativa nazionale che consenta alla Pubblica Amministrazione di affidare a soggetti privati (società Sviluppo SpA. e [Sviluppo]) attività di caratterizzazione, di progettazione ed esecuzione di interventi di bonifica – rectius: di realizzazione di opere pubbliche – su aree demaniali in via diretta, senza esperire preliminarmente le necessarie procedure di evidenza pubblica».
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla ricevibilità
30 Il governo italiano asserisce che il rinvio pregiudiziale sarebbe irricevibile in quanto, in particolare, da un lato, le questioni proposte implicherebbero che la Corte esamini la normativa nazionale e, dall’altro, lo scopo del giudice del rinvio sarebbe non di risolvere la controversia di cui è investito, bensì piuttosto di rimettere in discussione la giurisprudenza del suo giudice di appello.
31 A questo proposito basta ricordare che, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale, benché non spetti alla Corte pronunciarsi sulla compatibilità di norme del diritto interno con il diritto dell’Unione, essa è tuttavia competente a fornire al giudice a quo tutti gli elementi di interpretazione concernenti tale diritto, atti a consentirgli di valutare tale compatibilità per pronunciarsi nella causa di cui è investito (sentenza 22 maggio 2008, causa C‑439/06, citiworks, Racc. pag. I‑3913, punto 21 e giurisprudenza ivi citata).
32 Peraltro, il giudice che non decide in ultima istanza dev’essere libero, segnatamente se esso ritiene che la valutazione in diritto formulata dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione, di sottoporre alla Corte le questioni con cui deve confrontarsi (v., in tal senso, sentenza 16 gennaio 1974, causa 166/73, Rheinmühlen-Düsseldorf, Racc. pag. 33, punto 4).
33 In considerazione delle precedenti osservazioni, il presente rinvio pregiudiziale è ricevibile e, di conseguenza, occorre esaminare le varie questioni proposte dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia.
Sulle prime tre questioni
34 Con le sue prime tre questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il principio «chi inquina paga», quale sancito dall’art. 174, n. 2, primo comma, CE, e le disposizioni della direttiva 2004/35, che mira a dare attuazione a questo principio nell’ambito della responsabilità ambientale, ostino a una normativa nazionale che consente all’autorità competente di imporre ad alcuni operatori, a causa della vicinanza dei loro impianti ad una zona inquinata, misure di riparazione dei danni ambientali, senza avere preventivamente indagato sugli eventi all’origine dell’inquinamento, né avere accertato il nesso di causalità tra detti danni e i citati operatori né il dolo o la colpa di questi ultimi.
35 Alla luce delle circostanze delle cause principali, quali illustrate dal giudice del rinvio, e dell’esame che ne hanno svolto i governi italiano, ellenico ed olandese nonché la Commissione delle Comunità europee, occorre determinare i presupposti di applicabilità ratione temporis della direttiva 2004/35 in circostanze del genere, prima di risolvere le questioni proposte.
Sull’applicabilità ratione temporis della direttiva 2004/35
– Osservazioni presentate alla Corte
36 I governi italiano e olandese nonché la Commissione dubitano che la direttiva 2004/35 possa applicarsi ratione temporis ai fatti delle cause principali, in quanto il danno ambientale sarebbe anteriore al 30 aprile 2007 e/o esso deriverebbe comunque da attività precedenti, che sarebbero state ultimate prima di tale data. La Commissione fa capire, però, che questa direttiva potrebbe applicarsi limitatamente ai danni successivi al 30 aprile 2007 derivanti dall’attività presente degli operatori coinvolti. Tuttavia, essa non potrebbe applicarsi a un inquinamento anteriore a questa stessa data, causato da operatori diversi da quelli attualmente in attività nella Rada di Augusta, ai quali si vorrebbe addossare detto inquinamento.
37 Il governo ellenico ritiene viceversa che la direttiva 2004/35 sia applicabile ai fatti delle cause principali. Infatti, basandosi su una lettura a contrario dell’art. 17, secondo trattino, di questa direttiva, esso ritiene che quest’ultima si applichi anche qualora l’attività all’origine del danno sia iniziata prima del 30 aprile 2007, purché la stessa non sia terminata prima di tale data e prosegua dopo il 30 aprile 2007.
