TAR Campania (NA) Sez. VIII n. 4799 del 13 ottobre 2017
Urbanistica.Distanze tra edifici con pareti finestrate
Con riferimento al disposto dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, in tema di «pareti finestrate» il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti; ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate; in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, la norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti; il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili; pertanto, il proprietario dell’area confinante con il muro finestrato altrui è tenuto a costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri dallo stesso, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella delle finestre antistanti
Pubblicato il 13/10/2017
N. 04799/2017 REG.PROV.COLL.
N. 01675/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Ottava)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1675 del 2017, proposto da:
Rita Leone, rappresentata e difesa dall’avv. Luigi Adinolfi, con domicilio eletto in Napoli, via del Parco Margherita n. 34, presso lo studio dell’avv. Stefano Caserta;
contro
Comune di Pignataro Maggiore, non costituito in giudizio;
nei confronti di
Vincenzo Palumbo, rappresentato e difeso dall’avv. Fabrizio Perla e presso lo stesso elettivamente domiciliato in Napoli, via Santa Brigida n. 39;
per l'annullamento
del permesso di costruire n. 21/2015 del 25 agosto 2015, rilasciato dal Comune di Pignataro Maggiore per la realizzazione di un fabbricato ad uso civile abitazione in via Madre Teresa di Calcutta;
del verbale di sopralluogo e di accertamento prot. n. 871 del 26 gennaio 2017;
di ogni altro atto preordinato, connesso o consequenziale.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Vincenzo Palumbo;
Visti gli atti tutti della causa;
Nominato relatore il dott. Italo Caso;
Uditi, per le parti, all’udienza pubblica del 4 ottobre 2017, i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
Con il permesso di costruire n. 21/2015 del 25 agosto 2015 il Comune di Pignataro Maggiore assentiva, su suolo di proprietà del sig. Vincenzo Palumbo, la realizzazione di un fabbricato ad uso civile abitazione in via Madre Teresa di Calcutta.
Proprietaria di una civile abitazione confinante con l’area interessata dall’intervento edilizio, la sig.ra Rita Leone impugnava con ricorso straordinario al Capo dello Stato il suindicato titolo abilitativo ed impugnava altresì il verbale del sopralluogo (prot. n. 871 del 26 gennaio 2017) effettuato dall’Amministrazione comunale a séguito di un suo esposto circa l’attività costruttiva in corso. L’interessata denunciava, innanzi tutto, la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/68 e dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale, per essere prevista la realizzazione di una parete finestrata a distanza di soli cinque metri dal suo confine, benché ella vi avesse già edificato una costruzione seminterrata con sporgenza dal piano di campagna per circa m. 1,50, e in ragione di ciò avesse titolo a sopraelevare in futuro sul confine senza incorrere nella preclusione legata ad una costruzione altrui collocata a distanza inferiore ai dieci metri previsti dalla normativa di settore; lamentava, inoltre, la violazione della medesima normativa in riferimento al fabbricato di un terzo, confinante con il sig. Palumbo sul lato sud, ed in particolare una distanza tra le relative pareti finestrate pari a m. 7,60; deduceva, poi, la violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/68 e dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale, per non venire rispettata la distanza minima di m. 7,50 dalla strada avente larghezza superiore a m. 7; si doleva, infine, dell’inosservanza dell’art. 51 del regolamento edilizio, per non essere previsto un tratto piano di almeno m. 3,50 tra la rampa di uscita dall’autorimessa e la strada. Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati.
A séguito di opposizione formulata dal sig. Palumbo ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 1199 del 1971, il ricorso straordinario veniva successivamente trasposto in sede giurisdizionale.
Si è costituito in giudizio il sig. Vincenzo Palumbo, opponendosi all’accoglimento del ricorso. Non si è invece costituito in giudizio il Comune di Pignataro Maggiore.
L’istanza cautelare della ricorrente è stata accolta dalla Sezione (v. ord. n. 815/2016 dell’8 giugno 2017).
All’udienza pubblica del 4 ottobre 2017, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in decisione.
Va in via preliminare esaminata l’eccezione di tardività del ricorso, che il sig. Palumbo solleva sul rilievo che i lavori erano iniziati fin dal 1° aprile 2016 e che, come riferito dai tecnici comunali all’esito del sopralluogo del 17 gennaio 2017, risultavano a quella data in avanzato stato di esecuzione, sì da rivelarsi intempestiva – a suo dire – la proposizione del ricorso straordinario al Capo dello Stato effettuata il 3 marzo 2017. In realtà, osserva il Collegio, la giurisprudenza ha chiarito che il termine per l’impugnazione di un titolo edilizio emesso a favore di terzi comincia a decorrere solo dall’ultimazione dei lavori o, quanto meno, dal momento in cui il relativo avanzamento disvela univocamente le specifiche caratteristiche strutturali e dimensionali dell’erigendo manufatto, mentre grava su chi assume la tardività del ricorso l’onere di provare con idonei argomenti che, anche prima del completamento dei lavori, fosse con chiarezza evincibile la prospettica lesione dell’interesse del ricorrente (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 25 maggio 2017 n. 2453); nella fattispecie, a bene vedere, resta indeterminato il momento in cui, prima dell’esposto della ricorrente in data 2 dicembre 2016, fossero eventualmente già percepibili i tratti distintivi dell’intervento edilizio in corso, sicché difetta la prova della tardiva instaurazione del procedimento contenzioso a mezzo di ricorso straordinario al Capo dello Stato.
