Consiglio di Stato Sez. I n. 1389 del 7 maggio 2019
Acque.Condizioni di partecipazione dei privati alle società in house
Il Consiglio di Stato nel parere n. 1389 del 2019 ha stabilito tre importanti principi:
a) che nel settore dei servizi idrici, sino a quando una specifica disposizione di legge nazionale, diversa dagli artt. 5, d.lgs. n. 50 del 2016 e 16, d.lgs. n. 175 del 2016, non stabilirà la possibilità per i privati di partecipare ad una società in house – indicando anche la misura della partecipazione, la modalità di ingresso del socio privato, il ruolo all’interno della società e i rapporti con il socio pubblico – deve ritenersi preclusa al privato la partecipazione alla società in house.
b) che l’art. 149 bis Codice dell’ambiente, nella parte in cui effettua un richiamo all’ “ordinamento europeo”, non permette, allo stato, la partecipazione dei privati alla società in house perché proprio il richiamo all’ordinamento europeo effettuato dalla predetta norma nazionale impone una specifica previsione nazionale che ammetta, e disciplini, la partecipazione dei privati alle società in house (in termini analoghi i già richiamati articoli 5 Codice dei contratti pubblici e 16, d.lgs. n. 175 del 2016).
c) che, in attesa della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea (cui, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, spetta l’interpretazione dei trattati e degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione), a prescindere dall’eccezionalità o meno dell’in house providing, le norme che disciplinano tale istituto vanno interpretate restrittivamente anche per evitare che applicazioni analogiche, di fatto ampliandone il ricorso, possano trasformarsi in una lesione delle concorrenza che, come è noto, è tra i principi dell’Unione. (segnlazione Avv. M. BALLETTA)
Numero 01389/2019 e data 07/05/2019 Spedizione
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 17 aprile 2019
NUMERO AFFARE 00488/2019
OGGETTO:
Regione Piemonte.
Richiesta di parere in merito alla possibilità per gli Enti di governo d'ambito della Regione Piemonte di affidare in via diretta il servizio idrico integrato ad una società in house providing all'interno della quale si collochi una partecipazione di capitali privati, nel rispetto delle condizioni previste dalla normativa europea e nazionale.
LA SEZIONE
Vista la nota del 27 marzo 2019 con la quale il Presidente della Regione Piemonte ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri;
1. Il quesito
La Regione Piemonte riferisce che con il quesito in oggetto persegue l' “obiettivo di rendere disponibile agli Enti di governo d'ambito un ampio novero di modelli organizzativi al fine dell'affidamento sul territorio del servizio idrico integrato, in modo tale che possano essere tenute in adeguata considerazione le peculiarità dei diversi ambiti territoriali, nonché le opzioni manifestate dai Comuni facenti parte dell'Ambito territoriale di riferimento”.
La Regione, dopo avere riportato la disciplina generale vigente a livello nazionale e comunitario, esamina il quadro normativo regionale e, in particolare, l'articolo 7 l. r. 20 gennaio 1997, n. 13 (Forme di gestione del servizio idrico integrato e salvaguardia degli organismi esistenti) che disciplina gli ambiti territoriali ottimali per l'organizzazione del servizio idrico integrato. L’articolo così dispone: "Le Autorità d'ambito affidano la gestione del servizio idrico integrato nelle forme previste dall'articolo 22, comma 3, lettere b) ed e) della l. 142-1990, come integrato dall'articolo 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), e dall'articolo 25, comma 1 della l. 142--1990 ".
Spiega l’Ente che l'articolo 22, comma 3, lettera e) della legge 8 giugno 1990, n. 142, richiamato dalla legge regionale, è stato abrogato dall'articolo 274, comma 1, lettera q) d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e che, dunque, il riferimento normativo, sempre per la regione, dovrebbe oggi intendersi alle disposizioni comunitarie e nazionali vigenti in materia, ovvero alle direttive comunitarie 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE (recepite in Italia con il d.lgs. 19 aprile 2016, n. 50) ed anche al d.lgs. 8 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica).
La Regione, sempre nel quesito formulato, richiama le norme che disciplinano l’istituto dell’affidamento inhouse focalizzando l’attenzione, in particolare, su quelle che consentono la partecipazione di soggetti privati alla società inhouse [articolo 5, comma 1, lettera c), codice dei contratti pubblici; articolo 2, comma 1, lettera o) e articolo 16, comma 1, testo unico in materia di società a partecipazione pubblica].
Con specifico riferimento all’affidamento del servizio idrico integrato, l’amministrazione richiedente ricorda infine la previsione contenuta nell'articolo 149-bis, comma 1, d.lgs. 152/2006, come modificato dall'articolo 1, comma 615, l. n. 190 del 2014, che stabilisce: "L'ente di governo dell'ambito, nel rispetto del piano d'ambito di cui all'articolo 149 e del principio di unicità della gestione per ciascun ambito territoriale ottimale, delibera la forma di gestione fra quelle previste dall'ordinamento europeo provvedendo, conseguentemente, all'affidamento del servizio nel rispetto della normativa nazionale in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica. L'affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall'ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell'ambito territoriale ottimale".
Considerate le norme citate, la Regione avanza il dubbio circa la possibile partecipazione dei privati alle società in house. Più precisamente il dubbio nasce dal fatto che l'articolo 149-bis Codice ambiente prevede l'affidamento diretto del servizio idrico integrato solamente a favore di società interamente pubbliche mentre le successive disposizioni del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica e del codice dei contratti pubblici consentono affidamenti diretti a società inhouse anche se in esse vi sia partecipazione di soggetti privati (“Il dubbio sulla corretta interpretazione della disposizione é tuttavia ingenerato dalla circostanza che proprio l'art. 149-bis, nel prevedere che l'affidamento diretto debba avvenire nei confronti di "società interamente pubbliche", rinvia tuttavia allo stesso tempo all'ordinamento europeo per ciò che concerne i requisiti della gestione in house, ponendo quindi un precetto in sé potenzialmente contraddittorio”; pag. 6 del quesito).
Per tale motivo l’amministrazione richiedente ritiene che sia necessario coordinare le norme che disciplinano il servizio idrico integrato con le previsioni generali del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica e del codice dei contratti pubblici e che “se da un lato, per quanto riguarda il servizio idrico integrato le forme di affidamento sono disciplinate dall'art. 149-bis del Testo unico in materia ambientale, in quanto norma speciale, tuttavia è anche vero che tale articolo rinvia allo stesso tempo all'ordinamento comunitario e quindi — indirettamente — anche agli articoli 5 del d.lgs. n. 50/2016 e 16 del d.lgs. n. 175/2016 che esplicitano tali requisiti nell'ordinamento italiano, pur non presentando tra loro una formulazione perfettamente collimante”. Suggerisce, infine, che “un'interpretazione dell'art. 149-bis conforme al diritto europeo vigente, in forza del rinvio ad esso operato dalla norma medesima, implicherebbe che per "società interamente pubbliche" si possano comunque intendere anche quelle "società parzialmente pubbliche" in possesso dei requisiti europei per l'affidamento diretto di un servizio di interesse economico generale, contemplati dalle direttive 2014/23/UE, 2014/24UE e 2014/25/UE nonché, per quel che riguarda l'ordinamento interno, dagli articoli 5 del d.lgs. n. 50/2016 e 16 del d.lgs. n. 175/2016” (ancora pagina 6 del quesito).