– Risposta della Corte
38 Come si evince dal trentesimo ‘considerando’ della direttiva 2004/35, il legislatore dell’Unione ha ritenuto che la normativa relativa al regime di responsabilità ambientale istituito da questa direttiva «non si dovrebbe applicare al danno cagionato prima dello scadere del termine per la sua attuazione», ossia prima del 30 aprile 2007.
39 Detto legislatore ha indicato espressamente, nell’art. 17 della direttiva 2004/35, le ipotesi in cui quest’ultima non si applica. Dal momento che le ipotesi che non rientrano nella sfera di applicazione ratione temporis di questa direttiva sono state così definite in modo negativo, occorre dedurne che qualsiasi altra ipotesi è soggetta, in linea di principio, dal punto di vista cronologico, al regime di responsabilità ambientale istituito da detta direttiva.
40 Dall’art. 17, primo e secondo trattino, della direttiva 2004/35 si ricava che quest’ultima non si applica ai danni causati da un’emissione, un evento o un incidente verificatosi prima del 30 aprile 2007 né a quelli causati dopo tale data, se derivanti da una specifica attività posta in essere e terminata prima di detta data.
41 Occorre dedurne che questa direttiva si applica ai danni causati da un’emissione, un evento o un incidente avvenuti dopo il 30 aprile 2007 quando questi danni derivano o da attività svolte successivamente a tale data, o da attività svolte anteriormente a tale data, ma non ultimate prima della scadenza della medesima.
42 In forza dell’art. 267 TFUE, basato sulla netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, questa può pronunciarsi unicamente sull’interpretazione o sulla validità di un testo normativo dell’Unione sulla base dei fatti indicati dal giudice nazionale. Ne consegue che non spetta alla Corte, nell’ambito di un procedimento ai sensi dell’articolo citato, ma al giudice nazionale l’applicazione ad atti o fatti di carattere nazionale delle norme del diritto dell’Unione di cui la Corte abbia fornito l’interpretazione (v. sentenza 11 settembre 2008, causa C‑279/06, CEPSA, Racc. pag. I‑6681, punto 28).
43 Spetta pertanto al giudice del rinvio verificare, in base ai fatti che esso solo è in grado di valutare, se, nelle cause principali, i danni oggetto delle misure di riparazione ambientale decise dalle autorità nazionali competenti rientrino in una delle ipotesi elencate nel punto 41 della presente sentenza.
44 Qualora detto giudice dovesse giungere alla conclusione che la direttiva 2004/35 non è applicabile nella causa di cui è investito, un’ipotesi del genere dovrà essere allora disciplinata dall’ordinamento nazionale, nel rispetto delle norme del Trattato e fatti salvi altri eventuali atti di diritto derivato.
45 A questo proposito, l’art. 174 CE ricorda che la politica della Comunità in materia ambientale mira a un livello elevato di protezione e si basa, segnatamente, sul principio «chi inquina paga». Questa disposizione si limita pertanto a definire gli obiettivi generali della Comunità in materia ambientale, mentre l’art. 175 CE affida il compito di decidere le azioni da avviare al Consiglio dell’Unione europea, eventualmente applicando la procedura di codecisione con il Parlamento europeo (v., in tal senso, sentenza 14 luglio 1994, causa C‑379/92, Peralta, Racc. pag. I‑3453, punti 57 e 58).
46 Come giustamente sottolineato dal governo olandese, dal momento che l’art. 174 CE, che contiene il principio «chi inquina paga», è rivolto all’azione della Comunità, questa disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale, quale quella oggetto delle cause principali, emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa comunitaria adottata in base all’art. 175 CE, che disciplini specificamente l’ipotesi di cui trattasi.
47 Se e in quanto il giudice del rinvio giunga alla conclusione che la direttiva 2004/35 è applicabile ratione temporis nelle cause principali, occorre affrontare le questioni pregiudiziali nel modo seguente.