Nel merito, una prima questione è legata alla circostanza che la prevista realizzazione di una parete finestrata a distanza di soli cinque metri dal confine della proprietà della ricorrente non terrebbe conto della preesistenza di un manufatto, sporgente per circa m. 1,50 dal piano di campagna, che la sig.ra Leone aveva a suo tempo realizzato proprio al confine tra i due fondi. Il che integrerebbe la violazione dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale (distanza minima fra i fabbricati pari a m. 10) e dell’art. 9 del d.m. n. 1444/68 (distanza minima di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti), posto che – per essere inferiore a dieci metri il distacco dall’erigendo fabbricato – risulterebbe a questo punto preclusa la futura sopraelevazione del manufatto della ricorrente, con indebito sacrificio delle sue aspettative.
La doglianza è fondata.
Con riferimento al disposto dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, in tema di «pareti finestrate», la giurisprudenza (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 3522/2016 cit.) evidenzia che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti; che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate; che, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, la norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti; che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili; che, pertanto, il proprietario dell’area confinante con il muro finestrato altrui è tenuto a costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri dallo stesso, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella delle finestre antistanti. L’incontestata circostanza, allora, che in prossimità del confine sorga un manufatto seminterrato che fuoriesce dal piano di campagna (per circa m. 1,50, o anche solo per m. 1,00) dà titolo alla ricorrente a vedere arretrata di ulteriori cinque metri la parere finestrata del vicino, giacché la situazione attuale si consoliderebbe nel vedere preclusa qualsiasi sopraelevazione del manufatto della sig.ra Leone, anche se a quota inferiore alle finestre antistanti e anche se con muro cieco; né, poi, rileva che l’altrui seminterrato sia in aderenza rispetto a quello della ricorrente e che a sua volta sporga in dimensioni quasi coincidenti, giacché la realizzazione di una parete finestrata che non rispetta il limite di distanza di dieci metri introduce comunque una preclusione assoluta alla futura sopraelevazione in verticale del manufatto della sig.ra Leone, il cui carattere abusivo – lo si adduce nella relazione tecnica dell’arch. Feola (v. produzione del controinteressato) – si presenta in verità indimostrato o comunque meramente asserito. Del resto, l’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore del Comune di Pignataro Maggiore prescrive sì una distanza tra i fabbricati “minima assoluta” di metri 10 e impone anche un distacco minimo dai confini di metri 5, ma al contempo prevede che “sono ammesse costruzioni sul confine” [lett. f)]; soccorre, quindi, quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 cod.civ., è derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni ma anche delle costruzioni dal confine, salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l’edificare a distanza regolamentare e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo, con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza, ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (v. Cass. civ., Sez. II, 11 dicembre 2015 n. 25032). La ricorrente, in conclusione, ha fruito – quale preveniente – della possibilità di edificare sul confine e conserva il titolo giuridico a sopraelevare in verticale, titolo giuridico che verrebbe indebitamente sacrificato dalla costruzione realizzata dal controinteressato – quale prevenuto – senza arretrare il fabbricato alla distanza prescritta dall’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale e dall’art. 9 del d.m. n. 1444/68.
Altra doglianza investe la distanza tra l’erigendo fabbricato e l’edificio di proprietà di un terzo, ubicato sul lato sud; si tratterebbe, a dire della ricorrente, di una distanza di m. 7,60 tra pareti finestrate, quindi di un ulteriore profilo di illegittimità del titolo edilizio impugnato. Sennonché, il Collegio concorda con quell’orientamento secondo cui il concetto di “stabile collegamento” non è sufficiente a radicare la legittimazione a ricorrere, quando – per il tipo di violazione edilizia denunciata e per le condizioni di contesto territoriale in cui si trovano gli immobili – la vicinitas non rappresenti un indice inequivocabile del pregiudizio subito dal soggetto che propone l’azione di annullamento del titolo edilizio, con la conseguenza che, se si tratta della distanza sussistente tra edifici, non è sufficiente il mero rapporto di prossimità tra chi agisce in giudizio e l’opera oggetto del provvedimento amministrativo contestato, occorrendo piuttosto dare plausibile riscontro dei danni, o delle potenziali lesioni, ricollegabili all’avversata struttura, ovvero dell’incidenza negativa sulla propria sfera giuridica, per non elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, alla stregua di un’azione popolare (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 4 maggio 2015 n. 1081); in particolare, quando si tratta della prescrizione di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, l’interesse pubblico tutelato dalla norma è quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva, e allora un simile interesse riguarda l’ambiente interno alla parete finestrata ma anche l’ambiente esterno coincidente con l’intercapedine, sì da assistere i due edifici frontistanti, anche quello eventualmente privo di parete finestrata (v. TAR Piemonte, Sez. II, 18 gennaio 2014 n. 94), mentre resta indimostrato il pregiudizio che subirebbe nella circostanza la ricorrente, la quale – è vero – adduce la “… riduzione di visuale, di solarità e di riduzione del corridoio d’aria; ciò in quanto se un’intercapedine è dannosa per violazione delle distanze tra fabbricati frontistanti, il danno lo riceve anche il ricorrente che vi prospetta sul corridoio dell’intercapedine …” (così la memoria difensiva del 19 luglio 2017), con ciò però introducendo di fatto un ulteriore parametro di distanza rispetto ad altri fabbricati viciniori che la legge, nel salvaguardare la salubrità dell’edificato limitatamente agli “edifici antistanti”, in realtà non considera ed esclude evidentemente dalla relativa tutela perché privi di pregiudizio. Di qui l’inammissibilità della censura perché formulata da soggetto privo di legittimazione a proporla.
