Cass. Sez. III n. 16044 del 12 aprile 2019 (Pu 28 feb 2019)
Pres. Izzo Est. Ramacci Ric. Rossi
Acque. Scarichi provenienti dall’attività casearia
Gli scarichi provenienti dall’attività casearia restano soggetti alla disciplina generale sugli scarichi, in quanto si tratta di un’attività del tutto diversa da quella dell’allevamento di bestiame, perché concernente la lavorazione successiva di uno dei prodotti dell’allevamento medesimo, fra le quali può essere ricompresa, in linea di principio, anche l’attività di trasformazione casearia di uno dei possibili prodotti dell’allevamento del bestiame. A tale assimilazione, tuttavia, il legislatore pone una ulteriore delimitazione la quale, richiamando un rapporto di stretta connessione funzionale, considera la sola trasformazione e valorizzazione del prodotto, effettuata, però, utilizzando materia prima lavorata che deve pervenire in misura prevalente dall’attività di coltivazione dei terreni di cui l’impresa disponga a qualsiasi titolo.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'Appello di Brescia, con sentenza del 24 aprile 2018 ha confermato la decisione con la quale, in data 11 dicembre 2017, il Tribunale di Bergamo aveva affermato la responsabilità penale di Davide ROSSI per il reato di cui agli artt. 81 cod. pen. e 137, commi 1 e 2 d.lgs. 152/2006, perché, nella sua qualità di titolare dell'azienda agricola “Alfons David” e di proprietario dei terreni di cui ai mappali 7504760-4969 censiti al NCT sezione di Mologno - Comune di Casazza, installava ed attivava, in assenza di autorizzazione, una tubazione interrata che collega la vasca di raccolta delle acque reflue industriali, provenienti dal laboratorio caseario dell'azienda agricola, alla “Valletta dello Schittone”, così effettuando uno scarico non autorizzato in violazione del comma 1 dell'art. 137, nonché per avere superato i limiti tabellari previsti per le acque reflue industriali per i parametri NH4, COD, grassi ed oli animali e vegetali, tensioattivi totali, solidi sospesi, fosforo totale, manganese, clonili ed idrocarburi in occasione del sopralluogo e prelievo del 18/6/2013 in violazione dell'art. 137, comma 2 d.lgs. 152/2006 (fatti accertati in Casazza, il 18/6/2013 ed il 22/8/2014.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando di aver rinnovato, innanzi alla Corte d'Appello, l'eccezione di inutilizzabilità degli esiti degli accertamenti di polizia giudiziaria svolti il 18 giugno 2013 da personale del Corpo Forestale presso l'azienda agricola, perché eseguiti in violazione del combinato disposto degli artt. 220 e 223 disp. att. cod. proc. pen.
Rileva, a tale proposito, che la Corte d'Appello non avrebbe offerto adeguata risposta alla specifica rimostranza difensiva secondo cui la mera possibilità di rilevanza penale del fatto avrebbe dovuto far scattare il disposto di cui all'art. 220 citato, garantendo, in quella particolare fase delle analisi di quanto campionato, un effettivo contraddittorio tecnico, che, in realtà, non vi sarebbe stato.
La Corte d'Appello, inoltre, avrebbe dato conto di un'informazione verbale all'imputato circa l'apertura dei campioni e le successive analisi che non sarebbe, tuttavia, riscontrabile nel verbale di prelievo, al quale, invece, fa riferimento il verbale di apertura dei campioni.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e, segnatamente, dell'art. 101, comma 7, lett. b) d.lgs. 152/2006, il quale avrebbe equiparato i reflui da allevamento alle acque reflue domestiche.
Aggiunge che sarebbe errata la conclusione cui è pervenuta la Corte territoriale, la quale ha ritenuto decisivo il fatto che, oltre all'allevamento, nell’azienda veniva svolta anche attività casearia, in quanto il legislatore, nel riferirsi al bestiame, ha utilizzato un'accezione comune che rappresenta gli animali i quali, principalmente con finalità di profitto, producono cibo, fibre tessili o vengono utilizzati per il lavoro ed, inoltre, non avrebbe utilizzato l'avverbio “esclusivamente” che, invece, tipizza la fattispecie prevista dalla precedente lettera del medesimo art. 101, laddove si riferisce “alle imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del terreno e/o alla silvicoltura”.
