Codici a specchio. L’applicazione della sentenza della corte europea da parte della cassazione

di Gianfranco AMENDOLA

NOTA A: Cass. Sez. III n. 42788 del 21 novembre 2019 (Ud. 9 ott 2019)

La sentenza che si annota riguarda la vexata quaestio dei rifiuti con codici a specchio, di quei rifiuti, cioè, che possono essere classificati con codici CER speculari, uno pericoloso ed uno non pericoloso; rispetto ai quali, quindi, occorre determinare se essi presentano o meno proprietà di pericolo.

Non è questa la sede per ripercorrere tutta la problematica che ne è derivata, con interventi legislativi, ministeriali e tecnici (ordine dei chimici, Ispra ecc.), nell’ambito di un acceso dibattito dottrinale che ha visto la contrapposizione di due tesi-base, l’una più rigorista (se il produttore detentore del rifiuto, che ne conosce la composizione, non fornisce prova dell’assenza di pericolosità, il rifiuto si presume pericoloso) e l’altra più possibilista e discrezionale (occorre la prova della pericolosità e non può ritenersi pericoloso un rifiuto in cui risultino assenti le sostanze pericolose ritenute pertinenti dal detentore). Dibattito che, in sede giurisprudenziale, ha portato alla odierna sentenza, scaturita dalla contrapposizione tra le opposte tesi del Tribunale del riesame di Roma e del P.M. competente, in merito ad un presunto traffico illecito di rifiuti con codici a specchio; ove la Cassazione[1] sospendeva il processo e riteneva di investire della problematica la Corte di Giustizia europea, ottenendo la sentenza[2] che oggi, viene rapportata dalla suprema Corte al procedimento penale di origine[3]. 

Pertanto, l’unica finalità di questa nota è di dare conto, al di fuori di ogni polemica, solo di quanto statuisce la sentenza in esame al fine di tentare di capire quali sono le conseguenze pratiche, nel diritto interno, che, secondo la suprema Corte, derivano dalla sentenza CGCE, rinviando per il resto, anche per approfondimenti e richiami, alla copiosa produzione dottrinale[4] sull’argomento; con la avvertenza che, come rileva la suprema Corte, si riscontra “in alcuni interventi dottrinari, una strumentale lettura dei contenuti dell’ordinanza di rimessione prima e della sentenza della Corte di giustizia poi, chiaramente finalizzata ad attribuire a tali provvedimenti significati rispondenti all’esclusiva esigenza di accreditare la fondatezza di determinate tesi.”[5]

Come quando, in dottrina, commentando l’ordinanza di rimessione della suprema Corte, si è sostenuto che “non sembra pertinente il richiamo (ritenuto equivalente) al principio comunitario di precauzione, invocato dal Supremo Collegio a fondamento del preteso obbligo probatorio, gravante sul produttore e/o detentore del rifiuto, attraverso la c.d. prova esaustiva ovvero la prova analitica del 99,9% dei componenti del rifiuto, al fine di escluderne la pericolosità”. Affermazione reiterata quando si attribuisce al Supremo Collegio una “preferenza per la tesi (dottrinale) della presunzione assoluta di pericolosità dei rifiuti con voce a specchio, in difetto di prova analitica, da estendere al 99% dei suoi componenti e per tutte le sostanze pericolose”.[6] Eppure, come chiunque può verificare agevolmente, nell’ordinanza della Cassazione che si voleva criticare, non vi è alcun cenno ad alcun presunto “obbligo probatorio con prova analitica del 99, 9%”, tanto meno per “tutte le sostanze pericolose”[7].

Tornando alla sentenza, si deve rilevare che la Cassazione dedica ben 11 pagine su 12 per riassumere la vicenda processuale, la normativa attualmente vigente e la sentenza della CGCE; e solo l’ultima pagina a rapportare il disposto della Corte europea al caso concreto. Il che potrebbe fare presumere che sia inutile leggere le prime 11 pagine in quanto esse, riassumendo altri documenti o la normativa di settore, non dovrebbero contenere niente di nuovo rispetto ad essi. Ed infatti la storia della vicenda processuale e l’analisi della normativa coincidono con la medesima esposizione fatta dalla Cassazione nella sua ordinanza di rimessione alla CGCE del 2017, fatte salve, ovviamente, le (minime) parti relative all’aggiornamento delle stesse.

La novità, rispetto all’ordinanza del 2017, consiste, ovviamente, nella sentenza della CGCE che la suprema Corte ha ritenuto di dover sintetizzare (al n. 3 della sua sentenza) “riportando, per quanto possibile, gli stessi termini utilizzati in motivazione e ciò allo scopo di evitare distorte letture di quella che altro non è se non una mera sintesi, predisposta per una migliore comprensione della vicenda esaminata, della motivazione della sentenza, cui deve ovviamente essere fatto riferimento”; ottenendo, tuttavia, a nostro sommesso avviso, come risultato oggettivo, una sintesi fedele per quanto attiene ai termini usati ma molto frammentata e troppo “meccanica”, da cui è difficile comprendere quali siano, in sostanza, le linee portanti del ragionamento complessivo della CGCE, che invece risulta molto ben delineato se si legge il testo integrale, specie se rapportato alla problematica rilevante per il caso di specie. Conclusione che, peraltro, coincide con quella della Cassazione quando evidenzia che “in realtà la sentenza della Corte di giustizia ha offerto, ad avviso del Collegio, una illustrazione estremamente chiara degli obblighi del detentore del rifiuto che non si limita a mere affermazioni, offrendo, invece, anche specifiche indicazioni sulle modalità con le quali deve assolversi a tali obblighi e sulle conseguenze all’inosservanza degli stessi, certamente valutabili anche in sede penale”. (n. 5)

Chiarezza che, infine, risulta di tutta evidenza se anche ci si limiti solo a leggere le risposte contenute nel dispositivo della CGCE ai quesiti[8] posti dalla suprema Corte:

“ 1) L’allegato III della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, come modificata dal regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014, nonché l’allegato della decisione 2000/532/CE della Commissione, del 3 maggio 2000, che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi, come modificata dalla decisione 2014/955/UE della Commissione, del 18 dicembre 2014, devono essere interpretati nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento (CE) n. 440/2008 della Commissione, del 30 maggio 2008, che istituisce dei metodi di prova ai sensi del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale. 2) Il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso.”

