Nuova pagina 2

TRIBUNALE PENALE DI VITERBO Sez. Civita castellana
Condono edilizio. Memoria scritta di incostituzionalità del VPO  dr. Aldo Natalini
(il provvedimento del giudice è già pubblicato in questo sito)

Nuova pagina 1

(ex artt. 121 c.p.p. e 23 l. 11 marzo 1953, n. 87)

* * *

Udienza del 17 dicembre 2003

Il PUBBLICO MINISTERO dr. Aldo Natalini,

vista la richiesta di sospensione del procedimento penale avanzata dalla difesa nel proc. pen. in oggetto a seguito dell’emanazione del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici» (in suppl. ord. alla G.U. n. 229 del 2 ottobre 2003), convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici» (in G.U. n. 274 del 25 novembre 2003).

eccepisce

l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, conv. in legge 24 novembre 2003, n. 326, per contrasto con gli artt. 3, 9, 2° comma, 32, 1° comma, 97, 1° comma, 117, 3° comma, della Costituzione (quest’ultimo articolo nel testo modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

Invero sussistono entrambe le condizioni di proponibilità della questione incidentale di costituzionalità di cui all’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

La «rilevanza»

Sussiste il legame oggettivo tra la sollevata questione di costituzionalità ed il giudizio a quo. Tale nesso di strumentalità è dato dal fatto che nel caso di specie è stata avanzata richiesta di sospensione del processo penale ai sensi dell’art. 44 della legge 47/1985, applicabile, in quanto compatibile, in forza dell’art. 32, comma 25, d.l. 269/03, conv. in legge 326/03 ove si prevede, in vista della definizione in sanatoria della pratica edilizia, l’applicazione delle disposizioni di cui ai capi IV e V (tra cui, appunto, l’art. 44) della legge 47/1985 e succ. modificazioni ed integrazioni (come ulteriormente modificata dall’art. 39 della legge 724/1994 nonché dallo stesso art. 32 del d.l. 269/03) alle opere abusive ultimate entro il 31 marzo 2003.

Sicché stabilire se la disposizione in parola, contenuta nel decreto-legge de quo, ora convertito in legge, sia costituzionalmente legittima diviene dirimente anche ai fini della sola ammissibilità della domanda di sospensione (cfr. segnatamente Corte Costituzionale sentenza 368/88).

Il presente giudizio non può dunque essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione.

La «non manifesta infondatezza»

Premesso, quindi, che la predetta normativa è senza dubbio applicabile al caso qui in esame, ritiene questo PM che vi siano fondati dubbi per sostenerne la sua non conformità ai principi costituzionali, sotto svariati profili.

Sotto il profilo della violazione degli artt. 3, 9, 2° comma, 32, 1° comma, 97, 1° comma, Cost.

Ad avviso di questo PM la norma censurata, prorogando ed estendendo i termini del precedente condono edilizio (v. art. 39 l. n. 724 del 1994) realizza un sistema ingiusto e discriminatorio nei confronti dei cittadini rispettosi delle leggi che, da un lato, si vedono privati di quei beni che anch’essi avrebbero potuto e voluto costruire (e che non hanno costruito non potendo ottenere o non avendo ottenuto il permesso); dall’altro, sono costretti ormai, in via permanente, a subire il degrado urbanistico prodotto dalla illegalità edilizia per il futuro. Del resto, ingiusto e discriminatorio è, altresì, il nuovo condono per il futuro, atteso che esso tende ormai definitivamente a fuoriuscire dalla eccezionalità e singolarità che caratterizzava il primo condono della legge n. 47 del 1985 ed assurge ormai a sistema. Un sistema che precluderebbe l’applicazione anche in futuro delle sanzioni previste dalla legislazione urbanistica e che, scardinando con la sua reiterazione il sistema della legalità, viola il principio di uguaglianza dei cittadini producendo, nel contempo, le condizioni per un ulteriore degrado ambientale e amministrativo.

