Cass. Sez. III n.15653 del 16 aprile 2008 (Ud. 27 feb. 2008)
Pres. Onorato Est. Lombardi Ric. Colombo ed altri
Aria. Applicabilità articolo 674 c.p.

Ai fini dell\'affermazione di responsabilità in ordine al reato previsto dall\'art. 674 c.p., nell\'ipotesi di attività industriali che trovano la loro regolamentazione in una specifica normativa di settore, non basta che le emissioni siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma è indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che esse superino gli standards fissati dalla legge. Ciò in quanto il riferimento alle norme del codice civile comporta un\'evidente violazione del principio di tipicità, Quando esistono precisi limiti tabellari fissati dalla legge, non possono ritenersi "non consentite" le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore. Nei casi, invece, in cui non esiste una predeterminazione normativa, spetterà al giudice penale la valutazione della tollerabilità consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche normative di settore.
Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Torino ha emesso pronuncia di non doversi procedere nei confronti di Brombini Fulvio in ordine all’imputazione di cui all’art. 674 c.p., per essere il reato estinto per prescrizione, mentre ha confermato la pronuncia di colpevolezza di Colombo Roberto e Bellingeri Gianfranco in ordine al medesimo reato, loro ascritto perché, il Colombo quale responsabile dell’ambiente dell’impianto chimico industriale “Acetati” ed il Bellingeri in qualità di amministratore delegato dello stesso, omettendo di effettuare gli interventi necessari per il risanamento di detto impianto ormai obsoleto, provocavano emissioni di gas maleodoranti, costituiti da esalazioni di acido acetico, in luogo di pubblico transito e di uso collettivo.

Per quanto interessa ai fini del giudizio di legittimità la sentenza ha confermato la pronuncia di primo grado nel punto in cui aveva respinto la richiesta degli imputati di essere ammessi all’oblazione; ha confermato la sussistenza del reato ascritto agli imputati, pur risultando che l’impianto chimico industriale era autorizzato alle emissioni in atmosfera e non essendo emerso il superamento dei valori limite stabiliti in detta autorizzazione, ed ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 674 c.p., dedotta con riferimento a tale interpretazione della norma; ha infine confermato le statuizioni civili della sentenza di primo grado ed ha accolto l’appello presentato dalla associazione “Movimento Azzurro”, condannando gli imputati al risarcimento dei danni anche in favore della predetta associazione.

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i difensori degli imputati, che la denunciano per violazione di legge e vizi della motivazione.

Motivi della decisione
Con identici mezzi di annullamento i ricorrenti denunciano:

1) mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione al rigetto della domanda di oblazione.

Si deduce che la Corte territoriale ha fatto proprie le argomentazioni della sentenza di primo grado sul punto, senza valutare le deduzioni contenute nei motivi di gravame ed, in particolare, la sussistenza di autorizzazioni alle emissioni in atmosfera, senza che fossero state riscontrate violazioni di legge in proposito, le dichiarazioni che davano conto dell’avvenuta modifica dello stato di fatto dopo l’inizio dell’azione penale, nonché l’accertamento tecnico dal quale era emerso che le emissioni non superavano la soglia olfattiva, la natura meramente soggettiva delle molestie denunciate; elementi che trovavano riscontro nelle risultanze processuali.

2) errata interpretazione dell’art. 674 c.p. e contraddittorietà della motivazione sul punto.

Con il motivo di gravame viene riproposta la questione relativa alla configurabilità della fattispecie contravvenzionale prevista dalla norma nell’ipotesi in cui l’attività che provoca le emissioni risulti regolarmente autorizzata.

Si osserva in proposito che la normativa di cui al DPR n. 203/1988 ha come fine principale la tutela della salute e della incolumità delle persone, sicché i limiti contenuti in detta normativa costituiscono parametri di riferimento unici anche ai fini dell’accertamento della sussistenza del reato di cui all’art. 674 c.p.; che la locuzione “nei casi non consentiti dalla legge” non può essere riferita, come prospettato nella diversa interpretazione della norma, ai criteri di natura civilistica indicati dall’art. 844 c.c., che è norma riferentesi alla tutela del godimento del diritto di proprietà.