LE POSIZIONI DEL P.M. E DEL TRIBUNALE SECONDO LA CASSAZIONE

In questo quadro, alla Cassazione non restava altro da fare che “utilizzare” le risposte della CGCE rapportandole al caso di specie[9]. Decidendo se rigettare o accogliere il ricorso del P.M. annullando l’ordinanza liberatoria del Tribunale del riesame; e, in caso positivo, se provvedere al rinvio per un nuovo giudizio sulla base della sentenza CGCE e delle osservazioni della suprema Corte.

Giova ricordare, in proposito, che il provvedimento in discussione (su ricorso del P.M.) era l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame di Roma aveva annullato alcuni decreti di sequestro emessi dal GlP, su richiesta del P.M.; ove, ovviamente, trattavasi di rifiuti con codici a specchio di incerta composizione, ritenuti presuntivamente pericolosi dal P.M. e dal GIP ; e non pericolosi, per mancanza di prove, dal Tribunale. Tanto è vero che il P.M. richiedeva l’annullamento, e la difesa la conferma, del provvedimento “liberatorio” del Tribunale.

Significativa, in proposito, è la sintesi delle due posizioni operata, in fatto, dalla Cassazione sulla base dell’ordinanza del Tribunale, del ricorso del P.M. e delle richieste dei difensori (nn. 3 e 4) : “Osserva il Tribunale che l’intera indagine sarebbe basata sulla presunzione di pericolosità dei rifiuti, con codice a specchio, oggetto di conferimento in discarica, sostenuta nella relazione dell’ARPA e validata dalla consulenza disposta dal Pubblico Ministero, il quale ha fatto riferimento ad una interpretazione della norma fortemente contestata dalla difesa perché contraria allo spirito della legge ed impossibile da attuare in concreto, non esistendo una metodologia idonea ad individuare la totalità o quasi dei componenti presenti in un rifiuto, determinandone le concentrazioni, sicché sarebbe corretta la classificazione effettuata mediante analisi a campione. Osserva altresì il Tribunale che l’interpretazione delle norme effettuata dalla pubblica accusa sarebbe opinabile, come confermato in una relazione della Regione Lazio predisposta proprio in occasione del sequestro e prodotta dalla difesa, richiamando altresì una nota 26 gennaio 2017 del Ministero competente nella quale viene confermata “l’applicabilità dal 1 giugno 2015 delle disposizioni europee “ ed il “riferimento alle sostanze pertinenti in base al processo produttivo”; aggiungendo che “ il Pubblico Ministero ricorrente, richiamati in generale i criteri di classificazione dei rifiuti, individua nel produttore/detentore del rifiuto il soggetto sul quale grava l’onere di caratterizzare e classificare il rifiuto, indicando come punto chiave di riferimento il principio di precauzione”.

Ancor più significativa è la precisazione operata nella parte in diritto (nn. 6 e 7), peraltro, in parte, nuova rispetto alla stessa esposizione contenuta nella ordinanza di rimessione alla CGCE del 2017: “Per quanto emerge dalla provvisoria incolpazione riprodotta in ricorso e sintetizzata in premessa, si ipotizza, da parte del Pubblico Ministero, la qualificazione dei rifiuti gestiti dagli indagati come non pericolosi effettuata “in forza di analisi quantitative e qualitative non esaustive” fornite da alcuni laboratori “con la consapevolezza della loro parzialità” . Nel ricorso, il Pubblico Ministero richiama diffusamente i contenuti della normativa di settore ed, in particolare, nel paragrafo 2, dedicato ai criteri di classificazione dei rifiuti, dopo alcune considerazioni conclude affermando “è quindi evidente che il produttore, per classificare un rifiuto indicato con codice CER a specchio, deve effettuare tutte le analisi necessarie ad escludere la presenza delle sostanze appartenenti alle classi di pericolo, o, in alternativa, classificare lo stesso come pericoloso”. 

Mentre e i giudici del riesame censurano la rilevanza attribuita dal Pubblico Ministero alla presunzione di pericolosità, osservando come nel corso dell’indagine non sia stata compiuta, da parte degli organi di controllo, alcuna analisi chimica attestante la pericolosità dei rifiuti e ciò sulla base di una interpretazione della norma ritenuta errata, perché presuppone che la qualificazione del rifiuto debba essere effettuata non soltanto attraverso la valutazione della scheda del produttore e la conoscenza del processo chimico, ma anche attraverso analisi chimiche esaustive del rifiuto volte ad escludere il superamento delle concentrazioni limite di riferimento attraverso l’individuazione analitica del 99,9% delle componenti del rifiuto autorizzato. I giudici del riesame richiamano anche le tesi della difesa, che aveva dedotto l’impossibilità tecnica di operare nel senso appena indicato – stante l’assenza di una idonea metodologia che consenta di individuare la totalità o quasi dei componenti presenti in un rifiuto determinandone le concentrazioni – e rivendicato la correttezza delle analisi a campione, che si ritenevano effettuate conformemente alla vigente normativa. Il Tribunale, richiamati altri documenti, ritiene dunque che l’analisi del rifiuto con codici a specchio, al fine di determinarne la pericolosità, deve riguardare solo le sostanze che in base al processo produttivo è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo ed ha conseguentemente escluso la sussistenza del fumus del delitto di attività organizzate finalizzata al traffico illecito di rifiuti in quanto, venendo meno il presupposto della presunzione di pericolosità in base alla non esaustività delle analisi, viene a mancare anche ogni elemento per affermare l’abusività della gestione del ciclo di smaltimento dei rifiuti.” 

LE CONCLUSIONI DELLA CASSAZIONE

E’, quindi, a queste argomentazioni che deve rispondere la Cassazione applicando la sentenza della CGCE.

La risposta boccia entrambe le posizioni come sopra riportate.

Quanto al P.M., infatti, “va certamente esclusa la “presunzione di pericolosità” nei termini in cui vi si riferisce il Pubblico Ministero ricorrente ed il conseguente obbligo per il detentore del rifiuto di dimostrarne, attraverso analisi, la non pericolosità, dovendo in alternativa classificare comunque il rifiuto come pericoloso ostandovi, in maniera evidente, quanto indicato dai giudici di Lussemburgo nel punto 45 della sentenza”.