Peraltro, se la ratio ispiratrice delle leggi di condono altro non è che la necessità di incrementare il gettito delle finanze dello Stato, in perdurante deficit, attraverso lo “scambio” della clemenza contro il denaro (sic!), quello odierno, a differenza di altri condoni (in specie di quelli fiscali o previdenziali), opera su beni indisponibili e costituzionalmente tutelati dalla comunità, i quali non possono essere scambiati con il denaro senza ferire e sconvolgere l’assetto dei valori costituzionalmente garantiti. Basti considerare che, attraverso la lettura combinata delle varie disposizioni (v. commi 15, 16, 17, 18 e 19 in relazione al comma 37 legge 47/1985, come modificata dalla legge che qui si censura) è addirittura consentito condonare anche beni immobili realizzati su beni demaniali, con la possibilità di conseguire la proprietà del suolo mediante una forma di accessione invertita nella quale non è più la proprietà del fabbricato abusivo ad accedere a quella del suolo, ma viceversa!!

I precedenti della Corte Costituzionale

Vero è che, come osservato dalla Corte costituzionale (v. soprattutto le sentenze nn. 369/1988, 169/1994, 416/1995, 427/1995 e 256/1996), le norme sul condono prendono atto di una situazione di illegalità di massa che si intende ricondurre, per esigenze di carattere economico-sociale e contemporaneamente per esigenze di bilancio che spingono a ricercare spasmodicamente pronte risorse finanziarie, nell’alveo del diritto, con attribuzione ad una fattispecie mediatrice (l’autodenuncia) dell’efficacia di estinzione dell’illiceità; ma le stesse sentenze sottolineano che tale esercizio del potere di clemenza deve avere carattere di eccezionalità e di chiusura di un’epoca, perché in caso contrario non si giustificherebbe il contrasto insito nella natura per così dire premiale dell’abusivismo con il comportamento della maggioranza dei cittadini onesti e osservanti la legge, con conseguente violazione dei principi di eguaglianza, sub specie della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di buona amministrazione (art. 97 Cost.).

Deve tenersi conto, inoltre, che una rottura del menzionato carattere eccezionale della misura condonistica attenuerebbe le remore della generalità dei soggetti alla commissione di abusi, per speranza – ed anzi – per la certezza che in un prossimo futuro tale misura sarebbe senz’altro riadottata e, per altro verso, ingenererebbe nei pubblici poteri un senso di sfiducia, di inutilità delle misure repressive e di inammissibile lassismo, a sua volta, per effetto perverso, generatore di ulteriori illeciti urbanistico-edilizi.

In particolare si richiama la sentenza n. 369/1988 della Corte Costituzionale con la quale si afferma che il condono può giustificarsi in circostanze eccezionali quando il legislatore intenda imprimere un nuovo orientamento alla disciplina di una materia e sia perciò quasi «necessitato, nel cancellare il passato, ad incidere sulle sanzioni penali poste a rafforzamento di quelle extra-penali».

Nulla di tutto questo è riscontrabile nel nuovo condono. Infatti se il condono della legge n. 47 del 1985 potè considerarsi legittimo solo in quanto “eccezionale” e “singolare”, ciò non può certo valere per il nuovo, ennesimo condono edilizio che contraddice, senza  mutare sul piano generale, i principi ed i valori della normativa urbanistica, convertendosi in norma di ingiustificato privilegio e insieme strumento di produzione di risorse statali sostitutive della imposizione fiscale, tale essendo – secondo questo PM – il principio informatore del condono edilizio. Ne deriva la lesione dei principi costituzionali surricordati (artt. 3 e 97 Cost.) e, come si dirà infra 117 Cost.) nonché dei principi fondamentali dello Stato di diritto.