3) illegittimità costituzionale dell’art. 674 c.p., nell’interpretazione prospettata in sentenza, per violazione dell’art. 25, comma secondo, della Costituzione con riferimento al principio della determinatezza della fattispecie penale, nonché degli art. 27, per violazione del principio di colpevolezza, e 3, per violazione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza.

Si deduce, in sintesi, che il ritenere passibile di sanzione penale una condotta regolarmente autorizzata e, quindi, ritenuta lecita dal legislatore, viola il principio di ragionevolezza; che l’adozione del criterio interpretativo dettato dall’art. 844 c.c., per stabilire il carattere offensivo delle emissioni, introduce elementi di discrezionalità eccessiva nella individuazione della fattispecie penale, trattandosi, tra l’altro, di una norma diretta a tutelare il diritto di proprietà sulla base di criteri diversi rispetto a quelli operanti con riferimento al diritto alla salute.

4) Mancanza o manifesta illogicità della motivazione della sentenza con riferimento alla affermazione di colpevolezza degli imputati.

Si deduce, in sintesi, che i motivi di gravame, con i quali era stata evidenziata la genericità o equivocità delle risultanze di molte deposizioni testimoniali e la omessa valutazione di altre non hanno formato oggetto di adeguata disamina da parte dei giudici della Corte territoriale, così come il materiale probatorio indicato; né si è tenuto conto, ai fini di una corretta valutazione delle deposizioni testimoniali, del fatto che le stesse provenivano da soggetti che rivestivano la qualità di parti lese.

5) Mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla affermazione di colpevolezza del Bellingeri.

Si osserva che il consiglio di amministrazione della società Acetati aveva nominato due amministratori delegati nelle persone del Belligeri e del Brombini ed ai secondo era stata attribuita la direzione operativa della società nei limiti dell’attività di produzione; che il Brombini in particolare era stato nominato responsabile per la sicurezza, ai sensi del D.Lgs n. 626/94, con il conferimento di tutti i poteri necessari all’espletamento di ogni attività decisionale e di spesa inerenti alla sicurezza; che, pertanto, la delega al Brombini non era stata conferita dal Bellingeri, bensì direttamente dal consiglio di amministrazione della società, sicché la motivazione della sentenza con la quale si ipotizza il conferimento di una delega operativa da parte del Bellingeri si palesa erronea..

6) Mancanza di motivazione in relazione alle statuizioni civili.

Si deduce che la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 674 c.p. non contempla un’ipotesi di danno ambientale, in quanto è posta a tutela dell’incolumità delle persone; che, pertanto, non era configurabile l’esistenza di un danno da parte delle associazioni ambientaliste in favore delle quali è stato riconosciuto il diritto al risarcimento.

7) Contraddittorietà della motivazione con riferimento alla condanna al risarcimento dei danni in favore dell’associazione Movimento Azzurro.

Si deduce che la sentenza impugnata ha affermato il diritto al risarcimento del danno della predetta associazione quale conseguenza di una lesione subita dalla medesima, pur avendo accertato che la stessa aveva sede a Novara ed operava in luoghi non interessati dalle emissioni di acido acetico.

8) Prescrizione del reato con riferimento alle posizioni del Colombo e del Bellingeri.

Il ricorso è fondato nei limiti di seguito precisati.

E’ noto che in tema di configurabilità del concorso tra la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 674 c.p. e quelle previste dalle norme speciali in materia ambientale, con particolare riferimento all’inquinamento atmosferico, di cui nel caso in esame si tratta, secondo l’orientamento interpretativo di questa Suprema Corte, che è apparso per un certo periodo di tempo pressoché consolidato, anche nei casi di attività esercitata previo regolare rilascio dell’autorizzazione amministrativa e nel rispetto dei limiti tabellari fissati dalla normativa speciale, la contravvenzione si riteneva pur sempre configurabile alla stregua dei criteri civilistici, con particolare riferimento al parametro dettato dall’art. 844 c.c., in quanto si affermava che la “molestia” dell’emissione non è esclusa per il solo fatto che essa sia inferiore ai limiti massimi di tolleranza specificamente fissati dalla legge (cfr. sez. I, 17 novembre 1993, n. 781, Scionti; sez. III, 7 aprile 1994, n. 6598, Roz Gastaldi; sez. I, 6 novembre 1995, n. 11984, Guarnero; sez. I, 27 gennaio 1996, n. 863, Celeghin; sez. I, 11 aprile 1997, n. 3919, Sartor; sez. I, 21 gennaio 1998, n. 739, Tilli; sez. III, 1 ottobre 1999, n. 11295, Zampa ed altro; sez. III, 24 novembre 1999, n. 12497, De Gennaro).

