Cass. Sez. III n. 18070 del 2 maggio 2022 (UP 20 gen 2022)
Pres. Aceto Est. Zunica Ric. Parodi
Beni Ambientali.Rimessione in pristino e demolizione

La rimessione in pristino contemplata dal d. lgs. n. 42 del 2004 presuppone generalmente (anche se non necessariamente) un quid pluris rispetto alla mera demolizione delle opere abusive, occorrendo cioè, alla luce dell’impatto delle attività abusive, il compimento di condotte di tempestivo recupero dell’area sottoposta al vincolo paesaggistico, che siano in grado di far riacquistare alla stessa il precedente aspetto esteriore, con conseguente recupero del suo originario pregio estetico.

RITENUTO IN FATTO

       1. Con sentenza del 27 settembre 2018, il Tribunale di Lecce assolveva Maria Franca Silvia Parodi e Simone Bisanti dal reato di cui all’art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo A), in quanto non punibili per la particolare tenuità del fatto, e dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui all’art. 181 del d. lgs. n. 42 del 2004 per intervenuta rimessione in pristino (capo B).
I predetti reati erano stati contestati agli imputati per avere realizzato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, la Parodi quale proprietaria-committente e Bisanti quale titolare della ditta esecutrice dei lavori, opere edili in totale difformità dal permesso di costruire n. 48 del 2015, opere consistite nella demolizione di due manufatti rurali esistenti, nella esecuzione ex novo di un fabbricato con conci di tufo per un totale di 50 mq., di uno scavo di roccia per un’altezza di 60 cm., per un totale di 75 mq., di una piattaforma in cemento armato di circa 140 mq., a fronte di quanto autorizzato, consistente nello smontaggio e rimontaggio strutturale di due manufatti rurali di tipo “Liama”, nell’adeguamento igienico/sanitario, nella sistemazione dell’area esterna e nella realizzazione di un pergolato; fatti accertati in Salve l’8 gennaio 2016.
       Con sentenza dell’11 dicembre 2020, la Corte di appello di Lecce, in riforma della pronuncia del Tribunale, appellata dal Procuratore generale, riteneva gli imputati colpevoli di entrambi i reati a loro addebitati, unificati sotto il vincolo della continuazione, e per l’effetto condannava Maria Franca Silvia Parodi e Simone Bisanti, con i doppi benefici di legge, alla pena di mesi 2, giorni 15 di arresto ed euro 13.000 di ammenda ciascuno.
 2. Avverso la sentenza della Corte di appello salentina, Maria Franca Silvia Parodi e Simone Bisanti, tramite i rispettivi difensori di fiducia, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione.
2.1. La Parodi ha sollevato tre motivi.
Con il primo, la difesa deduce la nullità dell’ordinanza resa dalla Corte di appello l’11 dicembre 2020 e della successiva sentenza, eccependo la violazione dell’art. 603 comma 3 bis cod. proc. pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, rispetto alla decisione della Corte territoriale di non procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.
Si evidenzia in proposito che il giudizio sulla non tenuità del fatto e sulla mancata sussistenza della causa di estinzione di cui all’art. 181 comma 1 quinquies del d. lgs. n. 42 del 2004 si è fondato su una diversa lettura delle prova dichiarativa acquisita dal primo giudice, ovvero l’audizione del teste Martella, funzionario dell’Ufficio tecnico del Comune di Salve, che dunque doveva essere risentito nel giudizio di secondo grado, al fine di chiarire in modo definitivo lo stato dei luoghi, con particolare riferimento al livello di degrado del manufatto ivi esistente, che era stato descritto non come un immobile di pregio, ma come un rudere pericolante, non suscettibile di conferire pregio estetico alla zona.
Con il secondo motivo, è stata censurata l’affermazione della responsabilità  penale degli imputati rispetto al reato di cui al capo A, rilevandosi che il mancato riconoscimento del particolare tenuità del fatto si è tradotto nell’inosservanza dell’art. 131 bis cod. pen., non avendo la sentenza impugnata tenuto conto né che la difformità accertata non ha comportato rilevanti aumenti del carico urbanistico rispetto al progetto approvato, né che le opere abusive sono state demolite, per cui era cessata la compressione del bene giuridico tutelato, non essendo in ogni caso ostativo al riconoscimento della causa di non punibilità già applicata dal Tribunale il concorso tra il reato edilizio e il reato paesaggistico.
Con il terzo motivo, infine, oggetto di doglianza è il giudizio di colpevolezza riferito al capo B, osservandosi in proposito che la Corte di appello, nel negare l’applicazione del beneficio di cui all’art. 181 comma 1 quinquies del d. lgs. n. 42 del 2004, ha ritenuto erroneamente il manufatto in questione una struttura arcaica esclusivamente vetusta e non invece, come emerso in dibattimento, un rudere collabente, privo di connotati strutturali di pregio.