Ma sbaglia anche il Tribunale, in quanto:

a) non sono gli inquirenti a dover dimostrare la pericolosità del rifiuto con analisi, ma spetta al detentore raccogliere informazioni idonee a determinare la composizione rifiuto per la sua classificazione;

b) “se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota (circostanza che rende, evidentemente, non necessaria l’analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione per l’attribuzione al rifiuto del codice appropriato.”;

c) “La raccolta delle informazioni va necessariamente effettuata secondo la precisa metodologia specificata che non prevede esclusivamente il campionamento e l’analisi chimica, le quali, come espressamente indicato (punto 44), devono peraltro offrire garanzie di efficacia e rappresentatività “;

d) “l’analisi del rifiuti ‘a specchio’, al fine di determinarne la pericolosità, non deve riguardare solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo” in quanto riduttiva rispetto alla metodologia individuata nella pronuncia della Corte di giustizia;

e) spetta al detentore ricercare non tutte le sostanze pericolose ma quelle che possono ragionevolmente trovarsi nel rifiuto; il che esclude che vi sia, al riguardo, alcun margine di discrezionalità, così come non vi è alcuna discrezionalità nella scelta delle modalità di qualificazione del rifiuto.

Riassumendo: la Cassazione legge la sentenza CGCE nel senso che, in caso di rifiuto a specchio di cui non sia nota la composizione, spetta al detentore raccogliere informazioni idonee a determinare la composizione del rifiuto per la sua classificazione seguendo una precisa metodologia specificata dalla Corte Ruropea[10] che non prevede esclusivamente il campionamento e l’analisi chimica. Quanto alle sostanze pericolose, non si deve procedere alla cieca (ricercandole tutte) ma occorre limitare la ricerca a quelle che, sulla base della composizione, possono ragionevolmente trovarvisi. Ricerca che è stata chiaramente specificata dalla CGCE (anche con richiamo ai criteri elaborati dalla Commissione europea) e, pertanto, non esiste alcun margine di discrezionalità da parte del detentore.

Trattasi, peraltro, in sostanza, per quanto concerne gli elementi base, e come da noi già rilevato[11], della stessa conclusione suggerita dalla suprema Corte alla CGCE nella sua ordinanza di rimessione del 2017[12].

Vale la pena, prima di procedere oltre, sottolineare che, in realtà, la Cassazione, oltre ad esaminare le posizioni di P.M. e Tribunale così come sopra illustrato, inserisce due sue osservazioni di tipo generale.

La prima serve a evidenziare che, alla luce della sentenza CGCE (n. 46), entrambe le tesi interpretative prospettate sulla questione sono “fallaci” perché l’una vuole imporre obblighi “irragionevoli”[13]; e l’altra vuole rifarsi ad una “discrezionalità” che non può essere ammessa[14]. La seconda sviluppa e precisa la prima preoccupandosi di sottolineare e specificare che, comunque, il divieto di imposizione di obblighi irragionevoli non può essere utilizzato dal detentore del rifiuto come “pretesto” per “aggirare le precise indicazioni” della sentenza circa le modalità di qualificazione del rifiuto[15]. Precisazione certamente opportuna, che in un prossimo futuro potrà rivelarsi decisiva vista la forte propensione alla “discrezionalità” di molti commentatori, anche autorevoli.

UNA PRECISAZIONE SULLA POSIZIONE DEL P.M. 

A questo punto, prima di procedere oltre, ci sembra doveroso esplicitare, con tutto il rispetto, qualche riserva sul modo in cui la posizione del P.M. risulta presentata (e criticata) nella sentenza della suprema Corte in esame[16], attraverso il richiamo del punto 45 della sentenza CGCE secondo cui “nessuna disposizione della normativa dell’Unione in questione può essere interpretata nel senso che l’oggetto di tale analisi consista nel verificare l’assenza, nel rifiuto di cui trattasi, di qualsiasi sostanza pericolosa….” [17].

Se, infatti, si legge il ricorso del P.M. in Cassazione del 9 marzo 2017[18] con le integrazioni del 12 luglio 2017[19], a noi sembra che la posizione base del P.M non fosse quella di pretendere tout court dal detentore analisi per verificare nel rifiuto l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa, ma di richiedere al detentore l’obbligo di procedere, caso per caso, ad una adeguata caratterizzazione del rifiuto; tale, cioè, da permettere il secondo passo relativo alla valutazione di eventuali caratteristiche di pericolo; dovendosi, in caso contrario, applicare il principio di precauzione e ritenere il rifiuto pericoloso E, se certamente è vero che il punto 45 della sentenza CGCE afferma con chiarezza, in proposito, che “nessuna disposizione della normativa dell’Unione in questione può essere interpretata nel senso che l’oggetto di tale analisi consista nel verificare l’assenza, nel rifiuto di cui trattasi, di qualsiasi sostanza pericolosa, cosicché il detentore del rifiuto sarebbe tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità di tale rifiuto”, è anche vero che tale affermazione segue (ed è legata da un “tuttavia”) alla premessa (non riportata dalla Cassazione) che “si deve osservare che l’analisi chimica di un rifiuto deve, certamente, consentire al suo detentore di acquisire una conoscenza sufficiente della composizione di tale rifiuto al fine di verificare se esso presenti una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98”. Conclusione che, in verità, ci sembra coincidere pienamente, almeno per questa parte, con quanto affermato dal P.M. nel suo ricorso. Mentre tutte le tesi “possibiliste” e “discrezionali” accolte dal Tribunale vengono respinte. Tanto è vero che, nel dispositivo, la Cassazione accoglie il ricorso del P.M. ed annulla l’ordinanza “liberatoria” del Tribunale, ordinando un nuovo giudizio. E, pertanto, non ci sembra che la suprema Corte si sia realmente rifatta, come scrive, alla posizione della pubblica accusa “nei termini in cui vi si riferisce il Pubblico Ministero ricorrente”; tanto meno con riferimento al punto 45 della sentenza CGCE. Si è rifatta, invece, alla posizione del P.M. quale riportata in modo inesatto dal Tribunale del riesame. 

 

IN PARTICOLARE, IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E LA CASSAZIONE 

Fatta questa doverosa precisazione, è ora di esaminare il vero fulcro di tutta la problematica in esame[20] che attiene, evidentemente, all’applicazione del principio di precauzione, rispetto al quale sembra sufficiente, in questa sede, ricordare che esso è sancito dall’art. 174, comma 2[21], del Trattato di Amsterdam, e, come evidenziato dalla CGCE[22] e dal Consiglio di Stato[23], impone che “quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi”[24].