Successivamente, poi, la Corte, con la sentenza n. 416/1995, sia pure ribadendo che la riapertura dei termini del condono, nei limiti dell’eccezionalità sopra evidenziata, non sembrava confliggere con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza, non ha legittimato l’equazione fra carenza di controllo e nuova necessità di condono, preannunciando sostanzialmente un eventuale giudizio di incostituzionalità qualora in futuro fosse stata emanata una nuova legge al riguardo, soprattutto (come di fatto è ora avvenuto) nella forma della mera riapertura dei termini precedentemente scaduti, sia pure in un contesto – del tutto insufficiente, anche per la scarsità delle risorse stanziate – di misure di riqualificazione del territorio. Ssi legge infatti nella sentenza 416/1995: «… carattere essenziale [del condono edilizio] è quello di norma del tutto eccezionale in relazione ad esigenze di contestuale intervento sulla disciplina concessoria e a contingenti e straordinarie ragioni finanziarie e di recupero della base impositiva dei fabbricatiBen diversa sarebbe invee la situazione in caso di altra reiterazione di una norma del genere [art. 39 l. n. 724 del 1994] soprattutto con ulteriore e persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del commesso abusivismo edilizio. Conseguentemente differenti sarebbero i risultati della valutazione sul piano della ragionevolezza, venendo meno il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma (con le peculiari caratteristiche della singolatità ed ulteriore irrepetibilità) in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il profilo della esigenza di repressione dei comportamenti che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilità in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l’uomo. La gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilità di condono-sanatoria con conseguente convinzione di impunità, tanto più che l’abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non segue la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l’ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».

Né sembra poter giustificare una siffatta e rinnovata misura la semplice considerazione delle esigenze di natura finanziaria, che ormai ricorrono in modo del tutto ordinario e permanente, anche se non si tenga conto delle ingenti risorse (che, fra l’altro, bilanciano le entrate del condono) necessarie agli Enti locali per oneri urbanizzativi e misure di inserimento delle costruzioni abusive nel contesto dei piani regolatori.

Segnatamente e puntualmente, la Corte Costituzionale ha osservato che sarebbe stato inevitabile un giudizio negativo nel caso di altra reiterazione della norma sul condono, soprattutto con ulteriore e persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del commesso abuso edilizio, anche perché la gestione del territorio sarebbe stata certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilità di condono sanatoria con conseguente convinzione di impunità. Un’eccezione non può quindi risolversi in un principio.

Inoltre, rilevante è la considerazione – come sopra accennato – che il condono realizza un sistema ingiusto e discriminatorio proprio nei confronti dei cittadini rispettosi delle leggi, che si vedono privare di quei beni che anch’essi avrebbero potuto costruire violando le norme, e che dall’altro sarebbero costretti, soprattutto in mancanza delle specifiche situazioni di diritto soggettivo, esse sole salvaguardate dalla legislazione condonistica, a subire il degrado urbanistico prodotto dall’illegalità edilizia, riemersa con ostentazione e legalizzata con rischio che in futuro si producano le condizioni per un ulteriore degrado.

Sotto il profilo della violazione dell’art. 117, 3° comma, Cost.

La normativa censurata non sembra poi violare soltanto i principi di eguaglianza, ragionevolezza, buona amministrazione e di tutela ambientale, ma anche le competenze regionali concorrenti in materia di governo del territorio stabilite dall’art. 117, 3° comma, della Costituzione (v. al riguardo, la sentenza n. 303/2003 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 commi 3 e 3bis della 443/01: fattispecie in cui la Consulta ha chiarito per la prima volta il complesso sistema di rapporti Stato-Regioni affermato nel nuovo Titolo V della Costituzione, in particolare, nella materia delle infrastrutture da realizzare per la modernizzazione del paese. La legge messa sotto accusa da tutte le Regioni ricorrenti era la legge 443/01 – “Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive” –, detta anche “legge obiettivo”. Con una sentenza di ben 93 pagine la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3 e 3bis, della citata legge 443/01 e di alcuni decreti attuativi della legge stessa, quali il D.Lgs 198/03 per eccesso di delega e gli artt. 15, 1° comma, 2, 3 e 4, e 19, 2° comma, del D.Lgs 190/02, relativo all’attuazione della legge 443/01, per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale; quest’ultimo articolo, in particolare, è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui, “per le infrastrutture e gli insediamenti produttivi strategici, per i quali sia stato riconosciuto, in sede di intesa, un concorrente interesse regionale, non prevede che la commissione speciale per la valutazione di impatto ambientale (VIA) sia integrata da componenti designati dalle Regioni o Province autonome interessate”. Con la sentenza 303, in altre parole, la Consulta è stata chiamata dalle Regioni per accertare se il complesso iter procedimentale previsto dalla “legge obiettivo” e da essa attributo al Governo - per la individuazione, la localizzazione e la realizzazione delle infrastrutture - fosse “ex se invasivo delle attribuzioni regionali”: ebbene, i giudici delle leggi hanno dato parzialmente ragione agli enti territoriali ricorrenti, censurando il governo soprattutto per aver fatto “cattivo uso” dello strumento della delegificazione, in materie di competenza regionale. È fondata – dice infatti la Consulta – la questione di legittimità costituzionale - sollevata da tutte le ricorrenti - che investe l'articolo 1, 3° comma, della legge 443/01, nella parte in cui autorizza il Governo a integrare e modificare il regolamento di cui al Dpr 554/99, per renderlo conforme a quest'ultima legge e ai decreti legislativi di cui al comma 2. In sostanza, si vuole dire che ai regolamenti governativi adottati in delegificazione è inibito disciplinare materie di competenza regionale. Perché, conclude la Corte, alla fonte secondaria statale è vietata in radice “la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti”).