Quanto, poi, alla dedotta violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/68 e dell’art. 11 delle n.t.a. del piano regolatore comunale per non risultare rispettata la distanza minima di m. 7,50 dall’adiacente strada avente larghezza superiore a m. 7, il Collegio ritiene si tratti di doglianza priva di fondamento, sì che appare sufficiente il distacco determinato in m. 5 (previsto dalla medesima normativa per le strade di larghezza inferiore a m. 7). Ed invero, indipendentemente dalle previsioni di piano e da ogni ulteriore indagine in punto di fatto, è decisiva la circostanza che la strada in questione si presenta, allo stato, di larghezza inferiore a 7 metri, così come evidenziato dalla relazione tecnica dell’arch. Feola e non contestato in parte qua dalla ricorrente (il cui consulente si limita a richiamare un elaborato progettuale allegato al permesso di costruire ma non fornisce elementi di segno contrario quanto all’effettivo stato dei luoghi); se, dunque, è tale la situazione consolidatasi nella realtà, non v’è ragione per invocare ampliamenti della carreggiata che si presentano del tutto ipotetici e indimostrati, visto che le prescrizioni sulle distanze, come è noto, sono preordinate alla realizzazione di un corretto assetto urbanistico onde evitare eccessivi addossamenti di fabbricati alla viabilità.
Un’ultima questione attiene alle modalità di realizzazione della rampa di uscita dall’autorimessa, difettando il tratto di piano che l’art. 51 del regolamento edilizio prescrive debba frapporsi tra la rampa e la strada.
La censura è fondata.
Dispone l’art. 51 del regolamento edilizio, per quanto rileva in questa sede, che “… Se l’uscita dall’autorimessa è costituita da una rampa, tra l’inizio della livellata inclinata ed il filo dello spazio di pubblico transito deve essere previsto un tratto piano, pari ad almeno metri 3,50 di lunghezza”. Si tratta, come è evidente, di prescrizione volta a tutelare la pubblica incolumità in relazione a manovre di accesso degli autoveicoli alla strada che, in assenza di adeguata visibilità, possono risultare fonte di sinistri; in quest’ottica, il «pubblico transito» non va allora circoscritto alle strade frequentate da una collettività indeterminata di persone, ma include tutte quelle che, pur servendo un àmbito territoriale limitato e una cerchia ben definita di soggetti, richiedono in ogni caso misure di cautela nella circolazione stradale, anche per l’immissione di autoveicoli da rampe prive di visibilità. Che si tratti, dunque, di strada cieca o meno e che risulti o meno destinata di fatto la sua frequentazione ai soli residenti, il tratto di piano pari ad almeno m. 3,50 di lunghezza andava nella fattispecie comunque previsto, a salvaguardia dell’incolumità di quanti, compresi i pedoni, utilizzano la strada in questione.
In conclusione, il ricorso va accolto nei limiti indicati, con conseguente annullamento del permesso di costruire n. 21/2015 del 25 agosto 2015.
Le spese di lite seguono la soccombenza dell’Amministrazione comunale e del controinteressato, e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Ottava), pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla il permesso di costruire n. 21/2015 del 25 agosto 2015.
Condanna, in solido, il Comune di Pignataro Maggiore e il sig. Vincenzo Palumbo alle spese di lite, che liquida in complessivi € 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge, da suddividere a metà tra le parti; pone, inoltre, a carico del Comune di Pignataro Maggiore la rifusione del contributo unificato, nella misura versata dalla ricorrente. Spese distratte al difensore antistatario.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 4 ottobre 2017 con l'intervento dei magistrati:
Italo Caso, Presidente, Estensore
Fabrizio D'Alessandri, Consigliere
Rosalba Giansante, Consigliere
IL PRESIDENTE, ESTENSORE
Italo Caso