REFLUI DI DENTISTI E DI LABORATORI DI ALIMENTI: SECONDO LA CASSAZIONE SONO ACQUE REFLUE INDUSTRIALI
a cura di Gianfranco Amendola
Come è noto, nel settore dell’inquinamento idrico la distinzione tra acque reflue industriali ed acque reflue domestiche è di particolare importanza in quanto nel primo caso la disciplina degli scarichi e le relative sanzioni sono, ovviamente, più severe.
Già più volte su queste colonne ci siamo occupati di questa problematica che ruota attorno alla definizione contenuta nell’art. 74 D. Lgs n. 152/06 (e succ. modif.) secondo cui :
<<Ai fini della presente sezione si intende per:………
g) acque reflue domestiche: acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attivita' domestiche;
h) acque reflue industriali: qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento>>.
E sin dal 2009 avevamo evidenziato l’orientamento univoco della Cassazione, secondo cui <<rientrano tra le acque reflue industriali quelle che possiedono qualità necessariamente legate alla composizione chimico fisica diverse da quelle proprie delle acque metaboliche domestiche, mentre rientrano nelle acque domestiche tutti i reflui derivanti da attività che attengono strettamente alla coabitazione ed alla convivenza delle persone>> 1, con la conseguenza che <<nella nozione di acque reflue industriali, ex art. 74 lett. H) D.L.vo 152/06 rientrano tutti i tipi di acqua derivante dallo svolgimento di attività produttive, poiché detti reflui non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche di cui alla nozione di acque reflue domestiche prevista dall’articolo 74 lett. g) stesso decreto>> (fattispecie relativa ad acque di condensa provenienti da frigoriferi ove erano conservati prodotti ittici; nonché di quelle prodotte dal lavaggio dei locali e dei macchinari)2. Con la conclusione che, se pure il legislatore ha voluto delineare l'ambito delle acque reflue industriali anche tramite il richiamo formale al tipo di attività, secondo la Cassazione il criterio essenziale è quello della diversità rispetto ai reflui « domestici », e cioè a quei reflui di tipo « civile » ed organico (da metabolismo umano e da attività domestiche, appunto) tipici delle abitazioni; criterio che vale, ovviamente, anche e soprattutto per le acque reflue provenienti da attività di prestazione di servizi, le cui caratteristiche qualitative siano diverse da quelle delle acque reflue domestiche3.
Se oggi torniamo sull’argomento è perché sono appena state pubblicate due sentenze della suprema Corte che, se da un lato confermano l’orientamento già descritto, dall’altro ne traggono le conseguenze a carico di scarichi di attività lavorative, quali gli studi dentistici ed i laboratori di alimenti, molto spesso considerati, anche nella legislazione regionale, quali scarichi di acque reflue domestiche o assimilate.
Ci riferiamo a Cass. pen., sez. 3, ud. 7 novembre 2012 (dep. 17 gennaio 2013), n. 2340, Sgroi, in cui la Cassazione, dopo aver premesso che “per determinare, quindi, le acque che derivano dalle attività produttive occorre procedere a contrario, vale a dire escludere le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica”, ha concluso che “le acque reflue degli studi odontoiatrico privati rientrano nel novero delle acque reflue industriali in quanto provenienti da attività di prestazione di servizi che ne rendono impossibile l'equiparazione con le acque reflue domestiche anche in ragione dell'utilizzazione, nelle attività terapeutiche, di sostanze, quali anestetici e farmaci, estranee alla vita domestica”.
La seconda sentenza è Cass. pen., sez. 3, ud. 14 novembre 2012 (dep. 31 gennaio 2013), n. 4844, Boccia, ove si premette che “la natura del refluo scaricato costituisce il criterio di discrimine tra la tutela punitiva di tipo amministrativo e quella strettamente penale: nel caso in cui lo scarico abusivo abbia ad oggetto acque reflue domestiche, potrà configurarsi l'illecito amministrativo, ex d.lgs. n. 156 del 2006, art. 133, comma 2; mentre si avrà il reato di cui all'art. 137, comma 1, del richiamato decreto, qualora lo scarico riguardi acque reflue industriali”; e si sancisce che “nella nozione di acque reflue industriali rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone; con la conseguenza che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche, come nel caso delle acque reflue provenienti da laboratori diretti alla produzione di alimenti” (nella specie, trattavasi di esercizio di bar, pasticceria e ristorazione).
Riportate in questi termini, le sentenze appaiono pienamente condivisibili e totalmente conformi all’orientamento consolidato della suprema Corte.
A nostro avviso, tuttavia, sarebbe stato opportuno, in entrambi i casi, approfondire la possibilità che gli scarichi in esame, pur non essendo reflui domestici, potessero essere qualificati come “assimilati” ai domestici in base all’art. 101, comma 7, D.Lgs 152/06, anche e soprattutto alla luce di quanto dispone il DPR 19 ottobre 2011 n. 227 (“ Regolamento per la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle imprese, a norma dell’art. 49, comma 4 quater, del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010 n. 122”.).
Ma andiamo con ordine.
Ai sensi dell’art. 101, comma 7 D. Lgs. 152/06, “ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue”, tra l’altro, “aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale” (lett. e);
Ai sensi, invece, dell’art. 2, comma 1, del regolamento citato, si stabilisce che:
“sono assimilate alle acque reflue domestiche:
a) le acque che prima di ogni trattamento depurativo presentano le caratteristiche qualitative e quantitative di cui alla tabella 1 dell'Allegato A;
b) le acque reflue provenienti da insediamenti in cui si svolgono attività di produzione di beni e prestazione di servizi i cui scarichi terminali provengono esclusivamente da servizi igienici, cucine e mense;
c) le acque reflue provenienti dalle categorie di attività elencate nella tabella 2 dell'Allegato A, con le limitazioni indicate nella stessa tabella”.