Ciò premesso, si deve rilevare che, nella sentenza in esame, il principio di precauzione viene, stranamente, liquidato dalla Cassazione senza operare alcuna correlazione al caso di specie; semplicemente con l’affermazione “Quanto al principio di precauzione, la Corte di giustizia ne ha delimitato l’ambito di applicazione nei termini in precedenza ricordati “. E allora sembra opportuno rileggere la sentenza CGCE, seguendo la traccia della sintesi che ne fa (in diritto, n. 3) la Cassazione.

Si possono, in tal modo, estrapolare le seguenti precisazioni (testo CGCE) sull’applicazione, in generale, del principio di precauzione alla problematica dei rifiuti:

a) “ Si deve poi rilevare che dalla giurisprudenza della Corte risulta che un’applicazione corretta del principio di precauzione presuppone, in primo luogo, l’individuazione delle conseguenze potenzialmente negative per l’ambiente dei rifiuti in questione e, in secondo luogo, una valutazione complessiva del rischio per l’ambiente basata sui dati scientifici disponibili più affidabili e sui risultati più recenti della ricerca internazionale” (n. 57);

b) “ove risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito a causa della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per l’ambiente nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive, purché esse siano non discriminatorie e oggettive” (n. 58).

Si passa, poi, alla specifica problematica dei rifiuti con codici a specchio con le seguenti precisazioni:

c) “il legislatore dell’Unione, nel settore specifico della gestione dei rifiuti, ha inteso operare un bilanciamento tra, da un lato, il principio di precauzione e, dall’altro, la fattibilità tecnica e la praticabilità economica[25], in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze. (n. 59);

d) “Ne consegue che una misura di tutela come la classificazione di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari in quanto rifiuto pericoloso è necessaria qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di tale rifiuto si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare la caratteristica di pericolo che detto rifiuto presenta” (n. 60), tenendo conto però che “una siffatta impossibilità pratica non può derivare dal comportamento del detentore stesso del rifiuto” (n. 61). 

Stranamente, la Cassazione, a questo punto, si ferma ed omette di riportare l’affermazione più importante, e cioè la conclusione di tutto il ragionamento CGCE circa l’attribuzione della qualifica di pericolosità:

e) Alla luce di tali considerazioni, occorre rispondere alla quarta questione dichiarando che il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso.”(n. 62)

E’ vero, a questo proposito, che dalla sentenza della Cassazione in esame la suddetta conclusione comunque risulta, ma solo nella parte “in fatto”, dove non poteva essere ignorata visto che essa è contenuta anche, senza variazioni, nel dispositivo (vincolante) della sentenza CGCE. Ma non viene ripetuta nella parte in diritto dove, come abbiamo visto, la suprema Corte riporta, punto per punto, il pensiero della CGCE sul principio di precauzione; omettendo, però, proprio la conclusione sulla possibile classificazione come rifiuto pericoloso che la CGCE ne trae “alla luce di tali considerazioni”. Omissione tanto più inspiegabile se si considera che la stessa Cassazione, nella sua ordinanza di rinvio alla CGCE, scriveva che, in caso non fosse possibile conoscere la composizione del rifiuto o la presenza di sostanze pericolose, in base al principio di precauzione “dovrebbe necessariamente procedersi alla classificazione del rifiuto come pericoloso “[26].

E ancor più inspiegabile se si considera che, tra quelli formulati dalla suprema Corte alla CGCE, il quesito più importante (e controverso) rispetto al caso di specie era quello, conclusivo, proprio sul principio di precauzione: “se, nel dubbio o nell’impossibilità di provvedere con certezza all’individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo debba o meno essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione”; cui la CGCE ha dato risposta con l’affermazione dimenticata dalla Cassazione. Resta, a questo punto, da capire le ragioni di tale dimenticanza e se da essa derivino conseguenze nel caso di specie.

Diciamo subito che, a nostro sommesso avviso, le ragioni di tali dimenticanza non hanno alcun significato particolare e risiedono solo nella comprensibile ansia della suprema Corte di dimostrarsi il più possibile lontana dalle varie e contrapposte posizioni, molto spesso culminate in dispute fin troppo vivaci e, a volte, sguaiate, in cui la Cassazione, giustamente, non vuole essere coinvolta[27] E, quindi, preferisce evidenziare con forza che non condivide nessuna delle varie tesi proposte anche a costo di non approfondirne il reale contenuto (come è avvenuto per la posizione del P.M. e la cd. “tesi della certezza”); oppure, nella parte in fatto, riporta, insieme e con la stessa rilevanza, affermazioni della sentenza che possono sembrare contrastanti, senza distinguere quelle di tipo generale o accessorie da quelle realmente rilevanti per il caso di specie; e senza procedere neppure ad una sintesi finale complessiva del pensiero della CGCE. 

Oppure evitando l’argomento più scabroso, quello sul principio di precauzione, rinviando direttamente alla sentenza CGCE ed omettendo di riportare, nella parte più significativa della sua sentenza, la chiarissima conclusione operativa cui perviene, senza alcuna possibilità di dubbio, il ragionamento complessivo dei giudici europei. E cioè che, il detentore deve “ acquisire una conoscenza sufficiente della composizione di tale rifiuto al fine di verificare se esso presenti una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98” (n. 45); se non è possibile, la pericolosità non può essere valutata, e pertanto il rifiuto, in virtù del principio di precauzione, deve essere classificato come pericoloso (n. 62). Conclusione tanto chiara da non essere neppure interpretabile, visto che la CGCE non lascia, in proposito, alcun margine di incertezza, salvo quello, del tutto ovvio, che occorre, comunque, in generale, “una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie”[28]. Tanto è vero che anche chi aveva sempre respinto decisamente qualsiasi influenza del principio di precauzione, ammette onestamente che “se non può essere determinata la composizione o non possono essere valutate le proprietà pericolose, i codici a specchio vanno classificati come pericolosi in virtù del principio di precauzione. Lo indica la Corte di Giustizia UE nelle cause riunite C-487/17 e altre”[29]. Che poi qualcuno (inclusa la Cassazione) preferisca non dire che, in tal modo, si ricorre ad una presunzione di pericolosità, ci sembra del tutto secondario; pur essendo convinti, che, se un rifiuto viene dichiarato pericoloso in quanto non si può compiere un serio accertamento sulla pericolosità, questo significa, se l’italiano ha un senso, ricorrere ad una presunzione di pericolosità. L’importante, sotto il profilo sostanziale, è, infatti, non lasciare dubbi sul fatto che, in questi casi, non è l’accusa a dover dimostrare, in positivo, la pericolosità. 