Tutto ciò premesso, la regione Piemonte formula al Consiglio di Stato i seguenti quesiti:
1. “Alla luce della possibilità espressamente prevista dalle direttive comunitarie di partecipazione di soggetti privati a società in house e in forza del rinvio diretto al diritto europeo operato dallo stesso art. 149-bis del Codice dell'Ambiente, si chiede di conoscere il parere di codesto Consiglio di Stato in ordine alla possibilità per gli Enti di governo d'ambito della Regione Piemonte di affidare in via diretta il servizio idrico integrato ad una società in house all'interno della quale si collochi una partecipazione di capitali privati con un ruolo di socio industriale, sia pure non in grado di avere un'influenza determinante sulla governance societaria”.
2. “In caso affermativo, si chiede inoltre di conoscere il parere di codesto Consiglio di Stato in ordine alla possibilità, da parte del Legislatore regionale, di introdurre una modifica alla vigente legge regionale n. 13/1997, prevedendo la possibilità per le Autorità d'ambito - in relazione alle specificità dei diversi ambiti territoriali - di affidare la gestione del servizio idrico integrato anche a società pubbliche nelle quali vi siano forme di partecipazione di capitali privati, nei limiti stabiliti dalla normativa comunitaria, che non comportino controllo”.
2. La gestione dei servizi pubblici: profili storici
Prima di dare risposta ai quesiti, il Consiglio ritiene che sia necessario effettuare una ricostruzione storica della disciplina degli affidamenti della gestione del servizio pubblico, anche in considerazione del fatto che la citata legge regionale fa espresso riferimento ai modelli all’epoca delineati dalla legge 142/90.
2.1. Innanzi tutto è utile ricordare che nei servizi pubblici è possibile individuare tre distinti momenti logici e giuridici: 1) l’assunzione; 2) la regolazione; 3) la gestione del servizio.
Momento iniziale è l’assunzione da parte dei pubblici poteri di un’attività come servizio pubblico, con legge o con atto amministrativo emanato in base ad una legge; si tratta di una decisione di carattere politico determinata dal fatto che il mercato non è in grado di offrire alla collettività un adeguato livello qualitativo o quantitativo di un determinato bene o servizio. Ne deriva una nozione di servizio pubblico storicamente relativa poiché varia in base all’epoca ed al contesto territoriale di riferimento; ciò spiega perché è estremamente difficile dare una definizione univoca di servizio pubblico.
Quando un’attività viene assunta come servizio pubblico, il potere pubblico deve provvedere alla sua regolazione, secondo momento logico, dando attuazione a determinati principi giuridici che si ricavano anche, e soprattutto, dal diritto eurounitario e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, tra i quali ricordiamo: il principio di legalità; il principio di doverosità (i pubblici poteri devono garantire direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio secondo criteri quantitativi e qualitativi predeterminati); il principio della continuità della gestione ed erogazione dei servizi; il principio di imparzialità; il principio di universalità (le imprese che gestiscono servizi pubblici devono offrire prestazioni anche a fasce di clienti e in aree territoriali non convenienti); il principio dell’accessibilità dei prezzi per tutti; il principio dell’economicità (nel senso che il gestore del servizio deve poter conseguire un margine ragionevole di utile); il principio di trasparenza; il principio di proporzionalità.
Per quanto riguarda il terzo, e fondamentale, momento, le forme di gestione dei servizi pubblici con rilevanza economica si caratterizzano per la minore o maggiore afferenza del gestore all’organizzazione pubblica; la gestione può infatti essere: a) diretta, ossia eseguita dalle strutture dello stesso ente che ha assunto il servizio pubblico (aziende speciali, gestione in economia); b) indiretta, ossia affidata ad un altro ente pubblico, ad esempio un ente pubblico economico; c) affidata ad una società in house providing; d) affidata ad una società mista a partecipazione pubblica e privata (c.d. partenariato pubblico privato istituzionale - PPPI); e) affidata in concessione a privati scelti mediante procedure di evidenza pubblica (c.d. concorrenza per il mercato); f) autorizzata a più gestori che erogano il servizio in concorrenza nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico stabiliti dal regolatore (c.d. concorrenza nel mercato).
Dagli anni novanta in poi, per effetto delle direttive comunitarie, si è passati da un modello di organizzazione del servizio pubblico caratterizzato dalla riserva originaria dell’attività, con i c.d. diritti speciali o di esclusiva, ad un modello sempre più concorrenziale. Le direttive volte alla liberalizzazione dei diversi settori e dei differenti mercati operano una distinzione tra “concorrenza nel mercato” e “concorrenza per il mercato”: nel primo caso, quando le caratteristiche del mercato lo consentono, il servizio può essere svolto da operatori economici in concorrenza tra loro, sulla base di un provvedimento autorizzatorio, non discrezionale, che realizza quindi la piena concorrenza; nel secondo caso, ragioni di tipo tecnico o economico (monopolio naturale, costi eccessivi di duplicazione delle reti e delle infrastrutture), suggeriscono che il servizio pubblico venga svolto in modo efficiente soltanto da un unico gestore. Pertanto, l’amministrazione indice una procedura selettiva di affidamento della concessione del servizio, alla quale possono partecipare tutti gli operatori economici interessati, per la scelta del gestore cui viene riconosciuto un diritto speciale o di esclusiva. In questo modello di gestione, dunque, la concorrenza si realizza a monte, secondo due modalità alternative ed equivalenti che più avanti si approfondiranno: procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento del servizio a soggetto privato ovvero procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato industriale cui affidare la gestione operativa del servizio in una società a partecipazione mista pubblica e privata.
In ogni caso, non va dimenticato che, in base all’attuale disciplina generale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, le pubbliche amministrazioni possono sempre decidere di gestire direttamente il servizio a mezzo di un soggetto rispondente al modello in house providing, modello quest’ultimo da non confondere con quello delle società miste a partecipazione pubblico-privata per le ragioni che saranno meglio specificate in seguito.
2.2. Considerato che l’art 149 bis Codice ambiente, qui in esame, fa riferimento ai “servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica”, è opportuno approfondire la nozione di servizio di rilevanza economica per verificarne l’eventuale coincidenza con la nozione comunitaria di servizio di interesse economico generale. L’articolo 2, comma 1, lett. i), d. lgs. 175/2016 definisce “«servizi di interesse economico generale»: i servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato”; la lett. h), d.lgs. cit. definisce invece “«servizi di interesse generale»: le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell'ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l'omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale”.
Sulla nozione di servizio pubblico locale avente rilevanza economica e sui rapporti con la nozione europea di servizi di interesse economico generale-SIEG, ora riferita, la Corte costituzionale, con sentenza n. 325 del 2010, ha affermato: “In àmbito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26 settembre 1996 e del 19 gennaio 2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del 21 maggio 2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’àmbito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo», come riconosciuto da questa Corte con la sentenza n. 272 del 2004. … Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che: a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato» …; b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21 settembre 1999, C-67/96, Albany International BV). Le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica”.
Tale precisazione è di particolare importanza perché, riconosciuta la corrispondenza tra l'espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica» e quella di «servizio di interesse economico generale», ne consegue la riconducibilità all'ambito materiale relativo alla tutela della concorrenza (Corte cost., 16 luglio 2014 n. 199) con conseguente attrazione nella sfera della potestà legislativa esclusiva dello Stato.