4. Con un terzo motivo di ricorso censura il mancato riconoscimento dei presupposti per l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., sostenendo che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto di dati oggettivi significativi, quali i volumi di produzione di latte rilevati in occasione del sopralluogo e l'oggettiva incertezza interpretativa offerta dalla formulazione dell'art. 101, comma 7 lett. b), che avrebbe potuto ragionevolmente indurre l'imputato, imprenditore agricolo, a ritenere di poter beneficiare della equiparazione ex lege dei propri reflui a quelli domestici.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile perché basato su motivi manifestamente infondati.
2. Occorre ricordare, in linea generale, quanto al primo motivo di ricorso, come l'art. 220 disp. att. cod. proc. pen. stabilisca che «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice».
Dalla semplice lettura emerge che la norma presuppone, per la sua applicazione, un'attività di vigilanza o ispettiva in corso di esecuzione specificamente prevista da disposizioni normative e la sussistenza di indizi di reato emersi nel corso dell'attività medesima. Solo in tal caso è richiesta l'osservanza delle disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all'assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quanto altro necessario per l'applicazione della legge penale.
La disposizione, che va letta in relazione anche al successivo articolo 223, relativo alle analisi di campioni da effettuare sempre nel corso di attività ispettive o di vigilanza ed alle garanzie dovute all'interessato, ha lo scopo evidente di assicurare l'osservanza delle disposizioni generali del codice di rito dal momento in cui, in occasione di controlli di natura amministrativa, emergano indizi di reato.
L’art. 223 citato stabilisce “qualora nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti si debbano eseguire analisi di campioni per le quali non è prevista la revisione, a cura dell'organo procedente è dato, anche oralmente, avviso all'interessato del giorno, dell'ora e del luogo dove le analisi verranno effettuate. L'interessato o persona di sua fiducia appositamente designata possono presenziare alle analisi, eventualmente con l'assistenza di un consulente tecnico. A tali persone spettano i poteri previsti dall'articolo 230 del codice”.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, presupposto dell'operatività dell’art. 220 non è l'insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall'art. 192 cod. proc. pen., quanto, piuttosto, la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005 (dep. 2006), Cacace, Rv. 233330; Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291. Conf. Sez. 3, n. 3207 del 2/10/2014 (dep. 2015), Calabrese, Rv. 262010).
Con specifico riferimento al prelievo di campioni da utilizzare in successive analisi, si è chiarito che occorre distinguere tra il prelevamento inerente ad attività amministrativa disciplinato dall'art. 223 disp. att. cod. proc. pen. e quello relativo ad attività di polizia giudiziaria, anche se precedente all'acquisizione della "notitia criminis", per il quale è applicabile l'art. 220 disp. att. cod. proc. pen., poiché operano, in tale seconda ipotesi, in via genetica le norme di garanzia della difesa previste dal codice di rito, determinandosi una nullità d'ordine generale di cui all'art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. nel caso della loro inosservanza, mentre, per la prima, i diritti della difesa devono essere assicurati solo laddove emergano indizi di reato, nel qual caso l'attività amministrativa non può più definirsi "extra-processum"(Sez. 3, n. 5235 del 24/5/2016 (dep. 2017), Lo Verde, Rv. 269213. Conf. Sez. 2, n. 52793 del 24/11/2016, Ballaera, Rv. 268766; Sez. 3, n. 10484 del 12/11/2014 (dep. 2015), Grue, Rv. 262698; Sez. 3, n. 15372 del 10/2/2010, Fiorillo, Rv. 246597; Sez. 3, n. 23369 del 14/5/2002, PM in proc. Scarpa, Rv. 221627).
L'avviso all'interessato del giorno, dell'ora e del luogo di esecuzione delle analisi su campioni, svolte nel corso di attività ispettive o di vigilanza, in tali casi, non prescrive la notifica e non prevede particolari modalità, essendo utilizzabile qualunque strumento idoneo a comunicare le informazioni necessarie (Sez. 3, n. 9790 del 19/12/2014 (dep. 2015), Arsena, Rv. 262750), ciò in quanto l'unica garanzia richiesta per le anzidette attività ispettive è quella prevista dall'art. 223 disp. att. cod. proc. pen., che impone il preavviso all'interessato del giorno, dell'ora e del luogo dove si svolgeranno le analisi dei campioni (Sez. 3, n. 15170 del 29/1/2003, Piropan M, Rv. 224456).