LA CONCLUSIONE PROCESSUALE. I NODI DA RISOLVERE 

Come già abbiamo anticipato, la suprema Corte conclude il procedimento annullando, con rinvio per nuovo esame, l’ordinanza del Tribunale impugnata dal P.M. in quanto si impone “una nuova valutazione della vicenda alla luce delle indicazioni fornite nella pronuncia pregiudiziale, dovendosi verificare, seppure entro l’ambito di operatività della competenza del giudice del riesame, se la classificazione dei rifiuti sia stata correttamente effettuata ovvero se la stessa sia conseguenza di un deliberato ricorso a procedure non adeguate finalizzate al loro illecito smaltimento”.

Resta, a questo punto, da capire se le indicazioni della CGCE, unitamente alle (scarne) osservazioni della Cassazione sopra riportate, siano sufficienti a risolvere le questioni che hanno portato, nel caso concreto, il supremo Collegio ad interpellare la CGCE.

Di certo, come abbiamo tentato di evidenziare, la sentenza CGCE offre alcuni punti fermi che, in sostanza, coincidono con il pensiero della suprema Corte, espresso nella ordinanza di rimessione e ribadito nella sentenza oggi in esame, la quale, a dire il vero, si limita, in gran parte, ad uno (scarno) riassunto della sentenza CGCE[30].

Ma è proprio la sentenza dei giudici europei che fa nascere, con la sua formulazione, alcuni (nuovi) dubbi, già in parte evidenziati in dottrina[31], che, purtroppo, non risultano analizzati dalla Cassazione. Un primo dubbio sembra facilmente risolvibile: se, infatti, la CGCE ritiene che, qualora il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso, precisando, tuttavia, subito dopo, nella motivazione (e non nel dispositivo), che “una siffatta impossibilità pratica non può derivare dal comportamento del detentore stesso del rifiuto”, a noi sembra evidente che alla stessa conclusione si debba pervenire, a maggior ragione, qualora questa impossibilità derivi dal comportamento del detentore. Se non altro perché la conclusione della pericolosità si fonda sull’applicazione del principio di precauzione a tutela della salute e dell’ambiente[32], e quindi opera oggettivamente per il semplice fatto della incertezza, a prescindere dai singoli comportamenti (valutabili, ovviamente, a parte) [33]. 

Altri dubbi sono di natura eminentemente tecnica rispetto ai quali vanno, in primo luogo, applicate le linee guida riportate nella comunicazione della Commissione UE del 9 aprile 2018, contenente orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti; espressamente richiamata dalla CGCE. In proposito, peraltro, si è già opportunamento precisato, in dottrina, che le garanzie di efficacia e rappresentatività che, secondo la CGCE (n. 44), devono offrire campionamento ed analisi chimica, escludono la validità di certificazioni tecniche che non siano rappresentative di tutto il rifiuto, come quando, ad esempio, si certifica che “questo rapporto di prova-certificato d’analisi riguarda esclusivamente il solo campione sottoposto ad analisi” [34].

Meno agevole appare, invece, la risoluzione di un dubbio strettamente connesso con i termini usati dalla CGCE quando afferma che “qualora la composizione di un rifiuto cui potrebbero essere attribuiti codici speculari non sia immediatamente nota, spetta al suo detentore, in quanto responsabile della sua gestione, raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato” (n. 40) “al fine di verificare se esso presenti una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98 (n. 45); precisando, in proposito, che il detentore deve “ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo”; aggiungendo che egli “non ha pertanto alcun margine di discrezionalità a tale riguardo”. (n. 46).

Senza ripetere cose già dette, da un lato appare evidente che la conoscenza della composizione del rifiuto può dirsi “sufficiente” quando consente di identificare quali sostanze pericolose possano “ragionevolmente” trovarsi nel rifiuto stesso. Ma dall’altro, quando dalla teoria si passa alla pratica, l’uso di termini quali “sufficiente” e “ragionevolmente” potrebbe far rientrare nella valutazione quella “discrezionalità” che CGCE e Cassazione negano decisamente[35].

E’ evidente che, in proposito, sarà necessario aspettare le osservazioni dei tecnici che, del resto, hanno già iniziato a dare qualche prima risposta, precisando, tra l’altro, che:

“Poiché l’obiettivo da raggiungere è rappresentato dalla conoscenza della composizione del rifiuto così che si possa stabilire in concreto se esso contenga o meno sostanze pericolose, la caratterizzazione da effettuare per essere adeguata, coerente e proporzionata con tale obiettivo non dovrà comprendere la ricerca di tutte le possibili sostanze pericolose esistenti, né potrà essere arbitraria o discrezionale, ma dovrà essere tale da individuare in modo completo ed esaustivo quelle presenti nel rifiuto da classificare. Di converso, comportamenti irragionevoli nella procedura di caratterizzazione di un rifiuto a cui competono due codici speculari al fine di individuare quello corretto da applicare, saranno quelli in cui:

– la caratterizzazione svolta non è sufficiente a determinare la composizione del rifiuto è quindi ad escludere che esso contenga sostanze pericolose tali da conferirgli caratteristiche di pericolo;

– a fronte di una quantità rilevante di rifiuti da gestire la cui non corretta classificazione può avere notevoli conseguenze negative per l’ambiente, ci si limiti a ricercare nella caratterizzazione svolta solo un numero limitato di sostanze del tutto insufficiente a definirne la composizione;

– non considerando l’origine del rifiuto, nella caratterizzazione si vadano a ricercare sostanze che nulla hanno a che fare con le attività da cui esso origina e non si determinano invece quelle compatibili con esse;

– si proceda alla caratterizzazione del rifiuto con la ricerca di parametri standard non giustificati dalla sua origine e dalle sostanze che in esso possono essere presenti;

– si confonda la caratterizzazione utile a definire le modalità di smaltimento o di recupero del rifiuto con quella necessaria alla sua classificazione giuridica;

– la caratterizzazione effettuata porti ad individuare le sostanze che non sono presenti ma lasci invece del tutto indeterminate quelle che sono presenti nel rifiuto.