2.3. Giova inoltre osservare che, a livello locale, vi era una dettagliata disciplina legislativa dei servizi pubblici che, a partire dai primi anni novanta, ha subito una profonda evoluzione.
La prima normativa risale al 1903, la c.d. legge Giolitti, che disciplinò la gestione dei pubblici servizi da parte dell’ente locale, riconoscendo all’amministrazione ampia discrezionalità nella scelta degli strumenti più idonei, rappresentati all’epoca dall’azienda municipalizzata (con cui l’autorità pubblica agisce da imprenditore), dalla gestione diretta in economia e dalla concessione a terzi.
Dopo il T.U. 15 ottobre 1925, n. 2578 ed il decreto di attuazione d.P.R. n. 602/1926, con la legge n. 142 del 1990 (Ordinamento delle autonomie locali), e in particolare con l’articolo 22, si abbandonò la visione prevalentemente pubblicistica del servizio pubblico (avvalorando la nozione mista, oggettivo-soggettiva, di servizio pubblico) e si passò a modelli di gestione più efficienti ed economici individuando cinque tipologie organizzative: 1) la gestione in economia, nei casi in cui non è opportuno per le modeste dimensioni del servizio e l’esiguità del valore della prestazione creare un’autonoma azienda o una s.p.a.; 2) l’azienda speciale dotata di autonomia operativa, gestionale, contabile e statutaria; 3) la società mista a capitale pubblico-privato; 4) la concessione a terzi (provvedimento fiduciario che consente l’affidamento diretto senza l’espletamento di una gara); 5) l’istituzione per servizi di rilevanza non economica, organismo strumentale dell’ente pubblico dotato di autonomia, ma privo di propria personalità giuridica.
Va evidenziato che nell’articolo 22 ora citato nessun riferimento vi era, né poteva esserci, alle società in house.
Avviata la privatizzazione dei servizi pubblici nazionali ed istituite le Autorità di regolazione di servizi di pubblica utilità per energia elettrica, gas e telecomunicazioni, nel 1997, con la legge Bassanini, iniziò la privatizzazione dei gestori dei servizi pubblici a livello locale, con l’obbligo di trasformare le aziende pubbliche in s.p.a. e di dismissione progressiva del pacchetto azionario.
Nel 2000, il T.U. enti locali disciplinò i servizi pubblici locali all’articolo 113, articolo quest’ultimo che nel tempo è stato modificato più volte.
Successivamente intervenne l’articolo 23-bis, introdotto dalla legge n. 133/2008 (di conversione del decreto legge n. 112/2008, c.d. decreto Bersani) a delineare un’ampia riforma dei servizi pubblici locali. Con il d.l. 135/2009 (c.d. decreto Ronchi), l’articolo 23-bis venne interamente riformulato, da un lato, confermando che le sue disposizioni prevalevano sull’articolo 113 d. lgs. 267/2000 e, dall’altro, prevedendo espressamente la possibilità dell’affidamento a società miste, con una sola gara “a monte” per la scelta del socio privato a condizione che con la gara si attribuisse la qualità di socio operativo e non solo finanziatore.
In seguito alle modifiche citate, l’articolo 113 TUEL divenne norma di riferimento per la disciplina della proprietà delle reti e delle infrastrutture e della loro gestione mentre la gestione ed erogazione del servizio fu disciplinata dall’articolo 23-bis citato.
Tuttavia l’articolo 23-bis venne abrogato a seguito del referendum popolare del 12-13 giugno del 2011. A distanza di qualche tempo, con l’articolo 4 d.l. 138/2011 il legislatore adeguò la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica ai principi informatori sanciti a livello europeo, prevedendo come regola generale che gli enti locali avrebbero dovuto liberalizzare le attività economiche (c.d. concorrenza nel mercato), ove fosse stata possibile una gestione dei servizi pubblici rispettosa dei principi di proporzionalità, sussidiarietà ed efficienza; quando invece, in base ad una analisi di mercato, fosse stato accertato che lasciare il servizio alla libera concorrenza avrebbe pregiudicato l’universalità e l’accessibilità del servizio, l’amministrazione avrebbe potuto derogare alla concorrenza nel mercato prevedendo l’attribuzione di diritti di esclusiva e conseguentemente scegliere di indire una gara pubblica per selezionare il privato gestore (concorrenza per il mercato), oppure affidare in house il servizio oppure ancora costituire una società mista.
La norma è stata tuttavia dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con sentenza 199/2012, che l’ha ritenuta elusiva dell’esito del referendum del 2011.
Per effetto della sentenza n. 199/2012 si è quindi creato nuovamente un vuoto normativo sui servizi pubblici locali.
3. La gestione dei servizi pubblici: la disciplina attuale.
In attuazione degli articoli 16 e 19 della L. 7 agosto 2015, n. 124 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, è stato deliberato dal Consiglio dei Ministri del 20 gennaio 2016 uno “schema di decreto legislativo recante testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale”. Tuttavia, tale schema di decreto legislativo non è stato mai approvato in via definitiva perché - prima della sua adozione – è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale 25 novembre 2016, n. 251.
Pertanto la disciplina oggi è affidata ai principi dell’ordinamento UE, alla direttiva sulle concessioni e a quelli affermati dalla Corte di Giustizia U.E. nonché a specifiche disposizioni interne in materia di servizi pubblici. Occorre richiamare, sotto tale ultimo aspetto, l’articolo 113 TUEL per la disciplina della proprietà e della gestione delle reti, mentre, per la disciplina della gestione e dell’erogazione dei servizi pubblici si ricordano l’articolo 3-bis del d.l. n. 138/2011 (disciplina gli ambiti territoriali dei servizi pubblici locali), l’articolo 34, commi 20-27, d.l. n. 179/2012 (sui servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica) nonché l’articolo 8 del d.l. n. 1/2012 (disciplina delle carte dei servizi pubblici).
Tra queste disposizioni, in relazione ai quesiti formulati, va posto in evidenza l’articolo 34, comma 20, d. l. cit. che prevede: “Per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”.
4. Le concessioni
La concessione è uno strumento antico, utilizzato sin dalla fine dell’800, per la realizzazione e la gestione delle opere pubbliche, in alternativa all’appalto. In origine era uno strumento di diritto pubblico, un atto unilaterale ed autoritativo con cui la PA, per realizzare un’opera pubblica, sceglieva fiduciariamente il concessionario, al quale poi l’opera era concessa in gestione per consentirgli di recuperare le spese di costruzione.
Per tutelare la libertà di concorrenza e la parità degli operatori economici nel mercato, è intervenuto il diritto dell’Unione europea prevedendo la necessità di affidare anche le concessioni tramite procedure di evidenza pubblica; con la direttiva 2014/23/UE del 26 febbraio 2014, “Sull’aggiudicazione dei contratti di concessione”, infine, il legislatore europeo ha dettato per la prima volta una disciplina organica e dettagliata per la concessione di lavori e servizi.
Mentre il previgente codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/06), all’articolo 30, disponeva soltanto che la scelta del concessionario dovesse avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici, il codice attualmente vigente (d.lgs. 50/2016), recependo la direttiva 23 del 2014, contiene una dettagliata procedura di selezione del concessionario.