Infatti, come è stato ben osservato anche dalla dottrina, con il condono lo Stato non detta principi generali (che sono ad esso riservati) ma introduce un’eccezione, invadendo una competenza regionale, anche se ai primi commi dell’art. 32 il D.L. n. 269/2003, ora conv. in legge, con una mera formula di stile si preoccupa (apparentemente e formalmente) di dichiararle “salve”.

Al riguardo, mentre non è ben chiaro il riferimento (che non sembra pertinente alla materia in esame) all’adeguamento delle norme regionali alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia), che infatti fissa principi e non già eccezioni – a meno che non si consideri la possibilità di una disciplina ricorrente e anzi permanente del condono che possa assurgere ai caratteri di principio –, le statuizioni condonistiche sono estremamente precise e dettagliate, e fissano in modo esaustivo ogni aspetto della materia, per cui il riferimento alla competenza regionale per il «rispetto delle condizioni dei limiti e delle modalità del rilascio del titolo abilitativo sanante» non può che limitarsi di fatto, nonostante la ridondanza dell’espressione, che ad aspetti di semplice dettaglio del procedimento.

Sembra pertanto che il legislatore statale abbia esorbitato dalla sua competenza che consiste nella semplice emanazione dei principi fondamentali, che non possono essere di dettaglio o addirittura regolamentari. Né può fondatamente affermarsi che, nella specie, si tratta di principi generali dell’ordinamento giuridico e di riforma fondamentale economico-sociale: si tratta invece soltanto di introduzione di un sistema moralmente discutibile per reperire subito e comunque risorse finanziarie.

Infine, sembra indubbio che il condono (come nel caso qui in esame) sia suscettibile di introdurre di deroghe, e quindi limitate varianti, ai piani regolatori, che vengono contraddetti, sanandosi costruzioni del tutto contrarie alle disposizioni in essi contenuti, con invasione delle competenze al riguardo del legislatore regionale e degli Enti locali.

Segue: Il nuovo strumento della conferenza dei servizi

Va poi soggiunto un altro, fondamentale aspetto di incostituzionalità.

Nel nuovo testo dell’art. 32 della legge 47/1985, così come novellato dalla dall’art.  32, comma 43, d.l. in oggetto, prevede una incisiva modifica delle disposizioni che disciplinano i pareri in materia di vincoli, attraverso una riformulazione che, a seguito delle varie modifiche intervenute nel tempo, torna alla logica del principio del silenzio-rifiuto generalizzato. Ora, in questo contesto, il novello art. 32 della legge 48/1985 reca una ulteriore innovazione che, apparentemente, mira alla semplificazione, ma, nella sostanza, è foriera di contenuti che vanno persino contro l’indicazione della Corte Costituzionale (sentenza 302/1988) sul riparto di competenze in materia paesistica. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 32, 4° comma, che nell’attuale formulazione stabilisce la possibilità di pervenire alla formulazione dei pareri, fra cui quello paesistico, mediante lo strumento della conferenza dei servizi; la disposizione in parola stabilisce anche che tal caso il motivato dissenso di una sola delle amministrazioni partecipanti, compresa la Soprintendenza competente, prelude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria.