– la determinazione quantitativa di innumerevoli sostanze pericolose non presenti però nel rifiuto ma non di quelle che sono invece presenti ma non note non essendo stata determinata la reale composizione del rifiuto.” [36]

01.12.2019

Riferimenti

[1]
 Cass. pen, sez. 3, 27 luglio 2017 n. 37460, pubblicata, unitamente alla requisitoria della Procura generale, sul sito www.lexambiente.it 
 nonché in DGA 2017,n. 5, con nota di ROSOLEN, Rifiuti con codice a specchio: alla Corte di giustizia per una corretta classificazione

[2]
Corte UE, decima sezione, 28 marzo 2019, in www.lexambiente.it del 29 marzo 2019.
In dottrina, cfr. MAGLIA, Voci a specchio rifiuti: la Corte giust. UE mette la parola fine,
in www.tuttoambiente.it, 29 marzo 2019;
FICCO, Sui rifiuti con codici a specchio prevale la precauzione, in Il Sole 24 ore, 30 marzo 2019;
PARLANGELI, La problematica questione della classificazione dei rifiuti con codici a specchio, in Lexambiente rivista, n, 2019, n. 2;
nonchè il nostro Rifiuti con codici a specchio, fanghi di depurazione contaminati e cessazione della qualità di rifiuto (EOW).
La Corte Europea si schiera con la Cassazione e con il Consiglio di Stato, in www.lexambiente.it , 19 aprile 2019

[3]
Opportunamente, nella sentenza in esame la Cassazione evidenzia i limiti costituiti dalla “particolare natura del giudizio cautelare” e dalla “circoscritta cognizione attribuita al giudice di legittimità” 

 

[4]
 Su questa problematica, si rinvia, anche per richiami, ai tanti articoli e commenti pubblicati, anche a nostra firma, in www.industrieambiente.it e www.lexambiente.it. In particolare i nostri Voci a specchio: l’Ordine dei chimici critica la Cassazione per distorta interpretazione della legge in industrieambiente, marzo 2017;
Codici a specchio: arriva il partito della scopa, ivi, aprile 2017;
AMENDOLA-SANNA, Codici a specchio: basta confusione, facciamo chiarezza, ivi, giugno 2017, AMENDOLA-SANNA , Codici a specchio, cresce il partito della certezza (scientifica), ivi,11 luglio 2017, nonché GALANTI “La classificazione dei rifiuti con “codice specchio”. Dalla Commissione europea un contributo di chiarezza” in DPC, Diritto penale contemporaneo, 2018, n. 5, pag. 215 e segg;

[5] 

cfr., in proposito, GALANTI, “Rifiuti. La verità, vi prego, sui codici a specchio”, in www.lexambiente.it, 5 aprile 2019. Nello stesso senso,
cfr. AMENDOLA, Rifiuti, codici a specchio e Cassazione in attesa della corte europea. Ogni critica e’ legittima purche’ non travisi la realtà in www.lexambiente.it, 13 aprile 2018, ID., Rifiuti con codici a specchio, fanghi di depurazione contaminati e cessazione della qualità di rifiuto (EOW). La Corte Europea si schiera con la Cassazione e con il Consiglio di Stato, cit. dove evidenziavamo che “… si assiste all’avvilente spettacolo di chi, non avendo valide argomentazioni, mistifica la realtà dei fatti, insulta, o attribuisce a chi la pensa in maniera diversa affermazioni mai fatte, del tutto inverosimili e pertanto facilmente criticabili….” 

 

[6]
GIAMPIETRO F. Rifiuti con codice a specchio: i quesiti alla Corte di Giustizia e la disciplina speciale sullo smaltimento dei rifiuti urbani, cit. Peraltro, questa invenzione del 99% ricorre spesso e continua ad essere utilizzata per criticare la tesi più rigorista. In proposito, si rinvia al nostro Rifiuti con codici a specchio, fanghi di depurazione contaminati e cessazione della qualità di rifiuto (EOW). La Corte Europea si schiera con la Cassazione e con il Consiglio di Stato, cit

[7]
AMENDOLA, Rifiuti, codici a specchio e Cassazione in attesa della corte europea. Ogni critica e’ legittima purche’ non travisi la realta’ , cit

[8]
“a) Se l’allegato alla Decisione 2014/955/UE ed il Regolamento UE n. 1357/2014 vadano o meno interpretati, con riferimento alla classificazione dei rifiuti con voci speculari, nel senso che il produttore del rifiuto, quando non ne è nota la composizione, debba procedere alla previa caratterizzazione ed in quali eventuali limiti;
b) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba essere fatta in base a metodiche uniformi predeterminate;
c) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto
d) Se, nel dubbio o nell’impossibilità di provvedere con certezza all’individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo debba o meno essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione”.

[9]
Ricorda opportunamente la Cassazione a questo proposito, che “la sentenza emessa dalla Corte di Lussemburgo è vincolante per il giudice nazionale remittente (e per gli altri giudici chiamati a decidere nei diversi gradi di giudizio) ai fini della soluzione della controversia principale quanto all’interpretazione delle disposizioni comunitarie nei termini definiti dalla stessa….” (n. 5)

[10]
la quale, come giustamente evidenziato dalla Cassazione, richiama anche, esplicitamente, le dettagliate istruzioni contenute nella comunicazione della Commissione del 9 aprile 2018, contenente orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti. In proposito, cfr. GALANTI, “La classificazione dei rifiuti con “codice specchio”…, cit.

[11]
AMENDOLA Rifiuti con codici a specchio, fanghi di depurazione contaminati e cessazione della qualità di rifiuto (EOW). La Corte Europea si schiera con la Cassazione e con il Consiglio di Stato, cit.

[12]
ove, tra l’altro, si nega che “il produttore del rifiuto possa sostanzialmente classificarlo a sua discrezione o, comunque, attraverso le metodiche ritenute adeguate da chi procede alle analisi…. In realtà paiono al Collegio condivisibili quelle osservazioni secondo le quali ciò che si richiede, in tali casi, è in ogni caso una adeguata caratterizzazione del rifiuto e non anche la ricerca indiscriminata di tutte le sostanze che esso potrebbe astrattamente contenere. In altre parole – e l’assunto sembra del tutto logico – tale affermazione starebbe a significare che, accertando l’esatta composizione di un rifiuto, è conseguentemente possibile verificare la presenza o meno di sostanze pericolose. Altrettanto coerente sembra l’ulteriore osservazione secondo la quale la composizione di un rifiuto non è sempre desumibile dalla sua origine, come nel caso in cui non derivi da uno specifico processo produttivo, ma sia talvolta conseguenza di altri fenomeni o trattamenti che ne rendono incerta o ne mutano la composizione.”  (nn. 7 e 8). In dottrina, cfr. AMENDOLA Codici a specchio. Meno male che la Cassazione c’è !, in www.lexambiente.it, 1 agosto 2017. 