Per il Codice dei contratti pubblici, la concessione di servizi è un “contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall'esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi” (articolo 3, lett. vv) codice dei contratti pubblici).
Dalle disposizioni in questione emerge che le concessioni sono individuate in base a due elementi: 1) il diritto di gestire le opere o i servizi oggetto del contratto (quale corrispettivo riconosciuto in favore del concessionario); 2) il trasferimento al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dell’opera o del servizio.
Sino alla direttiva del 2014 non esisteva una definizione normativa di rischio operativo, con conseguente incertezza sull’individuazione della soglia oltre la quale tale rischio doveva ritenersi eliminato e trasferito sull’amministrazione concedente. La direttiva 2014/23/Ue, spiega efficacemente che “… la caratteristica principale di una concessione, ossia il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi aggiudicati in condizioni operative normali, anche se una parte del rischio resta a carico dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore. L’applicazione di norme specifiche per la disciplina dell’aggiudicazione di concessioni non sarebbe giustificata se l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore sollevasse l’operatore economico da qualsiasi perdita potenziale garantendogli un introito minimo pari o superiore agli investimenti effettuati e ai costi che l’operatore economico deve sostenere in relazione all’esecuzione del contratto” (considerando 18) e che “… Un rischio operativo dovrebbe derivare da fattori al di fuori del controllo delle parti. Rischi come quelli legati a una cattiva gestione, a inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di forza maggiore non sono determinanti ai fini della qualificazione come concessione, dal momento che rischi del genere sono insiti in ogni contratto, indipendentemente dal fatto che si tratti di un appalto pubblico o di una concessione. Il rischio operativo dovrebbe essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare da un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta ovvero contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato dell’offerta” (considerando 20).
L’art 164 del codice dei contratti pubblici individua oggetto e ambito di applicazione delle concessioni. In particolare, è previsto che alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II del codice, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione. Inoltre, è espressamente detto che i servizi non economici di interesse generale non rientrano nell'ambito di applicazione delle norme sulle concessioni.
5. Società in house
Con l’espressione in house providing si fa riferimento all’affidamento di un appalto o di una concessione da parte di un ente pubblico in favore di una società controllata dall’ente medesimo, senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica, in virtù della peculiare relazione che intercorre tra l’ente pubblico e la società affidataria.
La società in house è una società dotata di autonoma personalità giuridica che presenta connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione ad un "ufficio interno" dell’ente pubblico che l’ha costituita, una sorta di longa manus; non sussiste tra l’ente e la società un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale. Queste caratteristiche della società in house giustificano e legittimano l’affidamento diretto, senza previa gara, per cui un’amministrazione aggiudicatrice è dispensata dall’avviare una procedura di evidenza pubblica per affidare un appalto o una concessione. Ciò in quanto, nella sostanza, non si tratta di un effettivo "ricorso al mercato" (outsourcing), ma di una forma di "autoproduzione" o, comunque, di erogazione di servizi pubblici "direttamente" ad opera dell'amministrazione, attraverso strumenti "propri" (in house providing).
L’istituto, le cui radici si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, è espressione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche di cui all’articolo 2 della direttiva 2014/23/Ue che afferma: “le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni”.
In definitiva, un affidamento diretto ad un soggetto che non è sostanzialmente diverso dall’amministrazione affidante non può dare luogo alla lesione dei principi del Trattato e, in particolare, del principio di concorrenza, proprio perché si tratta non di esternalizzazione ma di autoproduzione della stessa P.A.
L’in house segna, dunque, una delicata linea di confine tra i casi in cui non occorre applicare le direttive appalti e concessioni, e la relativa normativa nazionale di trasposizione, ed i casi in cui invece è necessaria l’applicazione.
I requisiti delle società in house sono stati elaborati nel tempo dalla Corte UE; secondo la giurisprudenza della Corte, a partire dalla sentenza Teckal del 1999 sino alle direttive UE 23, 24 e 25/2014 in materia di appalti e concessioni, le procedure di evidenza pubblica possono escludersi tutte le volte in cui: 1) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri servizi interni (requisito strutturale); 2) il soggetto affidatario realizza la parte più importante della propria attività a favore dell’amministrazione aggiudicatrice che lo controlla (requisito funzionale).
Le condizioni necessarie per la configurazione del controllo analogo sono la partecipazione pubblica totalitaria e l’influenza determinante; sin dal 2005, la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; Corte di Giustizia UE 21 luglio 2005, C-231/03, Consorzio Coname; Corte di Giustizia UE, sez. I, 18 gennaio 2007, C-225/05, Je. Au.) ha chiarito che la partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi. La partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dovendosi ulteriormente verificare la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente pubblico più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile a favore del socio totalitario. L'amministrazione aggiudicatrice, infatti, deve essere in grado di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell'entità affidataria e il controllo esercitato deve essere effettivo, strutturale e funzionale (in tal senso, Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, Econord).
La Corte di Giustizia ha riconosciuto altresì che, a determinate condizioni, il controllo analogo può essere esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche che possiedono in comune l'ente affidatario, c.d. in house frazionato (Corte di Giustizia UE, 29 novembre 2012, in cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord), e che è configurabile un controllo analogo anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo, c.d. in house a cascata (Corte di Giustizia UE 11 maggio 2006 C-340/04).
Il secondo requisito indicato dalla Corte è costituito dalla prevalenza dell’attività svolta con l’ente affidante, ossia il soggetto in house deve svolgere la parte più importante della propria attività con il soggetto o i soggetti pubblici che lo controllano e la diversa attività, eventualmente svolta, deve risultare accessoria, marginale e residuale.
Sino alle direttive UE del 2014 non vi era una percentuale di attività predeterminata che doveva essere svolta in favore dell’ente affidante e, pertanto, l’interprete era tenuto a prendere in considerazione tutte le circostanze sia qualitative che quantitative del caso concreto.
Nel contesto sopra descritto sono intervenute le nuove direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici e le concessioni.
I requisiti dell’in house sono adesso chiaramente indicati dall’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24/UE, dall’articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2014/25/UE e dall’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE; tutte norme di identico tenore. Non è disciplinato solo l’in house, ma anche la cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici (c.d. accordi di collaborazione), la quale però rimane al di fuori dell’in house, in quanto non comporta la costituzione di organismi distinti rispetto alle amministrazioni interessate all’appalto o alla concessione.
In particolare, l’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, relativo alle concessioni tra enti nell’ambito del settore pubblico, prevede che una concessione aggiudicata da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva quando siano soddisfatti tutti i requisiti del controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi, quando oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante e non vi sia alcuna partecipazione di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto.
Le direttive sono state attuate con il d.lgs. 50/2016, recante il nuovo codice dei contratti pubblici che all’articolo 5, rubricato “principî comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico”, stabilisce una disciplina di principio che tratteggia nelle sue linee essenziali le caratteristiche principali dell’in house; le previsioni codicistiche ricalcano in buona parte le direttive.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, primo periodo, in presenza di determinate condizioni, le norme del codice non si applicano ai contratti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una “persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato”; ciò significa che i confini dell’in house sono stati estesi al di fuori del fenomeno delle società di diritto privato comprendendovi anche gli enti pubblici.
Per l’individuazione dell’in house sono richiesti adesso tre requisiti: 1) controllo analogo; 2) oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante; 3) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati.