Sul regime di responsabilità ambientale previsto dalla direttiva 2004/35
– Osservazioni presentate alla Corte
48 I governi italiano ed ellenico ritengono che, a norma dell’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva 2004/35, quando si tratta di attività di cui all’allegato III di quest’ultima, sussista una presunzione che gli operatori siano responsabili dell’inquinamento accertato, senza che occorra dimostrare una loro responsabilità per fatto illecito o un nesso di causalità tra le loro rispettive attività e i danni provocati all’ambiente.
49 Secondo il governo ellenico, solo quando le attività degli operatori non rientrino fra quelle di cui all’allegato III alla direttiva 2004/35 l’autorità competente, al fine di imporre a questi ultimi misure di responsabilità ambientale ai sensi di questa direttiva, deve dimostrare, conformemente all’art. 3, n. 1, lett. b), di quest’ultima, che detti operatori siano responsabili per comportamento doloso o colposo. A questa autorità non incomberebbe nemmeno l’onere di provare il grado di coinvolgimento di questi ultimi, poiché l’art. 8, n. 3, di detta direttiva enuncerebbe che l’onere della prova di un nesso di causalità tra il danno e l’effettivo inquinatore graverebbe in realtà sull’operatore, che non voglia essere obbligato a sostenere i costi riguardanti danni dei quali egli sia in grado di dimostrare che siano conseguenze dell’opera di un terzo. Pertanto, la facoltà per le imprese interessate di promuovere, eventualmente tra di esse, azioni di regresso basate sulle norme nazionali in materia di responsabilità potrebbe fornire soluzioni pragmatiche.
50 Il governo italiano sottolinea che comunque, nelle cause principali, il nesso di causalità sussisterebbe in re ipsa, senza che occorra condurre un’indagine per accertarlo, in quanto le imprese interessate si sarebbero autodenunciate e sussisterebbe una coincidenza evidente tra le sostanze da loro prodotte e i materiali inquinanti ritrovati. Inoltre, l’art. 16, n. 1, della direttiva 2004/35 consentirebbe agli Stati membri di emanare norme più rigorose di quelle contenute in questa direttiva.
51 La Commissione ritiene che la direttiva 2004/35 non si applichi quando non sia possibile identificare con precisione l’operatore la cui attività abbia provocato i danni ambientali. Tuttavia, basandosi sull’art. 16, n. 1, di questa direttiva, essa è del parere che quest’ultima non osti all’applicazione di un regime più rigoroso, quale quello oggetto delle cause principali, per quanto concerne la facoltà degli Stati membri di individuare sia altre attività da assoggettare alle prescrizioni di detta direttiva, sia altri responsabili poiché, comunque, un regime siffatto tenderebbe a rafforzare gli obblighi stabiliti dalla citata direttiva.
– Risposta della Corte
52 Come afferma il tredicesimo ‘considerando’ della direttiva 2004/35, a non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile e, affinché quest’ultima sia efficace, è necessario in particolare accertare nessi causali tra uno o più inquinatori individuabili e danni ambientali concreti e quantificabili.
53 Come si evince dagli artt. 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35, così come l’accertamento di un siffatto nesso causale è necessario da parte dell’autorità competente al fine di imporre misure di riparazione ad eventuali operatori, a prescindere dal tipo di inquinamento in questione, quest’obbligo è parimenti un presupposto per l’applicabilità di detta direttiva per quanto concerne forme di inquinamento a carattere diffuso ed esteso.
54 Un nesso di causalità del genere può essere agevolmente dimostrato quando l’autorità competente si trovi in presenza di un inquinamento circoscritto nello spazio e nel tempo, che sia opera di un numero limitato di operatori. Viceversa, non è questo il caso nell’ipotesi di fenomeni di inquinamento a carattere diffuso, per cui il legislatore dell’Unione ha giudicato che, in presenza di un inquinamento del genere, un regime di responsabilità civile non costituisce uno strumento idoneo quando detto nesso di causalità non possa essere accertato. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, quest’ultima si applica a questo tipo di inquinamento solo quando sia possibile accertare un nesso di causalità tra i danni e le attività dei diversi operatori.