Un diverso indirizzo interpretativo (già isolatamente enunciato da sez. III, 26 agosto 1985, n. 7765, Diliberto) si è formato, invece, a partire dalla sentenza 7 luglio 2000, n. 8094, ric. Meo, della I Sezione di questa Corte Suprema (concernente l’emissione di fumo dagli impianti di un oleificio), secondo il quale, nella formulazione dell’art. 674 c.p., l’espressione “nei casi non consentiti dalla legge” si collega alla necessità che l’emissione (di gas, vapori o fumi) atta a molestare le persone avvenga in violazione delle norme che regolano l’inquinamento atmosferico.

Ne consegue che, ai fini dell’affermazione di responsabilità in ordine al reato previsto dall’art. 674 c.p., nell’ipotesi di attività industriali che trovano la loro regolamentazione in una specifica normativa di settore, non basta che le emissioni siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma “è indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che esse superino gli standards fissati dalla legge”.

Tali conclusioni sono state ribadite da sez. III, 3 marzo 2004, n. 9757, Pannone, per emissioni provenienti da cava di estrazione di pietra calcarea, e da sez. I, 12 marzo 2002, n.. 15717, Pagano ed altri; 14 giugno 2002, n. 23066, Rinaldi, in relazione ad emissioni di onde elettromagnetiche nonché con riferimento ad emissioni di gas, vapori o fumi da sez. III, 200509503, Montanaro, RV 230982; sez. III, 200608299, P.M. in proc. Tortora ed altri, RV 233562 ed altre.

Trattasi di orientamento condiviso da questo Collegio, sulla base dell’essenziale considerazione che il riferimento alle norme del codice civile comporta un’evidente violazione del principio di tipicità. Quando esistono precisi limiti tabellari fissati dalla legge, non possono ritenersi “non consentite” le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore.

Nei casi, invece, in cui non esiste una predeterminazione normativa, spetterà al giudice penale la valutazione della tollerabilità consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche normative di settore.

Orbene, nel caso in esame, poiché le emissioni moleste risultano esclusivamente riferibili a vapori di acido acetico, e, cioè, alla sostanza prodotta dall’impianto chimico industriale “Acetati”, che si asserisce munito di autorizzazione alle emissioni in atmosfera, l’affermazione di colpevolezza degli imputati poteva fare esclusivamente seguito al puntuale accertamento della mancata adozione da parte dell’azienda delle prescrizioni contenute nella predetta autorizzazione o, comunque, del superamento dei valori limite previsti dalla autorizzazione per le emissioni.

Tale accertamento nella specie non è stato effettuato dai giudici di merito, essendo stato applicato, ai fini dell’affermazione di colpevolezza, il primo dei citati indirizzi interpretativi, ormai non più condiviso da questa Suprema Corte.

Peraltro, deve essere rilevato che in data 2 aprile 2007 si è verificata la prescrizione del reato anche nei confronti degli imputati Colombo e Bellingeri, essendo stata contestata la commissione del fatto fino al 2 ottobre 2002 ed essendo decorso a detta data il termine di cui agli art. 157 n.. 5), nella formulazione all’epoca vigente, e 160 c.p..

La sostanziale carenza di accertamento in ordine al superamento dei limiti stabiliti dalla autorizzazione per le emissioni in atmosfera ovvero al regolare funzionamento degli impianti per lo smaltimento delle emissioni e, d’altra parte, le carenze impiantistico-strutturali rilevate nella sentenza ed il rilevante complesso probatorio citato a sostegno della presenza delle emissioni moleste, inducono questa Corte ad escludere l’applicabilità di una soluzione più favorevole per gli imputati, ex art. 129, comma secondo, c.p.p., rispetto alla declaratoria di estinzione del reato.