3. Fatte tali premesse, deve rilevarsi che la Corte territoriale, nel confermare l’infondatezza dell’eccezione già respinta in precedenza dal primo giudice, ha posto in evidenza alcuni dati fattuali significativi, con i quali il ricorrente non si confronta se non in parte.
I giudici del gravame hanno, in primo luogo, specificato che nel giudizio di primo grado la difesa aveva eccepito la violazione dell'art. 360 cod. proc. pen., proponendo per la prima volta nel giudizio di appello la questione della inutilizzabilità degli accertamenti per l'omesso avviso all'interessato personalmente.
La Corte territoriale osserva, poi, che gli accertamenti svolti presso l'azienda dell'imputato erano atti di iniziativa della Provincia di Bergamo, autorità del tutto autonoma rispetto alla polizia locale che aveva esperito precedenti accertamenti su segnalazione contro ignoti e che la Provincia, assistita da personale del Corpo Forestale, del comune di Casazza e della A.S.L. territoriale aveva effettuato l'accertamento nell'esercizio delle sue funzioni istituzionali ispettive e di vigilanza.
Inoltre, osservano sempre i giudici del gravame, nonostante la pendenza di tale attività di accertamento, il pubblico ministero non aveva ravvisato negli atti trasmessi fino ad allora nemmeno gli estremi per il passaggio al registro degli indagati noti (con l'iscrizione del ROSSI) di un fascicolo iscritto a “modello 44” contro ignoti, per il quale aveva poi chiesto l'archiviazione il 31 ottobre 2013.
Aggiungono, inoltre, che della lettura del verbale redatto il 19 giugno 2013 dal personale del corpo forestale riguardo a quanto accaduto nel corso dell'attività di prelievo dei campioni, emerge che il ROSSI, dopo aver indicato dove fosse lo scarico, si era allontanato in modo risentito, affermando di aver fatto tutto ciò che era necessario per ottenere i permessi per lo scarico e non aveva partecipato alle attività, sicché l'assenza durante prelievi sia dell'imputato che del difensore era da ritenersi imputabile esclusivamente alla condotta del primo.
Sempre per ciò che riguarda il mancato avviso, la Corte territoriale evidenzia anche che, nel verbale di apertura del campione del 19 giugno 2013, risulta che la data e l'ora di apertura del medesimo erano state comunicate mediante verbale di prelievo, dovendosi conseguentemente ritenere che l'imputato, presente al controllo, sia stato verbalmente informato.
4. Ciò posto, osserva il Collegio che la sentenza impugnata, sulla base di elementi fattuali concreti, illustrati in maniera congrua e non contraddittoria, rende opportunamente conto del fatto che l’attività ispettiva, svolta per iniziativa di un ente, quale l’amministrazione provinciale, cui è demandata attività ispettiva e di vigilanza estranea all’attività di polizia giudiziaria, veniva svolta in un ambito che non aveva alcuna attinenza con situazioni in quel momento suscettibili di valutazione in sede penale, chiarendo anche la diversa ed autonoma sorte che aveva avuto l’unico, a quanto pare, procedimento iscritto dalla Procura della Repubblica contro ignoti e poi archiviato.
La circostanza, indicata i ricorso, che le autorità intervenute nel sopralluogo, alla luce delle precedenti segnalazioni effettuate alla Procura, non potessero non ipotizzare la rilevanza penale di quanto andavano verificando, resta una mera supposizione di una circostanza indimostrabile in assenza di dati oggettivi, tale non essendo, per le ragioni indicate dalla Corte di appello, la preesistenza di un fascicolo contro ignoti.
Del resto, ragionando nel senso che sembra prospettare il ricorrente, non sarebbe mai possibile escludere una simile evenienza, atteso che qualsiasi attività del genere potrebbe concludersi con la scoperta di un reato, con la conseguenza che chi vi procede, al fine di evitare che gli atti compiuti siano poi ritenuti inutilizzabili, dovrebbe sempre operare secondo quanto stabilito dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., restando il successivo art. 223 sottratto a qualsiasi concreta applicazione.
Invero, se si tiene conto del dato letterale dell’art. 220, emerge chiaramente che lo stesso si riferisce ad indizi di reato che emergono nel corso delle attività ispettive o di vigilanza, il che porta ad affermare che la cognizione circa la sussistenza di indizi di reità, ancorché non riferibili ad un soggetto specifico, deve risultare oggettivamente evidente a chi opera mentre effettua tale attività e non deve essere soltanto ipotizzata sulla base di mere congetture, né può ritenersi possibile, dopo che un reato è stato accertato, sostenere che chi effettuava il controllo avrebbe dovuto prefigurarsi quale ne sarebbe stato l’esito.