55 A questo proposito, è giocoforza rilevare che la direttiva 2004/35 non definisce la modalità di accertamento di un siffatto nesso di causalità. Ebbene, nella cornice della competenza condivisa tra l’Unione e i suoi Stati membri in materia ambientale, quando un elemento necessario all’attuazione di una direttiva adottata in base all’art. 175 CE non sia stato definito nell’ambito di quest’ultima, una siffatta definizione rientra nella competenza di questi Stati e, a tale proposito, essi dispongono di un ampio potere discrezionale, nel rispetto delle norme del Trattato, al fine di prevedere discipline nazionali che configurino o concretizzino il principio «chi inquina paga» (v., in tal senso, sentenza 16 luglio 2009, causa C‑254/08, Futura Immobiliare e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 48, 52 e 55).
56 Da questo punto di vista, la normativa di uno Stato membro può prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento.
57 Tuttavia, dato che, conformemente al principio «chi inquina paga», l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento (v., per analogia, sentenza 24 giugno 2008, causa C‑188/07, Commune de Mesquer, Racc. pag. I‑4501, punto 77), per poter presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.
58 Quando disponga di indizi di tal genere, l’autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l’inquinamento diffuso rilevato. Conformemente all’art. 4, n. 5, della direttiva 2004/35, un’ipotesi del genere può rientrare pertanto nella sfera d’applicazione di questa direttiva, a meno che detti operatori non siano in condizione di confutare tale presunzione.
59 Da ciò deriva che, qualora il giudice del rinvio ritenga che l’inquinamento in questione nelle cause principali presenti un carattere diffuso e che non possa essere dimostrato un nesso di causalità, un’ipotesi del genere potrà rientrare non nella sfera d’applicazione ratione materiae della direttiva 2004/35, bensì in quella dell’ordinamento nazionale, alle condizioni precisate nel punto 44 della presente sentenza.
60 Viceversa, per l’ipotesi in cui il giudice del rinvio giunga alla conclusione che detta direttiva è applicabile al caso di cui è investito, occorre ancora svolgere le seguenti considerazioni.
61 Dall’art. 3, n. 1, lett. b), della direttiva 2004/35 si ricava che, quando un danno è stato arrecato alle specie e agli habitat naturali protetti da una attività professionale non elencata nell’allegato III a questa direttiva, la medesima può applicarsi a condizione che sia accertato il comportamento doloso o colposo in capo all’operatore. Viceversa, una siffatta condizione non vale quando da un’attività professionale elencata nel detto allegato sia stato causato un danno ambientale ossia, ai sensi dell’art. 2, n. 1, lett. a)‑c), di detta direttiva, un danno arrecato alle specie e agli habitat naturali protetti, nonché alle acque e al terreno.
62 Fatto salvo l’esito degli accertamenti in fatto che spetta al giudice del rinvio compiere, quando un danno sia stato causato all’ambiente da operatori attivi nei settori dell’energia e della chimica, ai sensi dei punti 2.1 e 2.4 della direttiva 96/61, attività comprese a tale titolo nell’allegato III alla direttiva 2004/35, a questi operatori possono essere pertanto imposte misure preventive o di riparazione, senza che l’autorità competente sia tenuta a dimostrare l’esistenza di un comportamento doloso o colposo in capo a loro.
63 Infatti, nel caso di attività professionali comprese nell’allegato III alla direttiva 2004/35, la responsabilità ambientale degli operatori attivi in questi ambiti è loro imputata in via oggettiva.
64 Tuttavia, come giustamente sottolineato dai ricorrenti nelle cause principali, dal combinato disposto dell’art. 11, n. 2, della direttiva 2004/35 e del tredicesimo ‘considerando’ di quest’ultima discende che, al fine di imporre misure di riparazione, l’autorità competente è tenuta ad accertare, in osservanza delle norme nazionali in materia di prova, quale operatore abbia provocato il danno ambientale. Ne discende che, a tal fine, detta autorità deve ricercare preventivamente l’origine dell’inquinamento constatato e, come rilevato nel punto 53 della presente sentenza, essa non può imporre misure di riparazione senza previamente dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra i danni rilevati e l’attività dell’operatore che ritiene responsabile dei medesimi.