[13]
In realtà, così come per la tesi del P.M. (v. appresso), la suprema Corte (e di conseguenza la CGCE), si basa su una visione solo parziale della cd. “tesi della certezza”, la quale non richiede affatto che si ricerchi qualsiasi sostanza pericolosa (obbligo che sarebbe certamente irrazionale) ma collega direttamente l’obbligo di verificare l’assenza di sostanze pericolose con il presupposto di una adeguata conoscenza della composizione del rifiuto; per cui è del tutto ragionevole non ricercare qualsiasi sostanza pericolosa ma sole quelle che, in base alla composizione, possono ragionevolmente trovarvisi. Che è quello che dice, come abbiamo visto, la CGCE al n. 45, purchè lo si legga tutto, primo e secondo periodo (v. appresso, nota 17).

[14]
“Inoltre, il riferimento alle garanzie di efficacia e rappresentatività che devono essere offerte dal campionamento e dall’analisi chimica, nonché la radicale esclusione di alcun margine di discrezionalità in capo al detentore del rifiuto, al quale, tuttavia, non possono essere imposti obblighi insensati sotto il profilo tecnico ed economico, non previsti da alcuna disposizione comunitaria, sancisce, inequivocabilmente, la fallacia delle due tesi interpretative che si sono contrapposte nel corso degli anni e comunemente individuate come “tesi della probabilità” e “tesi della certezza” già ritenute non condivisibili da questa Corte nell’ordinanza di rimessione”.(n. 5)

[15]
“Va peraltro osservato che la sentenza della Corte di giustizia, tanto nella risposta ai primi tre quesiti, quanto nella motivazione, porta ad escludere radicalmente la possibilità di arbitrarie scelte da parte del detentore del rifiuto circa le modalità di qualificazione del rifiuto ed accertamento della pericolosità. In altre parole, ritiene il Collegio che il necessario riferimento della Corte europea, in precedenza richiamato, all’impossibilità di imporre al detentore del rifiuto irragionevoli obblighi sia dal punto di vista tecnico che economico, non può assolutamente, a fronte di quanto più diffusamente stabilito dai medesimi giudici, essere utilizzato come pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione del rifiuto, essendo chiaro che se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota (circostanza che rende, evidentemente, non necessaria l’analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione e l’attribuzione al rifiuto del codice appropriato” (n. 9).

[16]
“Va certamente esclusa la “presunzione di pericolosità” nei termini in cui vi si riferisce il Pubblico Ministero ricorrente ed il conseguente obbligo per il detentore del rifiuto di dimostrarne, attraverso analisi, la non pericolosità, dovendo in alternativa classificare comunque il rifiuto come pericoloso ostandovi, in maniera evidente, quanto indicato dai giudici di Lussemburgo nel punto 45 della sentenza”

[17]
Integrale: “45. Si deve osservare che l’analisi chimica di un rifiuto deve, certamente, consentire al suo detentore di acquisire una conoscenza sufficiente della composizione di tale rifiuto al fine di verificare se esso presenti una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98. Tuttavia, nessuna disposizione della normativa dell’Unione in questione può essere interpretata nel senso che l’oggetto di tale analisi consista nel verificare l’assenza, nel rifiuto di cui trattasi, di qualsiasi sostanza pericolosa, cosicché il detentore del rifiuto sarebbe tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità di tale rifiuto.”

[18]
ove, tra l’altro, si legge: “appare evidente che il produttore che conosce il suo ciclo produttivo può effettuare una selezione delle classi di pericolo, escludendo a priori la presenza di alcune di esse e limitando la caratterizzazione ad alcune sostanze, ma affinché ciò avvenga occorre conoscere, con esattezza, la composizione delle sostanze in ingresso e il loro trattamento nel corso del processo produttivo….La normativa europea prevede, come presupposto di tutta la catena di scelte che portano il produttore alla classificazione del rifiuto, che sia nota la sua composizione. Saranno pertanto necessarie tutte quelle analisi che servano a fornire al produttore una “fotografia” compiuta del rifiuto stesso…. la normativa prevede che tali “ausilii” consentano allo stesso produttore di escludere determinate classi di pericolo solo in presenza di un processo produttivo in cui siano note le “sostanze” in entrata, il processo produttivo e quelle in uscita. Solo in quel caso appare possibile limitare le analisi alla ricerca delle classi di pericolo verosimilmente presenti nel rifiuto …..”

[19]
ove, tra l’altro, si legge che “come rilevato in dottrina, secondo i fautori della “tesi probabilistica”, la procedura da utilizzare per determinare la composizione di un rifiuto sarebbe quella di stabilire la concentrazione di determinati parametri individuati a priori per pervenire ad una specifica diagnosi; le analisi non sarebbero quindi finalizzate a conoscere la composizione di un determinato rifiuto ma solo alla determinazione di parametri prefissati…. Del resto, la necessità che sia nota la composizione del rifiuto scaturisce quale conseguenza quasi obbligata dell’applicazione (per nulla distorta) del principio di precauzione stabilito dal Trattato UE. Pertanto, se la composizione del rifiuto può essere nota sulla base del processo produttivo (ad esempio per le industrie di produzione di beni, in cui è noto l’elenco delle materie prime in ingresso, il ciclo produttivo e i materiali in uscita) potrebbe non essere necessario effettuare uno spettro analitico esaustivo, ma laddove ciò non sia possibile, la conseguenza inevitabile è sottoporre il rifiuto alle batterie di test necessarie a conoscerne la composizione chimica. Anche in tal senso, pertanto, la decisione del Tribunale del Riesame di Roma si appalesa errata”.

[20]
la quale riguarda la classificazione di un rifiuto con codice a specchio come pericoloso o non pericoloso.