La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio solo nei confronti degli imputati Colombo e Bellingeri per la indicata causale.

Per le esposte ragioni, afferenti alla carenza di accertamento circa il superamento dei valori limite delle emissioni stabiliti nell’autorizzazione di cui era in possesso l’azienda o alla mancata adozione di altri accorgimenti prescritti dall’autorizzazione medesima, questa Corte non è in grado dì confermare le statuizioni civili della sentenza, secondo quanto previsto dall’art. 578 c.p.p., ma deve necessariamente disporne l’annullamento nei confronti di tutti gli imputati con rinvio ad altra sezione penale della Corte di Appello di Torino, che applicherà gli enunciati principi di diritto.

In ordine alla indicazione del giudice di rinvio, il Collegio non ritiene condivisibile l’orientamento espresso in una recente pronuncia di questa Suprema Corte (sez. V, 5 febbraio 2007 n. 9399, Palazzi), secondo il quale il giudice del rinvio deve essere individuato ai sensi dell’art. 622 c.p,p., facendo, però, carico al giudice civile in grado di appello di accertare non solo il quantum, ma altresì l’an della responsabilità penale dell’imputato.

Ostano, infatti, a tale interpretazione sia la lettera che la ratio della disposizione citata, oltre a ragioni di carattere sistematico.

Ai sensi dell’art. 622 c.p.p. il rinvio al giudice civile competente in grado di appello presuppone o che vi sia già stato il definitivo accertamento della responsabilità dell’imputato in sede penale “fermi gli effetti penali della sentenza”, o l’accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile avverso una sentenza di proscioglimento dell’imputato.

Orbene, poiché la disposizione citata costituisce deroga alla cognizione del giudice penale, che, in caso di costituzione di parte civile, si estende agli effetti della responsabilità civile derivanti dall’accertamento del fatto costituente reato, non appare suscettibile di interpretazione analogica al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla norma.

Va aggiunto che l’art. 578 c.p.p., nel caso in cui vi sia stata pronuncia di condanna, anche generica, dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento dei danni, obbliga il giudice penale di appello o di cassazione, che dichiari il reato estinto per amnistia o per prescrizione, a pronunciarsi sull’impugnazione ai soli effetti delle statuizioni civili, senza che sia imposto alcun onere di attivazione a carico del soggetto leso, costituitosi parte civile.

Orbene, appare connaturale con tale sistema processuale che, se la Corte di cassazione non sia in grado di pronunciarsi per errori di motivazione o di diritto contenuti nella sentenza della Corte di appello impugnata, la decisione di cui all’art. 578 c.p.p. debba essere rimessa alla stessa Corte di appello che ha emesso, in sede penale, il provvedimento annullato.

Va ancora osservato che l’accertamento dell’an in siffatta ipotesi ha ad oggetto l’accertamento della responsabilità per il reato, che appartiene alla cognizione del giudice penale; che inoltre il giudice penale può utilizzare direttamente il materiale probatorio acquisito, senza alcun onere di impulso a carico della parte civile, ed esercitare poteri di ufficio in materia di acquisizione probatoria, che non trovano corrispondenza nel processo civile.

Per completezza di esame va ancora osservato, in relazione all’ultimo motivo di gravame dei ricorrenti, che secondo l’indirizzo interpretative di questa Suprema Corte le associazioni di protezione ambientale sono legittimate in via autonoma all’azione di risarcimento del danno quando sono portatrici di interessi ambientali “territorialmente determinati e concretamente lesi da un’attività illecita” (sez. III, 9 ottobre 2006 n. 33887, Strizzalo ed altro, RV 235048), sicché il giudice di rinvio dovrà effettuare anche tale verifica con riferimento alla posizione della associazione “Movimento Azzurro”, avendo formato la esistenza dei citati requisiti oggetto di specifica contestazione, mentre l’accoglimento della pretesa risarcitoria della predetta associazione non appare fondato dalla motivazione della sentenza sulla puntuale applicazione dell’enunciato principio di diritto.

Il ricorso va rigettato nel resto.