Si tratta di una disposizione che innova in materia inaspettata e contraddittoria. Finora infatti era in vigore un assetto dei poteri e delle competenze, secondo cui – anche alla luce dell’art. 12 della legge 68/1988 – che recependo il contenuto della citata sentenza 302/1988 della Corte Costituzionale, prevedeva che la competenza ad emanare i pareri paesistici di cui all’art. 32 era delle Regioni (o degli enti territoriali da queste sub-delegati), mentre al ministero ed ai suoi uffici centrali e periferici era attribuita la potestà di annullamento dei provvedimenti emanati dalla Autorità delegata o subdelegata delle nuove autorizzazioni paesistiche. Sulle modalità di esercizio di tali funzioni e sulla estensione della potestà di annullamento ministeriale si è andata consolidando una giurisprudenza secondo cui la potestà di annullamento attiene ai profili di legittimità, senza mai estendersi al merito, non potendosi mai verificare che l’Autorità statale sostituisca un proprio giudizio di merito a quello emanato dal’autorità delegata o subdelegata (in tal senso, Consiglio di Stato, ad. plen., 8/2001; da ultimo, sez. VI, 3398/03). In forza di tale configurazione rispettosa dei ruoli e dei poteri è stato possibile, negli anni, che gli enti locali delegati o subdelegati abbiano riformulato pareri su pratiche già annullate, motivando in maniera innovativa, al fine di superare i motivi di illegittimità che erano stati posti a base dell’atto di annullamento ministeriale. In molti casi ciò è stato fatto con successo, fino al punto che sui nuovi provvedimenti le stesse autorità ministeriali hanno esplicitamente dato atto che vi erano motivi di annullamento.

La nuova formulazione dell’art. 32 finisce per distruggere l’equilibrio fra le attribuzioni di competenze, riaffidando alla Soprintendenza una competenza di merito e non solo di annullamento per motivi di legittimità, atteso che nella conferenza dei servizi essa potrebbe esprimere il proprio motivato dissenso, idoneo a provocare il rigetto dell’istanza, senza alcuna possibilità di riformulazione del parere.

Del resto proprio questo è uno dei motivi di ricorso alla Consulta da parte delle Regioni, atteso che con una disposizione apparentemente innocua e presentata come finalizzata alla semplificazione del procedimento (conferenza dei servizi) lo Stato si riappropria di una competenza di merito che la Corte Costituzionale e la giurisprudenza avevano inequivocabilmente ritenuto spettante alle Regioni.

In questo contesto si pone anche l’interrogativo di come possa conciliarsi una disposizione del genere con le legislazioni di alcune regioni (Campania, Lombardia), che, nel disciplinare la sub-delega in materia paesistica, hanno stabilito che gli Enti sub-delegati assumono i relativi provvedimenti sulla base di pareri espressi da Commissioni Edilizie Integrate da alcuni esperti in materia.

È evidente che un parere acquisito nella conferenza di servizi risulterebbe in contrasto con il procedimento fissato dalla legge regionale di sub-delega.

Va, inoltre, rilevato come la modifica dell’art. 32 della legge 47/1985, così sopra riformulata, come sostituzione di quello vigente, trova immediata applicazione anche alle pratiche di condono edilizio rimaste finora inevase dai due precedenti condoni.

P.Q.M.

Visto l’articolo 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87

Ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, per contrasto con gli artt. 3, 9, 2° comma, 32, 1° comma, 97, 1° comma, 117, 3° comma, della Costituzione,

CHIEDE

che codesto Ill.mo Giudice adito sospenda il presente giudizio ed ordini l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

Con le comunicazioni di rito agli organi parlamentari.

Viterbo,  17 dicembre 2003

                                                                       Il PUBBLICO MINISTERO

                                                                                   Dr. Aldo Natalini