2.2. Anche Bisanti ha sollevato tre motivi.
Con il primo, la difesa deduce la violazione dell’art. 603 comma 3 bis cod. proc. pen., con riferimento alla mancata rinnovazione dell’esame del teste Martella, evidenziando che la sentenza assolutoria di primo grado è stata ribaltata non sulla base di diverse considerazioni giuridiche del medesimo fatto, ma all’esito di un differente giudizio di merito fondato su una lettura alternativa delle risultanze probatorie rispetto alla situazione strutturale dell’immobile originario, per cui sarebbe stata indispensabile la nuova audizione, sollecitata dalla difesa, del dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune di Salve, al fine di acclarare l’effettivo stato di degrado dell’immobile, nell’ottica sia della qualificazione del fatto, sia della valutazione sull’entità del danno cagionato.
Con il secondo motivo, il ricorrente censura il diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., che ben poteva essere riconosciuta, come già aveva fatto il Tribunale, in considerazione sia del palese degrado dell’immobile, sia dell’avvenuta demolizione delle opere abusive, che aveva privato la proprietaria e la ditta committente di ogni possibile beneficio, essendosi in ogni caso in presenza di una condotta non abituale, posta in essere da un soggetto incensurato che aveva dimostrato una chiara volontà riparatrice.
Con il terzo motivo, infine, la difesa contesta la decisione della Corte di appello di non ritenere estinto il reato paesaggistico di cui al capo B, osservando che la totale demolizione delle opere abusive e il riposizionamento del terreno vegetale dovevano ritenersi idonei a integrare il ripristino dello stato dei luoghi, stante l’eliminazione del vetusto fabbricato oggetto di intervento.
CONSIDERATO IN DIRITTO

      I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente infondati.        
      1. Iniziando dal primo motivo dei due ricorsi, le cui doglianze sono tra loro sostanzialmente sovrapponibili, deve osservarsi che alcuna violazione dell’art.  603 comma 3 bis cod. pro. pen. appare ravvisabile nel caso di specie.     
Ed invero deve premettersi che il Tribunale, nel ricostruire i fatti di causa, ha ritenuto integrati entrambi i fatti contestati, richiamando gli accertamenti svolti l’8 gennaio 2016 dagli operanti della Guardia di Finanza di Leuca, coadiuvati dall’arch. Francesco Martella, responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Salve, da cui era emersa l’esecuzione di lavori realizzati in totale difformità dal permesso di costruire n. 68 del 2015, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
Pur ritenendo comprovate le due contravvenzioni oggetto di imputazione, il giudice monocratico è tuttavia pervenuto al proscioglimento degli imputati, valorizzando, quanto al reato ex art. 44 lett. c del d.P.R. n. 380 del 2001, la particolare tenuità del fatto e, in ordine al reato di cui all’art. 181 del d. lgs. n. 42 del 2004, l’intervenuta rimessione in pristino delle opere abusive.
La Corte territoriale, nel condividere la ricostruzione operata dal primo giudice, è tuttavia pervenuta a conclusioni difformi rispetto alla rilevanza penale dei fatti contestati, ciò all’esito non di una differente valutazione delle prove acquisite, ma di un diverso giudizio circa l’inquadramento giuridico delle condotte.  
Sotto tale profilo, la decisione della Corte di appello di non procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale appare immune da censure, in quanto coerente con la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 53210 del 19/10/2018, Rv. 275133 e Sez. 2, n. 53594 del 16/11/2017, Rv. 271694), secondo cui non sussiste l’obbligo di rinnovazione della istruttoria dibattimentale nel caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado basata su una diversa interpretazione della fattispecie concreta, alla luce della valutazione logica e complessiva dell’intero compendio probatorio e non sulla base di un diverso apprezzamento della attendibilità di una prova dichiarativa decisiva.
A tale impostazione interpretativa risulta ispirata l’ordinanza dell’11 dicembre 2020, nella quale la Corte territoriale ha evidenziato che l’appello del Procuratore generale “non investe la storicità del fatto così come accertato in dibattimento, ma attiene alla correttezza o meno, sotto il profilo giuridico, della valutazione dell’offensività del fatto”, il che ha legittimamente condotto i giudici di appello a ritenere non indispensabile la rinnovazione istruttoria sollecitata dalle difese, e ciò anche in ragione del fatto che, come spiegato nella sentenza impugnata, in assenza di appello incidentale da parte degli imputati, non vi è stata la possibilità di vagliare l’esistenza di prove idonee a giustificare una pronuncia maggiormente liberatoria dei ricorrenti. Di qui la manifesta infondatezza delle censure sollevate.