In ordine al controllo analogo, è stabilito che “un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ... qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata” (articolo 5, comma 1, lett. a).
Quanto alla prevalenza dell’attività “intra moenia”, è previsto che oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante (articolo 5, comma 1, lett. b). Per determinare la citata percentuale deve prendersi in considerazione il fatturato totale medio, o altra idonea misura alternativa basata sull’attività quale, ad esempio, i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione (articolo 5, comma 7).
Si è chiarito che ove a causa della recente data di costituzione della persona giuridica o dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, i criteri citati non sono utilizzabili “è sufficiente dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile” (art. 5, comma 8).
Il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e, al contempo, sono state consentite forme di partecipazione di capitali privati - le quali però non devono comportare controllo o potere di veto - previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica.
Oltre al c.d. in house di tipo tradizionale, dalle direttive UE e dall’articolo 5 del codice dei contratti pubblici sono ricavabili anche altre forme di in house:
- in house a cascata: si caratterizza per la presenza di un controllo analogo indiretto “tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo” (articolo 5, comma 2); l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo analogo sull’organismo in house ed anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è comunque ammesso l’affidamento diretto;
- in house frazionato o pluripartecipato: ai sensi dell’articolo 5, comma 4, l’affidamento diretto è consentito anche in caso di controllo congiunto; le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono congiuntamente soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti; b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti;
- in house verticale “invertito” o “capovolto”, si ha quando il soggetto controllato, essendo a sua volta amministrazione aggiudicatrice, affida un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza pubblica: per il Codice degli appalti “il presente codice non si applica anche quando una persona giuridica controllata che è un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore, aggiudica un appalto o una concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore controllante …” (articolo 5, co. 3). Si verifica, pertanto, una sorta di bi-direzionalità dell’in house; la giustificazione a tale possibilità di affidamento diretto risiede nel fatto che mancando una relazione di alterità, i rapporti tra i due soggetti sfuggono al principio di concorrenza qualunque sia la “direzione” dell’affidamento;
- in house “orizzontale” che implica, invece, l’esistenza di tre soggetti; un soggetto A aggiudica un appalto o una concessione a un soggetto B, e sia A che B sono controllati da un altro soggetto C. Non vi è quindi alcuna relazione diretta tra A e B, ma entrambi sono in relazione di in house con il soggetto C, che controlla sia A che B; l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro.
6. Affidamento in house: regola o eccezione?
Per lungo tempo è stato ritenuto che i requisiti dell'inhouse providing dovessero essere interpretati restrittivamente (Cons. Stato, sez. II, n. 456/2007; Cons. Stato, sez. V, n. 5620/2010; Cons. Stato, sez. I, n. 2577/2011).
Si rilevava, al riguardo, che l'in house, così come costruito dalla giurisprudenza comunitaria, rappresentava, più che un modello di organizzazione dell'amministrazione, un'eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara (Cons. Stato, Ad.Pl. n.1/2008).
E ciò sulla base del principio secondo cui, in via generale, l’assenza totale di procedura concorrenziale per l’affidamento di una concessione di servizi pubblici non è conforme alle esigenze di cui agli artt. 43 CE e 49 CE, e nemmeno ai principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (C. giust. CE, 6 aprile 2006, C-410/04 e 13 ottobre 2005, C‑458/03).
In particolare si considerava che “l’affidamento diretto del servizio viola il principio di concorrenza sotto un duplice profilo: a) da una parte, sottrae al libero mercato quote di contratti pubblici, nei confronti dei quali le imprese ordinarie vengono escluse da ogni possibile accesso; b) dall’altra, si costituisce a favore dell’impresa affidataria una posizione di ingiusto privilegio, garantendole l’acquisizione di contratti. Il tutto si traduce nella creazione di posizioni di vantaggio economico che l’impresa in house può sfruttare anche nel mercato, nel quale si presenta come ‘particolarmente’ competitiva, con conseguente alterazione della par condicio” (Cons. Stato, Ad.Pl. n.1/2008).
Anche di recente questo Consiglio ha ritenuto di ribadire che l’in house rappresenta “un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante la gara” (sez. III, n. 2291/2015; sez. VI, n. 2660/2015; sez. III, n. 5732/2015; sez. II, n. 298/2015).
Occorre peraltro prendere atto dei mutamenti normativi e giurisprudenziali sopravvenuti, soprattutto a seguito delle direttive europee in materia di appalti (n. 2014/24/UE), di concessioni (n. 2014/23/UE) e sui settori speciali (n. 2014/25/UE), del codice appalti (d.lgs. n. 50/2016) e del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175/2016), di cui si dirà.
E pertanto, secondo una diversa prospettiva, l’autorità pubblica, in virtù del principio di libera amministrazione, può discrezionalmente decidere come devono essere gestiti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, vale a dire: mediante il ricorso al mercato - individuando l’affidatario mediante gara ad evidenza pubblica -; attraverso il c.d. partenariato pubblico privato - ossia per mezzo di una società mista e quindi con una gara a doppio oggetto per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio -; ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo (Cons. Stato, sez. V, n. 4599/2014; sez. V, n. 257/2015; sez. V, n. 1900/2016).
In ogni caso, da ultimo, il Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanze 7 gennaio 2019, n.138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale originata dal dubbio che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate (quindi su un piano subordinato ed eccezionale) rispetto alle altre modalità di affidamento, siano compatibili con le pertinenti disposizioni e principi del diritto primario e derivato dell'Unione europea, trattandosi di stabilire se il citato restrittivo orientamento ultradecennale dell'ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell'Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall'articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione).
Per completezza si segnala che il Tribunale amministrativo regionale della Liguria (ordinanza n. 886/2018) ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, (nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”) sulla base del principio secondo cui sarebbe acquisito – quantomeno in ambito europeo – il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica.
In attesa della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea (cui, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, spetta l’interpretazione dei trattati e degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione), il Consiglio ritiene che, a prescindere dall’eccezionalità o meno dell’in house providing, le norme che disciplinano questo istituto vadano interpretate restrittivamente anche per evitare che applicazioni analogiche, di fatto ampliandone il ricorso, possano trasformarsi in una lesione delle concorrenza che, come è noto, è tra i principi dell’Unione.
7. Le società a partecipazione pubblica.
La disciplina delle società a partecipazione pubblica è oggi contenuta nel d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, adottato in attuazione della delega di cui alla l. 124/2015; il T.U. costituisce il primo tentativo di disporre una disciplina organica in materia di società a partecipazione pubblica, ispirata a criteri di efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, di tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.
Il Testo unico introduce disposizioni dedicate alla disciplina dei comportamenti delle pubbliche amministrazioni che vogliano acquisire o mantenere lo status di soci di società di capitali ed un altro gruppo di norme contenenti le deroghe al diritto delle società necessarie in ragione della natura pubblica delle partecipazioni societarie.
Il legislatore delegato ha classificato le società pubbliche in base al controllo pubblico o alla partecipazione (diretta o indiretta) pubblica. La distinzione è, dunque, quella tra società controllate e società meramente partecipate (articolo 2, comma 1, lett. n).