In sostanza, quindi, si dettano alcuni criteri di assimilazione che, ai sensi del secondo comma, “si applicano in assenza di disciplina regionale”.
In questo contesto, è certamente rilevante notare che nella tabella 2 dell’allegato A, tra le “attività che generano acque reflue assimilate alle acque reflue domestiche” sono elencate, tra le tante, sia gli “ambulatori medici, studi veterinari e simili, purchè sprovvisti di laboratori di analisi o di ricerca” (n. 23) sia i “laboratori artigianali per la produzione di dolciumi, gelati, pane, biscotti e prodotti alimentari freschi, con un consumo idrico giornaliero inferiore a 5 mc nel periodo di massima attività” (n. 12) sia “bar, caffé, gelaterie (anche con intrattenimento spettacolo), enoteche bottiglierie con somministrazione” (n. 13).
In verità, entrambe le sentenze sfiorano la problematica delle acque assimilate ma la prima (studio odontoiatrico) si limita a notare che “ad abudantiam, le acque in questione, per l’utilizzazione nelle attività terapeutiche di sostanze estranee alla vita domestica (quali, per esempio, gli anestetici e in generale i farmaci), non potrebbero neppure qualificarsi come dotate di caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche … ai fini di una disciplina regionale assimilativa” . Quindi, non approfondisce la questione (probabilmente ritenendola obiter dictum rispetto al caso di specie) rispetto al regolamento del DPR 227 e neppure rispetto ad altra sentenza della stessa sezione (ud. 18 giugno 2009, dep. 10 settembre 2009, n. 35137, Tonelli) dove, sempre per lo scarico di uno studio odontotecnico della Lombardia, si era escluso si trattasse di scarico assimilabile ai sensi del regolamento n. 3 del 24 marzo 2006 della Regione Lombardia non per le caratteristiche qualitative ma solo perché mancava la attestazione di un consumo d’acqua medio giornaliero inferiore a 20 m34.
La seconda (bar pasticceria ecc.), invece, di fronte alla difesa che richiedeva la assimilazione in base, appunto, al consumo di acqua e richiamando la regolamentazione lombarda (che ritiene assimilabili le acque derivanti da vendita al dettaglio di generi alimentari con annesso laboratorio di produzione) dichiara manifestamente infondato questo motivo di ricorso sia perché il fatto si era verificato in Puglia sia perché “la difesa non precisa, in punto di fatto, quali siano le caratteristiche delle acque oggetto dello scarico in questione e le ragioni per cui le stesse dovrebbero essere, secondo la normativa vigente nella Regione Puglia, assimilate alle acque domestiche”.
Insomma, nessuna delle due sentenze prende in considerazione, neppure di sfuggita, la regolamentazione del DPR 227 sulle acque assimilabili, probabilmente perché non risulta richiamata neppure dalla difesa.
Peccato, perché sarebbe stata la occasione buona per verificare l’esattezza di quanto su queste colonne avevamo sostenuto in proposito e cioè che “l’art. 2 del DPR 227 del 2011 in tema di acque assimilate costituisce l’ennesimo pastrocchio governativo. Trattasi di regolamentazione illegittima in quanto mancante di idonea “base legale”, e come tale annullabile dalla magistratura amministrativa e disapplicabile dalla magistratura ordinaria. Nel merito, si pone in contrasto con la legge quando pretende di dettare criteri diversi da quelli previsti dall’art. 101, comma 7, lett. e) D. Lgs 152/06 che, nello stesso tempo, dichiara di voler tenere “fermo”. Infine, crea una ingiustificata e pericolosa disparità di trattamento (con difficoltà di controllo) in quanto da un lato detta questi criteri solo per le micro, piccole e medie imprese e non con valenza generale, e dall’altro non si applica se in una Regione vengano o siano stati emanati criteri diversi.”
Ed avevamo precisato, in particolare, che la elencazione delle “attività che generano acque reflue assimilate alle acque reflue domestiche” di cui alla Tabella 2, “è sicuramente inaccettabile. Come si è visto, infatti, l’assimilazione si basa solo sulle caratteristiche qualitative equivalenti e prescinde dal tipo di attività che genera lo scarico. E se anche il regolamento ritiene che le attività di cui alla tabella 2 producano, di regola, acque qualitativamente equivalenti a quelle domestiche, va sottolineato con forza che il tipo di attività non può essere, comunque il parametro (o quanto meno l’unico parametro) di riferimento. Occorre, invece, sempre rifarsi, caso per caso, alla qualità dello scarico, così come, del resto, avviene per le altre due ipotesi di assimilazione già esaminate. Anzi, a questo punto, la tabella 2 appare solo fuorviante e pericolosa”5.
Aspettiamo la prossima sentenza!
1 Cass. pen, sez. 3, 30 settembre 2008, n. 41850, Margarito
2 Cass. pen., sez. 3, 5 febbraio 2009, n. 12865, Bonaffini
3 Amendola, Acque reflue industriali, dettato legislativo e orientamento giurisprudenziale in questa Riv. 2009, nn. 7-8 pag. 46 e segg.
4 Tuttavia, per lo scarico di una lavanderia, sempre in Lombardia, la suprema Corte (sez. 3, ud. 25 novembre 2009, dep. 11 gennaio 2010, n. 772, Ruffo Di Calabria) aveva ritenuto assimilabile lo scarico pur in mancanza dell’autocertificazione prescritta dal regolamento lombardo
5 Si rinvia, per ulteriori approfondimenti, al nostro articolo sul DPR 227 in questa Rivista, maggio 2012
Pubblicato su Ambiente e sicurezza sul lavoro si ringraziano Autore ed Editore