Quanto al mancato avviso dell’apertura dei campioni e delle analisi, il ricorrente contesta quanto affermato dai giudici dell’appello, osservando che il verbale di prelievo, richiamato da quello di apertura dei campioni, non conterrebbe alcun riferimento a tale avviso (entrambi gli atti sono allegati in copia al ricorso).
Occorre a tale proposito osservare che il verbale di apertura del campione, il quale consiste in un modulo prestampato da compilare, alla voce “la data e l’ora di apertura del campione sono state comunicate mediante:” reca barrata la casella corrispondente alla voce “verbale di prelievo”.
Nel verbale di prelievo viene dato atto che “il prelievo è stato eseguito previa indicazione del titolare dell’azienda agricola sig. ROSSI Davide”, specificando che lo stesso indicava il tubo di scarico dei reflui e la sua estensione, dando poi atto che questi, quando veniva reso edotto della necessità di eseguire un campionamento, si allontanava.
La Corte territoriale ha dedotto, sulla base della partecipazione dell’imputato a tutte le operazioni precedenti al campionamento, che lo stesso sia stato comunque avvisato verbalmente, anche se ciò non è espressamente attestato, sebbene vi sia un espresso rinvio al verbale di prelievo, con modalità tali, considerato l’uso di un prestampato, che consentirebbero di interpretare il rinvio come riferito ad un avviso dato nel corso del compimento di tali attività.
Nondimeno, ciò che appare al Collegio determinante è l’ulteriore circostanza, posta in rilievo nell’impugnata sentenza ed effettivamente documentata nell’atto allegato al ricorso, che l’imputato, appreso dell’imminente campionamento, si era allontanato, rendendo di fatto impossibile ogni ulteriore comunicazione.
Il ricorrente, dunque, ha eccepito l’inutilizzabilità degli atti per un mancato avviso che, se non intervenuto, come invece ritenuto dai giudici del merito, egli stesso avrebbe comunque impedito con il suo volontario allontanamento.
Inoltre, la Corte territoriale ha evidenziato che la specifica censura era stata sollevata solo nel processo di appello e che la nullità d'ordine generale di cui all'art. 178, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. resta assoggettata, secondo un condivisibile orientamento maggioritario, come è noto, alla particolare osservanza dell'art. 180 stesso codice (così, da ultimo, Sez. 3, n. 5235 del 24/5/2016 (dep. 2017), Lo Verde, Rv. 269214, con diffusi richiami ai precedenti).
Il motivo di ricorso è dunque manifestamente infondato.
5. A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che riguarda il secondo motivo di ricorso.
L’art. 101 d.lgs. 152/06 prevede l’assimilazione alle acque reflue domestiche, tra l’altro, delle acque provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame.
Prima dell’intervento correttivo ad opera del d.lgs. 4\2008, l’assimilabilità riguardava esclusivamente le imprese che, per quanto concerne gli effluenti di allevamento, praticavano l’utilizzazione agronomica in conformità alla disciplina regionale stabilita sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali di cui all’art. 112, comma 2, e che disponevano di almeno un ettaro di terreno agricolo per ognuna delle quantità indicate nella Tabella 6 dell’Allegato 5 alla Parte Terza del d.lgs. 152/06.
Questa Corte ha chiarito, in generale, che l'assimilazione, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, di determinate acque reflue industriali alle acque reflue domestiche è subordinata comunque alla dimostrazione della esistenza delle specifiche condizioni individuate dalle leggi che la prevedono, restando applicabili, in difetto, le regole ordinarie (Sez. 3, n. 38946 del 28/06/2017 - dep. 07/08/2017, De Giusti, Rv. 270791), prendendo ripetutamente atto della intervenuta assimilazione (Sez. 3, n. 28452 del 7/4/2009, Corsanto e altro, Rv. 244513; Sez. 3, n. 9488 del 29/1/2009, Battisti, Rv. 243112; Sez. 3, n. 26532 del 21/5/2008, Calderone, Rv. 240552).