L’intento perseguito dal legislatore con il Testo unico è stato quello di applicare la disciplina civilistica alle società a partecipazione pubblica, contenendo le deroghe nella misura strettamente necessaria al concreto soddisfacimento dell’interesse pubblico di volta in volta perseguito attraverso la costituzione di una società o la detenzione di partecipazioni societarie. Conseguentemente, il testo stabilisce che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato” (articolo 1, comma 3, T.U.).
Il D.Lgs. 16 giugno 2017, n. 100 ha poi previsto "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" anche per adeguarsi alla sentenza della Corte cost. 25 novembre 2016, n. 251 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di buona parte dell'art. 18 della L. 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e cioè della norma di delega in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.
8. Società in house e società miste
Giova ora sottolineare che i due modelli della società mista e della società in house non vanno sovrapposti. Il Consiglio di Stato ha avuto modo di esprimersi, con parere n. 456 del 2007, sulle distinte modalità di affidamento chiarendo che “l’evoluzione giurisprudenziale consente, altresì, di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house providing”.
Sul punto, si ricorda che l’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008 ha definito i requisiti e le condizioni di affidamento alle società in house ed alle società a partecipazione mista pubblico privata, delineando i rispettivi tratti distintivi. Tale impostazione si è poi consolidata con la decisione della Corte di Giustizia secondo cui “gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE non ostano all'affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda l'esecuzione preventiva di determinati lavori, come quello di cui trattasi nella causa principale, a una società a capitale misto, pubblico e privato, costituita specificamente al fine della fornitura di detto servizio e con oggetto sociale esclusivo, nella quale il socio privato sia selezionato mediante una procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici, operativi e di gestione riferiti al servizio da svolgere e delle caratteristiche dell'offerta in considerazione delle prestazioni da fornire, a condizione che detta procedura di gara rispetti i principi di libera concorrenza, di trasparenza e di parità di trattamento imposti dal Trattato per le concessioni” (Corte UE, sez. III, 15 ottobre 2009 C-196/08).
Per quanto di interesse in questa sede, giova sottolineare che dal testo unico, in linea con l’evoluzione normativa che si è delineata, emerge chiaramente la differenza tra le società in house, oggetto di disciplina all’articolo 16, e le società miste a partecipazione pubblico-privato, disciplinate al successivo articolo 17. Più precisamente l’articolo 16 stabilisce che le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto; in modo sensibilmente differente, invece, il successivo articolo 17 stabilisce che nelle società a partecipazione mista pubblico-privata la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica a norma dell'articolo 5, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e ha a oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l'acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l'affidamento del contratto di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell'attività della società mista.
Emergono dunque notevoli differenze sia con riferimento alle modalità di affidamento del contratto sia in relazione al diverso ruolo del socio privato che, nelle società in house non deve avere un ruolo determinante e che, al contrario, nelle società miste deve essere determinante tanto che l’articolo 17, comma 2, prescrive per quest’ultimo il possesso dei requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita.
8.1 Società in house e partecipazione dei privati
In effetti uno dei requisiti tradizionalmente caratterizzanti la definizione comunitaria di in houseproviding è dato dalla natura integralmente pubblica del capitale della società controllata, ritenendosi invece non ammissibile la partecipazione anche minoritaria di soci privati.
Ad. es. Corte Giust. CE, sez. I, 11 gennaio 2005, C-26/03, caso Standt Halle, ha statuito che “la partecipazione, anche minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice … esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”. E ciò in quanto “il rapporto tra un'autorità pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un'impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente” e “una procedura siffatta offrirebbe ad un'impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.
Tali considerazioni sono state, più di recente, ribadite da Corte giust., sez. I, 19 giugno 2014, C-574/12, caso Centro Hospitalar de Setúbal EPE, secondo cui “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, poiché qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente rispetto a quelli di interesse pubblico”.
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato è giunta alle medesime conclusioni, a partire dall’Adunanza plenaria n. 1/2008 :“La sussistenza del controllo "analogo" viene esclusa in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, essendo necessaria la partecipazione pubblica totalitaria: deve pertanto escludersi, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della società mista a quello dell'"in house providing" (v. anche Cons. Stato, sez. V, n. 5079/2014; Cons. Stato, sez. VI, n. 2660/2015; Cons. Stato, sez. V, n. 4253/2015; Cons. Stato, sez. I, n. 1645/2018; Cons. Stato, sez. I, n. 2583/2018; Cons. Stato, sez. I, n. 883/2019; Cons. Stato, sez. I, n. 1645/2018).
Tale orientamento peraltro è stato anche condiviso dalla Corte di Cassazione: “È possibile che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici, e che occorre pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari” (Cass. SS.UU. n. 5491-2014).
Senonché – come prima accennato al paragrafo 5 – il quadro di riferimento normativo è stato parzialmente modificato dalla direttiva 2014/24/UE che, se da un lato ha confermato e sottolineato che “l'aggiudicazione di un appalto pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all'operatore economico privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti” (32° considerando), dall’altro ha consentito forme di partecipazione di capitali privati, purché sussistano i requisiti di cui all'art. 12, comma 1, lett. c) (“nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata”).
In tal modo sono stati modificati, in parte, i tratti distintivi dell’in house (Cons. Stato, Comm. Spec. n. 268/2016).
In definitiva, nel rispetto di determinati presupposti, appare astrattamente consentita la partecipazione diretta di capitali privati nell'ente in house controllato, quale – è bene sottolinearlo - eccezione di stretta interpretazione alla regola della totale partecipazione pubblica.
In ogni caso gli interpreti hanno sottolineato che tale radicale riforma normativa - che, come visto, si pone in contrasto con gli orientamenti consolidati della Corte di giustizia - introdurrebbe modi di gestione estranei alla tutela degli interessi pubblici e, comunque, il capitale privato sarebbe ammesso solo per quelle esigenze imperative che consentono di derogare ai principi del Trattato.
8.2 Partecipazione dei privati, codice dei contratti e T.U. sulle società a partecipazione pubblica
In attuazione della direttiva 2014/24/UE, l’art 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti) ha previsto che nella persona giuridica controllata non vi debba essere “alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
Successivamente l’articolo 16, comma 1, del d. lgs. 175/2016 (T.U. sulle società a partecipazione pubblica) ha stabilito che: “le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l'esercizio di un'influenza determinante sulla società controllata”.
Al riguardo, non può non evidenziarsi che, mentre il Codice dei contratti fa riferimento a forme di partecipazione di capitali previste dalla legislazione nazionale, il T.U. sulle società a partecipazione pubblica considera ammessa una partecipazione al capitale sociale dei privati a condizione che la stessa sia prescritta da una disposizione di legge nazionale.
Tale differenza semantica tre le due disposizioni nazionali (previste-prescritta) ha fatto ritenere che non occorre che partecipazione sia “prescritta” ma è sufficiente che sia consentita. E ciò in quanto la partecipazione di soggetti privati al capitale di un ente societario, in ossequio all'autonomia che li caratterizza, può essere prevista ma non può essere imposta da una norma di legge nel nostro ordinamento.
Tali considerazioni – che pure hanno un qualche fondamento – non considerano, però, il dato positivo, peraltro conseguente ad una fonte (il Testo unico sulle società a partecipazione pubblica) che si pone quale equiordinata alla precedente (Codice dei contratti) ma prevalente in quanto lex posterior.
D’altro canto l’espressione “prescritta” è esattamente quella contenuta nella direttiva comunitaria.