[21]
“La politica della Comunità in materia ambientale mira a un livello elevato di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”…

[22]
22 sent. 9 settembre 2003, Monsanto, e 10 aprile 2014, Acino

[23]
sent. n. 4227/2013 e 826/2018

[24]
Sembra interessante riportare, in proposito, anche una recentissima sentenza CGCE, seconda sezione, 24 ottobre 2019, in causa C-212/18 a proposito di oli esausti, ove la Corte europea afferma: “Si deve ritenere che l’esistenza di un certo grado di incertezza scientifica relativa ai rischi ambientali associati alla cessazione della qualifica di rifiuto di una sostanza, come gli oli di cui al procedimento principale, possa indurre uno Stato membro, tenuto conto del principio di precauzione, a decidere di non includere tale sostanza nell’elenco dei combustibili autorizzati. Occorre infatti sottolineare che, conformemente al principio di precauzione sancito all’articolo 191, paragrafo 2, TFUE, se la valutazione dei migliori dati scientifici disponibili lascia persistere un’incertezza in ordine alla questione se l’utilizzo, in circostanze precise, di una sostanza ottenuta dal recupero di rifiuti sia privo di qualsiasi possibile effetto nocivo sull’ambiente e sulla salute umana, lo Stato membro deve astenersi dal prevedere criteri di cessazione della qualifica di rifiuto di tale sostanza o la possibilità di adottare una decisione individuale che accerti tale cessazione.”

[25]
In proposito, cfr. anche Trib. UE, sez. 1, 16 settembre 2013, Animal Trading Company, secondo cui il principio di precauzione “impone alle autorità interessate di adottare, nel preciso ambito dell’esercizio delle competenze loro attribuite dalla normativa pertinente, misure appropriate al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la salute, la sicurezza e l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici”

[26]
“Corretto pare, al contrario, il richiamo al principio di precauzione cui deve conformarsi la gestione dei rifiuti, come espressamente previsto anche dalla disciplina generale di settore (art. 178 d.lgs. 152\2006), che deve ritenersi applicabile anche nella classificazione dei rifiuti pericolosi con voci speculari al fine di garantire una adeguata protezione dell’ambiente e della salute delle persone. Conforme a tale principio ed a criteri di ragionevolezza sembra la tesi, recentemente prospettata, sulla base di argomentazioni prettamente scientifiche, secondo la quale una caratterizzazione spinta e sistematica del rifiuto sarebbe necessaria quando lo stesso è sconosciuto, con la conseguenza che se la stessa dovesse richiedere costi eccessivi per il detentore, questi potrà eventualmente classificare comunque il rifiuto come pericoloso. Diversamente, quando il rifiuto è conosciuto, l’analisi chimica dovrebbe riguardare esclusivamente le sostanze che sono potenzialmente presenti in base alle fonti dei dati e del processo di formazione del rifiuto, osservando che una simile scelta non sarebbe comunque aleatoria, ma conseguente alla conoscenza delle materie prime che hanno concorso alla formazione del rifiuto e del processo di formazione dello stesso, con applicazione di metodi razionali di deduzione e che, in ogni caso, ove tale accertamento non fosse possibile, dovrebbe necessariamente procedersi alla classificazione del rifiuto come pericoloso.” (nn. 10 e 11).

[27]
Tanto è vero che, come abbiamo visto, lamenta esplicitamente -ed a ragione- da parte di certa dottrina, “una strumentale lettura dei contenuti dell’ordinanza di rimessione prima e della sentenza della Corte di giustizia poi, chiaramente finalizzata ad attribuire a tali provvedimenti significati rispondenti all’esclusiva esigenza di accreditare la fondatezza di determinate tesi”.

[28]
Se ce ne fosse bisogno, la diretta correlazione tra conoscenza della composizione del rifiuto e valutazione della sua pericolosità risulta chiaramente anche dal punto 50 delle conclusioni dell’Avvocato Generale UE, dove si legge che “ ai sensi dell’articolo 3, punto 2, della direttiva 2008/98, per valutare la pericolosità occorre, in primo luogo, conoscere la composizione del rifiuto, onde individuare le sostanze pericolose in esso contenute che possono attribuirgli una o più delle quindici caratteristiche di pericolo (da HP 1 a HP 15) dell’allegato III. Spetta al produttore o detentore procedere alle verifiche necessarie nel caso in cui non conosca la composizione del rifiuto”

[29]
Il Sole 24ore 28 marzo 2019

[30]
Anzi, come abbiamo visto, a volte dimentica qualcosa.

[31]
GALANTI, Rifiuti. La verità…., cit.. 

[32]
Del resto, la stessa sentenza CGCE, come ricorda la Cassazione “formula (punto 38) un’osservazione forse ovvia, ma sicuramente importante, prospettata anche dall’Avvocato Generale nelle sue conclusioni, circa le ragioni per le quali i rifiuti pericolosi sono sottoposti ad un particolare regime di gestione, che evidenzia, ad avviso del Collegio, come la classificazione degli stessi non possa ritenersi una mera formalità, ma risponda a significative esigenze di tutela dell’ambiente e della salute”.

[33]
Vale comunque il principio generale, già ricordato, enunciato dalla Cassazione, secondo cui “il necessario riferimento della Corte europea, in precedenza richiamato, all’impossibilità di imporre al detentore del rifiuto irragionevoli obblighi sia dal punto di vista tecnico che economico, non può assolutamente, a fronte di quanto più diffusamente stabilito dai medesimi giudici, essere utilizzato come pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione del rifiuto, essendo chiaro che se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota (circostanza che rende, evidentemente, non necessaria l’analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione e l’attribuzione al rifiuto del codice appropriato”.

[34]
MASTRACCI, Classificazione e caratterizzazione dei rifiuti: quali orientamenti tecnici, in www.industrieambiente.it, novembre 2019 

[35]
Come abbiamo visto, la Cassazione precisa in modo chiarissimo che la sentenza CGCE “porta ad escludere radicalmente la possibilità di arbitrarie scelte da parte del detentore del rifiuto circa le modalità di qualificazione del rifiuto ed accertamento della pericolosità”. Cfr., ancora una volta, anche il n. 9 della sentenza della suprema Corte ove, come già rilevato, la Cassazione, a ragion veduta, si aspetta che qualcuno utilizzi le parole della CGCE come “pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione del rifiuto”. 

[36]
SANNA, Un comportamento ragionevole, in www.industrieambiente.it , ottobre 2019