65 Occorre pertanto interpretare gli artt. 3, n. 1, 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione ad operatori le cui attività siano elencate nell’allegato III a detta direttiva, l’autorità competente non è tenuta a dimostrare né un comportamento doloso o colposo, né un intento doloso in capo agli operatori le cui attività siano ritenute all’origine del danno ambientale. Viceversa, spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l’origine dell’accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi cui fare ricorso, nonché alla durata di una ricerca siffatta. Dall’altro, questa autorità è tenuta a dimostrare, in osservanza delle norme nazionali in materia di prova, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi.
66 I ricorrenti nelle cause principali asseriscono che l’inquinamento della Rada di Augusta sarebbe opera della società Montedison SpA nonché della marina civile e militare. Di conseguenza, a loro parere l’autorità competente non potrebbe imputare loro misure di riparazione del tipo di quelle previste nel decreto n. 4378/2008.
67 A questo proposito occorre ricordare, da un lato, che, conformemente all’art. 11, n. 4, della direttiva 2004/35, gli operatori dispongono di rimedi giurisdizionali per impugnare le misure di riparazione adottate in base a questa direttiva, nonché per negare l’esistenza di un qualsiasi nesso di causalità tra la loro attività e l’inquinamento rilevato. Dall’altro, conformemente all’art. 8, n. 3, di questa direttiva, i medesimi operatori non sono tenuti a sostenere i costi delle misure di riparazione quando sono in grado di dimostrare che i danni in questione sono opera di un terzo e si sono verificati nonostante l’esistenza di idonee misure di sicurezza, poiché infatti il principio «chi inquina paga» non implica che gli operatori debbano farsi carico di oneri inerenti alla riparazione di un inquinamento al quale non abbiano contribuito (v., per analogia, sentenza 29 aprile 1999, causa C‑293/97, Standley e a., Racc. pag. I‑2603, punto 51).
68 Occorre aggiungere parimenti che l’art. 16, n. 1, della direttiva 2004/35, al pari dell’art. 176 CE, prevede espressamente che la direttiva non osta al mantenimento o all’adozione da parte degli Stati membri di misure più severe riguardanti la prevenzione e la riparazione dei danni ambientali. Questa disposizione afferma parimenti che queste misure possono consistere, segnatamente, nell’individuazione, da un lato, di altre attività da assoggettare agli obblighi fissati dalla direttiva e, dall’altro, di altri soggetti responsabili.
69 Ne consegue che uno Stato membro può decidere, in particolare, che gli operatori esercenti attività diverse da quelle previste nell’allegato III alla direttiva 2004/35 possono essere considerati responsabili in via oggettiva di danni ambientali, ossia, ai sensi dell’art. 2, n. 1, lett. a)-c), della citata direttiva, non solo di danni provocati alle specie e agli habitat naturali protetti, ma anche di quelli arrecati alle acque e ai terreni.
70 In considerazione di quanto sin qui esposto, occorre rispondere alle prime tre questioni dichiarando che:
– quando, in un’ipotesi d’inquinamento ambientale, non sono soddisfatti i presupposti d’applicazione ratione temporis e/o ratione materiae della direttiva 2004/35, un’ipotesi del genere dovrà essere allora disciplinata dal diritto nazionale, nel rispetto delle norme del Trattato e fatti salvi altri eventuali atti di diritto derivato;
– la direttiva 2004/35 non osta a una normativa nazionale che consente all’autorità competente, in sede di esecuzione della citata direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, anche nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività;
– gli artt. 3, n. 1, 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 devono essere interpretati nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione del danno ambientale ad operatori le cui attività siano elencate nell’allegato III a detta direttiva, l’autorità competente non è tenuta a dimostrare né un comportamento doloso o colposo, né un intento doloso in capo agli operatori le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale. Viceversa spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l’origine dell’accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata di una ricerca siffatta. Dall’altro, questa autorità è tenuta a dimostrare, in base alle norme nazionali in materia di prova, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi.