Si altresì specificato, escludendo che rientri nell’attività di allevamento in genere quella di servizio concernente il ricovero e custodia animali per conto terzi, che, per allevamento, secondo la comune nozione, si intende l'attività di custodire, far crescere ed opportunamente riprodurre animali in cattività, totale o parziale, per scopi produttivi o commerciali (Sez. 3, n. 38866 del 30/5/2017, Midgley e altro, Rv. 271801).
6. Ciò posto, afferma il ricorrente che anche i reflui provenienti dall’attività casearia da lui svolta, in quanto correlata con quella di allevamento, andrebbero assimilati alle acque reflue domestiche ai sensi dell’art. 101, comma 7, lett. b) d.lgs. 152/06 ed a tale scopo confronta il tenore letterale della disposizione con quello della lettera a) precedente, dove l’utilizzazione dell’avverbio “esclusivamente” sarebbe indicativo della volontà del legislatore di una più puntuale delimitazione dell’ambito di operatività della disposizione, volontà che non avrebbe inteso invece esplicitare con riferimento agli allevamenti.
Può replicarsi a tale affermazione, restando ancorati al dato meramente letterale, che una simile evenienza viene smentita dal contenuto della successiva lettera c) del medesimo comma 7, laddove il legislatore ha preso in considerazione le attività in qualche modo complementari a quelle di cui alle lettere precedenti - coltivazione del terreno e/o silvicoltura di cui alla lettera a) ed allevamento di bestiame di cui alla lettera b) – stabilendo l’assimilabilità alle acque reflue domestiche di quelle “provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle lettere a) e b) che esercitano anche attività di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente in misura prevalente dall'attività di coltivazione dei terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità” .
Dunque solo a tali precise condizioni, che vanno dimostrate, assume rilievo, ai fini dell’assimilazione dei reflui, lo svolgimento di una attività accessoria a quella principale.
Ne consegue che, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, gli scarichi provenienti dall’attività casearia restano soggetti alla disciplina generale sugli scarichi, in quanto si tratta di un’attività del tutto diversa da quella dell’allevamento di bestiame, perché concernente la lavorazione successiva di uno dei prodotti dell’allevamento medesimo, fra le quali può essere ricompresa, in linea di principio, anche l’attività di trasformazione casearia di uno dei possibili prodotti dell’allevamento del bestiame. A tale assimilazione, tuttavia, il legislatore pone una ulteriore delimitazione la quale, richiamando un rapporto di stretta connessione funzionale, considera la sola trasformazione e valorizzazione del prodotto, effettuata, però, utilizzando materia prima lavorata che deve pervenire in misura prevalente dall’attività di coltivazione dei terreni di cui l’impresa disponga a qualsiasi titolo.
7. Anche il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La Corte di appello ha posto in evidenza, ai fini della esclusione della particolare tenuità del fatto, la stabilità della condotta di scarico e l’uso costante nello svolgimento dell’attività produttiva, con conseguente maggiore esposizione al pericolo del bene giuridico tutelato, valutando altresì il superamento dei limiti tabellari alla luce dei numerosi esposti che avevano preceduto i controlli.
Va rilevato, a tale proposito, come la giurisprudenza di questa Corte abbia affermato che l'assenza dei presupposti per l'applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. può essere rilevata anche con motivazione implicita (Sez. 3, n. 48317 del 11/10/2016 Scopazzo, Rv. 268499. V. anche Sez. 5, n. 39806 del 24/6/2015, Lembo, Rv. 265317; Sez. 3, n. 24358 del 14/5/2015, Ferretti e altri, Rv. 264109) ovviamente in presenza di dati obiettivamente preclusivi di una valutazione di particolare tenuità del fatto, precisando, altresì, che deve quindi ritenersi del tutto adeguata la motivazione espressa che valorizzi l’assenza anche di uno solo dei requisiti richiesti dall’art. 131-bis cod. pen., poiché, allorquando il giudice del merito evidenzia, con adeguata motivazione, la sussistenza di un elemento fattuale ostativo all’applicazione della disposizione in esame per difetto di una delle condizioni richieste, tale dato, evidentemente ritenuto prevalente, consente di limitare l’esame a quest’ultimo, senza necessità di prendere in considerazione altri elementi implicitamente ritenuti non rilevanti (così Sez. 3, n. 34151 del 18/6/2018, Foglietta e altro, Rv. 273678).
8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende,.
Così deciso in data 28/2/2019