       2. Passando al secondo motivo dei due ricorsi, occorre osservare che anche la mancata applicazione dell’art. 131 bis cod. pen. da parte della Corte territoriale non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
Ed invero la Corte territoriale, al fine di sottolineare la gravità dei fatti, ha richiamato le risultanze probatorie già esaminate dal Tribunale, rilevando come fosse pacifico che, “a fronte di un progetto volto esclusivamente allo smontaggio e al rimontaggio strutturale di due manufatti di tipo <liama> (manufatto rurale tipico dell’antica tradizione contadina del Salento), gli appellanti hanno proceduto alla totale demolizione del manufatto preesistente, la cui consistenza (come ricavabile dalle foto allegate al progetto dell’arch. Stendardo) era tutt’altro che limitata a un rudere, appalesandosi invece come una struttura sicuramente vetusta, ma dotata di un’autonomia strutturale che giustificava il suo recupero”, a ciò aggiungendosi che “è stato edificato un nuovo manufatto apparentemente differente anche dallo stesso progetto redatto dall’interessato”.
Orbene, in quanto sorretto da argomentazioni coerenti con le acquisizioni probatorie e non manifestamente illogiche, il percorso motivazionale della sentenza impugnata resiste alle obiezioni difensive, dovendosi richiamare in proposito il condiviso orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 55107 dell’08/11/2018, Rv. 274647), secondo cui, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa deve essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 comma primo cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente anche la sola indicazione di quelli ritenuti rilevanti.
Peraltro, con riferimento ai reati urbanistici, è stato affermato (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Rv. 266586) che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 131 bis cod. pen., la consistenza dell’intervento abusivo, data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive, costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l’eventuale collegamento dell’opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’Amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell’intervento, con la conseguenza che la complessiva valutazione del giudice del merito deve considerare tutti i parametri citati a titolo esemplificativo, il che non esclude, ovviamente, che tale verifica possa validamente arrestarsi allorquando uno di tali elementi sia considerato quale determinante ostacolo alla valutazione del fatto in termini di particolare tenuità (Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678).
 Alla stregua di tali considerazioni, non vi è dunque spazio per accogliere le censure difensive, formulate invero in maniera non adeguatamente specifica, a fronte di un razionale richiamo al significativo grado di difformità dell’intervento realizzato rispetto a quello assentito, non potendosi peraltro sottacere che gli interventi abusivi hanno riguardato opere antiche di particolare rilievo storico, non risultando in tal senso dirimenti i rilievi difensivi circa le condizioni strutturali dei manufatti in questione, il cui pregio era insito proprio nella loro vetustà.
    3. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi rispetto al terzo motivo dei ricorsi.
Sul punto deve premettersi che il Tribunale aveva ritenuto applicabile, rispetto al reato contestato al capo B, la causa di estinzione del reato ex art. 181 comma 1 quinquies del d. lgs. n. 42 del 2004, secondo la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’Autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato di cui al comma 1.
La Corte di appello, nel confermare il giudizio sulla configurabilità del reato paesaggistico già operato dal primo giudice, ha invece ritenuto non applicabile la speciale causa estintiva prima richiamata, osservando che quest’ultima è legata non alla semplice demolizione/eliminazione delle opere prive di autorizzazione, ma a una condotta più pregnante, che sia volta alla salvaguardia del patrimonio in origine esistente. Tale situazione di fatto è stata ritenuta non verificata né tantomeno verificabile nel caso di specie, posto che lo stato dei luoghi era stato modificato in modo irreversibile, e ciò proprio in ragione della distruzione delle “liame”, i cui peculiari connotati strutturali non erano riproducibili nella loro valenza di testimonianza della tradizione edilizia rurale.
Anche rispetto a tale valutazione, la motivazione della sentenza impugnata non rivela alcuna criticità, dovendosi evidenziare in proposito che la rimessione in pristino contemplata dal d. lgs. n. 42 del 2004 presuppone generalmente (anche se non necessariamente) un quid pluris rispetto alla mera demolizione delle opere abusive, occorrendo cioè, alla luce dell’impatto delle attività abusive, il compimento di condotte di tempestivo recupero dell’area sottoposta al vincolo paesaggistico, che siano in grado di far riacquistare alla stessa il precedente aspetto esteriore, con conseguente recupero del suo originario pregio estetico.
In tal senso, come già affermato da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 37168 del 06/05/2014, Rv. 259943), la causa estintiva ex art. 181 comma 1 quinquies del d. lgs. n. 42 del 2004 ha un’evidente “funzione premiale”, essendo volta a incentivare le iniziative che, in contesti territoriali meritevoli di tutela, mirino a restituire all’area interessata dai lavori abusivi la sua connotazione originaria, condizione questa che, nel caso di specie, è stata ragionevolmente ritenuta non sussistente né possibile, in ragione del fatto che i manufatti in esame erano stati demoliti e dunque non erano più recuperabili nel loro preesistente valore storico.
    4. In definitiva, stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate, i ricorsi proposti nell’interesse di Bisanti e della Parodi devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per ciascun ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 20/01/2022