Sulla quarta questione
71 Con la sua quarta questione, il giudice del rinvio chiede alla Corte, in sostanza, se le direttive in materia di appalti pubblici, in particolare la direttiva 2004/18, ostino a una normativa nazionale che consente all’autorità competente di affidare direttamente a un’impresa di diritto privato la realizzazione e la concezione di opere pubbliche nonché di lavori di bonifica e di recupero di un sito inquinato.
72 Secondo costante giurisprudenza, la procedura ex art. 267 TFUE costituisce uno strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, per mezzo della quale la prima fornisce ai secondi gli elementi d’interpretazione del diritto dell’Unione necessari per risolvere le controversie dinanzi ad essi pendenti (v., in particolare, sentenze 16 luglio 1992, causa C‑83/91, Meilicke, Racc. pag. I‑4871, punto 22, e 16 ottobre 2008, causa C‑313/07, Kirtruna e Vigano, Racc. pag. I‑7907, punto 25).
73 Nell’ambito di questa cooperazione, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una sentenza pregiudiziale ai fini della pronuncia della propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che esso sottopone alla Corte. Pertanto, una volta che le questioni poste riguardano l’interpretazione di una norma del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (sentenza 19 aprile 2007, causa C‑295/05, Asemfo, Racc. pag. I‑2999, punto 30 e giurisprudenza ivi citata).
74 Tuttavia, quando non dispone degli elementi in fatto e in diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte, la Corte si astiene dal decidere su una domanda proposta da un giudice nazionale (v., in tal senso, sentenza Commune de Mesquer, cit., punto 30).
75 Ebbene, a questo proposito, per quanto concerne la presente questione, risulta che il giudice del rinvio non ha precisato né il soggetto di diritto pubblico che ha assegnato l’esecuzione dei lavori oggetto di detta questione, né l’importo dei medesimi, né l’atto in forza del quale detti lavori sono stati affidati alle due società indicate nella medesima questione.
76 Infatti, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia fa riferimento unicamente a operazioni «di rilevante impatto ambientale e di elevatissimo valore economico» che sarebbero state affidate in tal modo a dette società dall’autorità competente, senza che queste ultime abbiano dovuto affrontare la concorrenza di altre società di diritto privato.
77 Inoltre, malgrado un quesito rivolto per iscritto dalla Corte al governo italiano nonché lo svolgimento dell’udienza dibattimentale, non è stato possibile chiarire le condizioni in presenza delle quali i lavori in questione sarebbero stati affidati a dette società. La società Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa) SpA ha sostenuto addirittura di essere stata assegnataria di mere attività di concezione e che l’autorità competente avrebbe rinunciato alla realizzazione delle infrastrutture di cui alla quarta questione pregiudiziale.
78 Alla luce di ciò, la Corte non ritiene di essere sufficientemente edotta in merito alle circostanze in fatto della quarta questione formulata dal giudice del rinvio e, di conseguenza, deve dichiararla irricevibile.
Sulle spese
79 Nei confronti delle parti nelle cause principali il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Quando, in un’ipotesi d’inquinamento ambientale, non sono soddisfatti i presupposti d’applicazione ratione temporis e/o ratione materiae della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 21 aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, un’ipotesi del genere dovrà essere allora disciplinata dal diritto nazionale, nel rispetto delle norme del Trattato e fatti salvi altri eventuali atti di diritto derivato.
La direttiva 2004/35 non osta a una normativa nazionale che consente all’autorità competente, in sede di esecuzione della citata direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, anche nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.
Gli artt. 3, n. 1, 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 devono essere interpretati nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione del danno ambientale ad operatori le cui attività siano elencate nell’allegato III a detta direttiva, l’autorità competente non è tenuta a dimostrare né un comportamento doloso o colposo, né un intento doloso in capo agli operatori le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale. Viceversa spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l’origine dell’accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata di una ricerca siffatta. Dall’altro, questa autorità è tenuta a dimostrare, in base alle norme nazionali in materia di prova, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi.
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