E, in effetti, i “considerando” n. 32 della direttiva appalti e n. 46 della direttiva concessioni espressamente affermano la necessità di una partecipazione non facoltativa, ma obbligatoria, in ragione di valutazioni effettuate dal legislatore interno: “L’esenzione non dovrebbe estendersi alle situazioni in cui vi sia partecipazione diretta di un operatore economico privato al capitale della persona giuridica controllata poiché, in tali circostanze, l’aggiudicazione di un appalto pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all’operatore economico privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. Tuttavia, date le particolari caratteristiche degli organismi pubblici con partecipazione obbligatoria, quali le organizzazioni responsabili della gestione o dell’esercizio di taluni servizi pubblici, ciò non dovrebbe valere nei casi in cui la partecipazione di determinati operatori economici privati al capitale della persona giuridica controllata è resa obbligatoria da una disposizione legislativa nazionale in conformità dei trattati, a condizione che si tratti di una partecipazione che non comporta controllo o potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata. Si dovrebbe inoltre chiarire che l’unico elemento determinante è la partecipazione privata diretta al capitale della persona giuridica controllata. Perciò, in caso di partecipazione di capitali privati nell’amministrazione aggiudicatrice controllante o nelle amministrazioni aggiudicatrici controllanti, ciò non preclude l’aggiudicazione di appalti pubblici alla persona giuridica controllata, senza applicare le procedure previste dalla presente direttiva in quanto tali partecipazioni non incidono negativamente sulla concorrenza tra operatori economici privati”.
Occorre quindi che, a livello interno, la partecipazione sia “prescritta”, e non meramente consentita perché:
- la direttiva usa il termine “prescritte”, e non semplicemente “previste”;
- i considerando n. 32 della direttiva appalti e n. 46 della direttiva concessioni espressamente affermano la necessità di una partecipazione non facoltativa, ma obbligatoria, in ragione di valutazioni effettuate dal legislatore interno;
- anche l’analisi comparativo-linguistica della direttiva, fondamentale ai fini dell’indagine del suo significato letterale, conferma il significato forte dell’impiego del termine “prescritta” (Corte dei Conti, sez. controllo Campania, 108/2016).
A tali esiti, del resto, è giunto anche questo Consiglio con il parere Comm. Spec. n. 968/2016 secondo cui la norma europea “non ha inteso autorizzare in generale la partecipazione dei privati ma ha rinviato alle specifiche disposizioni di legge che le «prevedono». Tale forma di rinvio deve però essere fatto a disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la partecipazione”.
È stato rilevato, inoltre, che, all'art. 5, comma 1 del Codice dei contratti si prevede che i privati non debbono esercitare "un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata", ma non si fa menzione del potere di controllo e di quello di veto, cui si riferisce invece l'art. 16, comma 1, del T.U. Tale differenza appare tuttavia superabile in base ad una interpretazione comunitariamente orientata dell'art. 5, comma 1, lett. c) del Codice, con la conseguenza che il contenuto di quest'ultima disposizione, anche sotto questo profilo, non sembra sostanzialmente diverso da quello dell'art. 16, comma 1, del T.U..
La ulteriore diversa formulazione della disposizione del codice degli appalti (“forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale”) rispetto a quella del T.U. sulle società a partecipazione pubblica (“ad eccezione di quella prescritta da norme di legge”) potrebbe far insorgere il dubbio se fonti diverse da quelle statali - quali quelle regionali - possano prevedere l'ingresso dei privati.
In senso favorevole si era espresso il Consiglio di Stato nel parere n. 2583/2018 – su quesito proposto dalla stessa Regione Piemonte - che peraltro riguardava la specifica materia del turismo che – come è noto – appartiene alla competenza "esclusiva" delle Regioni a statuto ordinario.
In via generale, invece - anche alla luce del canone ermeneutico sopra detto secondo cui i requisiti dell'in house providing, costituendo un'eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente - la disciplina sulle società in house appartiene alla potestà esclusiva del legislatore nazionale, trattandosi di materia attinente alla concorrenza.
Quindi non v’è spazio per la legislazione regionale.
9. La disciplina in materia di gestione del servizio idrico
Il legislatore comunitario, con riferimento al settore idrico, ha affermato che “le concessioni nel settore idrico sono spesso soggette a regimi specifici e complessi che richiedono una particolare considerazione data l’importanza dell’acqua quale bene pubblico di valore fondamentale per tutti i cittadini dell’Unione. Le caratteristiche particolari di tali regimi giustificano le esclusioni nel settore idrico dall’ambito di applicazione della presente direttiva. L’esclusione riguarda le concessioni di lavori e di servizi per la messa a disposizione o la gestione di reti fisse destinate alla fornitura di un servizio al pubblico in connessione con la produzione, il trasporto o la distribuzione di acqua potabile o l’alimentazione di tali reti con acqua potabile. Anche le concessioni per lo smaltimento o il trattamento delle acque reflue e per progetti di ingegneria idraulica, irrigazione o drenaggio (in cui il volume d’acqua destinato all’approvvigionamento d’acqua potabile rappresenti più del 20 % del volume totale d’acqua reso disponibile da tali progetti o impianti di irrigazione o drenaggio) dovrebbero essere escluse nella misura in cui siano collegate a una attività esclusa” (considerando 40 direttiva 2014/23/UE).
Per tale ragione, la direttiva comunitaria, pur avendo disciplinato per la prima volta l’affidamento delle concessioni dei servizi pubblici, ne ha escluso espressamente l’applicazione al settore idrico (considerando 40 e articolo 12 direttiva 2014/23/UE; articolo 12 codice dei contratti pubblici).
Analogamente l’articolo 12 Codice Contratti stabilisce:
“1. Le disposizioni del presente codice non si applicano alle concessioni aggiudicate per:
a) fornire o gestire reti fisse destinate alla fornitura di un servizio al pubblico in connessione con la produzione, il trasporto o la distribuzione di acqua potabile;
b) alimentare tali reti con acqua potabile.
2. Le disposizioni del presente codice non si applicano alle concessioni riguardanti uno o entrambi dei seguenti aspetti quando sono collegate a un'attività di cui al comma 1:
a) progetti di ingegneria idraulica, irrigazione, drenaggio, in cui il volume d'acqua destinato all'approvvigionamento d'acqua potabile rappresenti più del 20 per cento del volume totale d'acqua reso disponibile da tali progetti o impianti di irrigazione o drenaggio;
b) smaltimento o trattamento delle acque reflue”.
Inoltre, il settore idrico rientra tra i c.d. settori speciali e per gli appalti si applica dunque la disciplina più elastica e flessibile propria dei settori speciali (articolo 117 codice dei contratti pubblici).
Giova ricordare inoltre che, pur non essendo applicabile la disciplina del codice dei contatti, occorre pur sempre osservare, ai sensi dell’articolo 4 d.lgs. n. 50/2016, i principi relativi ai contratti esclusi: “1. L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”.
Per il vero con l’articolo 1, comma 1, lett. hhh) legge n. 11 del 2016, il Parlamento aveva delegato il Governo a provvedere alla: “hhh) disciplina organica della materia dei contratti di concessione mediante l’armonizzazione e la semplificazione delle disposizioni vigenti, nonché la previsione di criteri per le concessioni indicate nella sezione II del capo I del titolo I della direttiva 2014/23/UE, nel rispetto dell’esito del referendum abrogativo del 12-13 giugno 2011 per le concessioni nel settore idrico, introducendo altresì criteri volti a vincolare la concessione alla piena attuazione del piano finanziario e al rispetto dei tempi previsti dallo stesso per la realizzazione degli investimenti in opere pubbliche, nonché al rischio operativo ai sensi della predetta direttiva 2014/23/UE, e a disciplinare le procedure di fine concessione e le modalità di indennizzo in caso di subentro”. La delega, tuttavia, non è stata attuata.
Così ricostruito il quadro normativo, va conseguentemente affermato che il d.lgs. 152/2006 (codice dell’ambiente) rappresenta il punto di riferimento della regolazione del settore idrico e, in particolare, l’art 149-bis per le forme di affidamento.
Tale disposizione, come prima ricordato, prevede che “L'ente di governo dell'ambito, nel rispetto del piano d'ambito di cui all'articolo 149 e del principio di unicità della gestione per ciascun ambito territoriale ottimale, delibera la forma di gestione fra quelle previste dall'ordinamento europeo provvedendo, conseguentemente, all'affidamento del servizio nel rispetto della normativa nazionale in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica. L'affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall'ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell'ambito territoriale ottimale”.
Appare superfluo in questa sede rammentare le ragioni che hanno indotto il legislatore a introdurre tale disposizione con il decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 novembre 2014, n. 164 - cui comunque si è fatto cenno al paragrafo 1 di questo parere – e che hanno avuto il punto cruciale nel referendum del 12-13 giugno 2011, promosso proprio per consentire il ritorno ad una gestione pubblica di servizi essenziali come quello idrico, ancorché, com’è noto, il risultato referendario abbia riguardato l'intero settore dei servizi pubblici locali.
Tali complesse e certamente contraddittorie vicende – sia normative che giurisprudenziali – sono evidentemente conseguenti alla peculiarità del bene-acqua che è risorsa limitata, la cui rilevanza economica deriva, quindi, dalla sua scarsezza.
E a fronte di tale manifesta esigenza di chiarezza normativa è stato rilevato come la disciplina comunitaria non abbia dato significati contributi in termini di armonizzazione del mercato.
Non rimane, quindi che constatare che l’attuale disciplina delle forme di gestione del sistema idrico integrato sono quelle previste dall'ordinamento europeo per la generalità dei servizi pubblici locali.
Con l’ulteriore conseguenza che l'affidamento diretto a società in house richiede i requisiti previsti dall'ordinamento europeo per tali servizi.
Giova osservare inoltre che gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche, fino al punto di consegna o misurazione, fanno parte del demanio “accidentale”, ai sensi dell'art. 822 ss. c.c. e come confermato dall'art. 143, comma 1, d.lg. n. 152 del 2006. Ai sensi dell'art. 153, comma 1, d.lg. n. 152 del 2006, le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali devono essere affidate in concessione d'uso gratuita per tutta la durata della gestione al gestore del servizio idrico integrato che ne assume i relativi oneri secondo le clausole contenute nella convenzione (che regola i rapporti tra ente locale e gestore) e nel relativo disciplinare (Corte cost. 4 maggio 2017 n. 93).
10. Conclusioni
In conclusione, la Sezione osserva che l'articolo 7 della legge della regione Piemonte 20 gennaio 1997, n. 13, nel riferirsi alla legge 142/1990, prende in considerazione l’affidamento del servizio o attraverso concessione a terzo scelto tramite gara oppure attraverso le società miste pubblico-privato; nessuna indicazione, invece, fornisce per il possibile affidamento in house anche in considerazione del fatto che all’epoca l’in house non si era ancora sviluppato e certamente non era oggetto di disciplina normativa.
Inoltre, l’articolo 149-bis del codice dell'ambiente, facendo richiamo ai principi nazionali e comunitari, va interpretato nel senso che, nel rispetto dell’articolo 34, comma 20, d.l. 179/2012, si possa, tra l’altro, scegliere:
a) di esperire una gara per la scelta del concessionario-gestore privato cui affidare la gestione del servizio idrico;
b) di costituire una società mista, con socio operativo/industriale, cui conferire la gestione del servizio, a condizione che la gara per la scelta del socio sia preordinata alla individuazione del socio industriale od operativo che concorra materialmente allo svolgimento del servizio pubblico nel rispetto di quanto oggi stabilito dal d. lgs. 175/2016 (e, tra l’altro, dagli articoli 7 e 17 d. lgs. ora citato) nonché dalla giurisprudenza comunitaria (Corte UE, sez. III, 15 ottobre 2009 C196/08) e nazionale.
c) di affidarlo a società in house.
In quest’ultimo caso, come detto, occorrerà rispettare le condizioni richieste dalla disciplina europea così come sopra delineate.
Con la conseguenza che il dubbio sollevato dalla regione Piemonte va sciolto nel senso che la partecipazione di privati al capitale della persona giuridica controllata è ammessa solo se prescritta espressamente da una disposizione legislativa nazionale, in conformità dei trattati e a condizione che si tratti di una partecipazione che non comporti controllo o potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata.
Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio, poiché, per un verso, la norma di riferimento per l’affidamento della gestione del servizio idrico è l’articolo 149-bis del codice dell’ambiente che chiaramente lo esclude e, per altro verso, manca una norma di legge che espressamente lo prescriva, la risposta al primo quesito deve essere negativa: sino a quando una specifica disposizione di legge nazionale, diversa dagli articoli 5 d. lgs. 50/2016 e 16 d. lgs. 175/2016, infatti, non prescriverà che i privati partecipino ad una società in house – indicando anche la misura della partecipazione, la modalità di ingresso del socio privato, il ruolo all’interno della società e i rapporti con il socio pubblico – l’apertura dell’in house ai privati deve ritenersi esclusa.
Giova altresì ribadire che non può giungersi a diversa conclusione, come prospettato dalla regione richiedente, in considerazione del richiamo all’ “ordinamento europeo” che vi è nell’articolo 149 bis Cod. amb. perché, proprio l’ordinamento europeo richiamato, impone una specifica previsione nazionale che prescriva (e disciplini) la partecipazione dei privati alle società in house (in termini analoghi i già richiamati articoli 5 Codice dei contratti pubblici e 16 d. lgs. 175/2016).
Per chiarezza terminologica la Sezione rileva, inoltre, che il riferimento al socio industriale contenuto a pagina 6 del quesito risulta corretto per le società miste mentre nel caso di società in house non può, per le ragioni prima esposte, portare a dare rilievo/influenza (maggiore di quella voluta dalla direttiva comunitaria) al socio privato a prescindere da come lo si voglia qualificare.
La risposta in termini negativi al primo quesito esonera la Sezione dal rispondere al secondo quesito. Tuttavia il Consiglio, ferma restando l’autonomia del legislatore regionale nel valutare l’ambito di un suo intervento, ricorda che le discipline esposte in questo parere afferiscono – come sopra detto - alla “tutela della concorrenza” e, dunque, rientrano in larga parte nella materia indicata dall’articolo 117, comma 2, lett. e), Cost. riservata al legislatore nazionale (ex multis, Corte cost. 401/2007; Corte cost., 16 luglio 2014 n. 199).
P.Q.M.
nelle suesposte considerazioni è il parere della Sezione.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Vincenzo Neri Mario Luigi Torsello