Il procedimento e il provvedimento amministrativo in edilizia (note a margine della novella legislativa introducente la S.C.I.A. e della sentenza n. 20350 del 28 maggio 2010 della Cassazione Penale, sez. III)

di MASSIMO GRISANTI

 

 

SOMMARIO: A. Il procedimento amministrativo.   – B. La Segnalazione Certificata di Inizio Attività (S.C.I.A.) e il Silenzio-Assenso quali titoli abilitativi alla realizzazione degli interventi di trasformazione edilizia e/o urbanistica – non costituenti provvedimenti – variamente provvisori in attesa delle determinazioni del responsabile del procedimento sull’istanza di parte per il rilascio del provvedimento amministrativo.   – C. I provvedimenti abilitativi edilizi (Permesso di costruire e Autorizzazione edilizia) e titoli abilitativi edilizi (S.C.I.A. e deposito progetto).   – D. Sull’applicabilità della S.C.I.A. alla materia edilizia.   – E. Interpretazione della sentenza n. 20350, sez. III, Cass. Penale.

 

 

 

  1. – Il procedimento amministrativo.

 

1.            Affinché un atto amministrativo sia perfetto ed efficace, esso deve essere emanato dopo aver seguito un particolare iter, comprendente più atti ed operazioni che, nel loro complesso, prendono il nome di “procedimento amministrativo”.

Il “procedimento amministrativo”, dunque, è l’insieme di una pluralità di atti (susseguenti e diversi tra loro), che, nonostante la loro eterogeneità e la loro relativa autonomia, sono preordinati allo stesso fine e, cioè, alla produzione degli effetti giuridici propri di una determinata fattispecie.

Il provvedimento che ne segue si configura, pertanto, come una fattispecie a formazione progressiva, costituendo la risultante di un procedimento amministrativo.

 

2.            Tale concezione del procedimento statico-formalistica è stata tuttavia superata dai più recenti orientamenti che privilegiano una visione dinamica di tale nozione.

Taluni autori (PASTORI) lo considerano come il punto d’incontro tra l’esercizio del potere e l’esercizio dei diritti dei cittadini, altri (SCHINAIA) un momento di coordinamento e composizione di opposti interessi pubblici e privati.

Vi è chi (SCOCA) ha evidenziato come l’interesse pubblico non costituisce solo l’oggetto della scelta discrezionale, ma soprattutto un limite o una finalità dello stesso procedimento.

 

3.            Il nostro ordinamento contempla anche casi in cui il “procedimento amministrativo” può mancare, come accade – ad esempio – per la emanazione delle ordinanze di urgenza; dove, appunto esiste il provvedimento, ma non esiste il “procedimento”.

 

4.            Fino all’entrata in vigore della legge n. 241/1990, recante norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, mancava nel nostro ordinamento giuridico una disciplina generale del procedimento amministrativo; erano invece presenti talune normative di settore, afferenti a specifiche tipologie procedimentali (vedi la legge n. 2359/1865, in materia di procedimento espropriativo, e la legge n. 1150/1942, relativamente al procedimento di rilascio della concessione edilizia).

L’assenza di una regolamentazione generale del procedimento amministrativo comportava:

a)              un’ampia discrezionalità (talora trabordante in arbitrio) della Pubblica Amministrazione in sede di gestione del procedimento;

b)              il non riconoscimento del diritto degli interessati (persone fisiche, persone giuridiche ed enti di fatto) a partecipare attivamente ai procedimenti destinati a sfociare in atti variamente incidenti nelle loro sfere giuridiche.

Parte della dottrina amministrativa (ROHERSEN) ha tentato di ovviare all’assenza di una legge generale sul procedimento ed alle conseguenze negative dalla stessa derivanti, ritenendo sussistente nel nostro ordinamento giuridico il c.d. principio del “giusto procedimento”. Secondo tale dottrina, trattasi di un principio di democrazia procedimentale in forza del quale gli organi competenti possono imporre limitazioni ai diritti dei cittadini solo dopo averli messi nella condizione di esporre le proprie ragioni a tutela dei propri interessi o a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico (in tal senso si è espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 234/1985).

 

5.            Ancor prima dell’intervento della legge n. 241/1990, tale lacuna è stata colmata, sia pure con riferimento ai soli procedimenti di competenza degli enti locali, dalla legge n. 142/1990.

In particolare, l’art. 6 di quest’ultima legge, ispirandosi al principio del giusto procedimento, sancisce che nel procedimento relativo all’adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive devono essere previste forme di partecipazione degli interessati secondo le modalità stabilite nello statuto.

 

6.            Una soluzione definitiva ai problemi derivanti dall’assenza di una normativa generale nel procedimento è stata conseguita solo grazie alla legge n. 241/1990 e ss.mm.ii.

Essa, diversamente dalla citata legge n. 142/1990 e ss.mm.ii. che disciplina solo i procedimenti di competenza degli enti locali, sancisce regole generali valide per tutti i procedimenti amministrativi con l’unica esclusione degli enti pubblici economici, che, come noto, operano principalmente con strumenti privatistici.

Trattasi di una normativa che non pretende di codificare compiutamente la struttura ed il funzionamento del procedimento amministrativo, ma si limita a fissare, in armonia con il dettato dell’art. 97 della Costituzione, talune regole generali ispirate ai seguenti principi:

1)              il principio del giusto procedimento (conforme al principio ex art. 97 Cost.), che, garantendo il diritto di partecipazione degli interessati consacra la dialettica tra gli interessi pubblici e privati tendendo alla composizione dei concreti rapporti;

2)              il principio di trasparenza, che prevede il carattere obbligatorio della motivazione del provvedimento amministrativo, l’obbligo della Pubblica Amministrazione di identificare preventivamente l’ufficio ed il dipendente responsabile del procedimento ed il diritto dei cittadini interessati di accedere ai documenti amministrativi;

3)              il principio di semplificazione, che introduce taluni istituti diretti, in conformità all’art. 97 Cost., a snellire e rendere più celere l’azione amministrativa (silenzio-assenso, denuncia in luogo di autorizzazione, conferenze di servizi, ecc.).

 

7.            Per almeno ben due volte, la Corte Costituzionale (pronunce n. 303/2003 e n. 336/2005) ha avuto modo di evidenziare che gli istituti di semplificazione procedimentale della denuncia di inizio attività (ex art. 19, legge n. 241/1990) e del silenzio assenso (art. 20, legge n. 241/1990) costituiscono strumenti che garantiscono l’attuazione delle regole della concorrenza, in linea con i dettami comunitari di realizzare gli obiettivi di semplificazione.

Recita la Corte Costituzionale nella pronuncia n. 336/2005:

La disposizione in esame prevede moduli di definizione del procedimento, informati alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, espressivi in quanto tali di un principio fondamentale di diretta derivazione comunitaria. Del resto, l'evoluzione attuale dell'intero sistema amministrativo si caratterizza per una sempre più accentuata valenza dei “principi di semplificazione” nella regolamentazione di talune tipologie procedimentali ed in relazione a determinati interessi che vengono in rilievo (cfr. artt. 19 e 20 della legge n. 241 del 1990, come modificati dall'art. 3 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante «Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale», convertito, con modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80).”.

Ed ancora:

“Questa Corte ha, inoltre, già avuto modo di precisare – sia pure con riferimento a procedimenti aventi una esclusiva valenza urbanistica – in relazione alla denuncia di inizio attività di cui all'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), ora confluito nell'art. 22 del d.P.R. n. 380 del 2001, che «le fattispecie nelle quali, in alternativa alle concessioni o autorizzazioni edilizie, si può procedere alla realizzazione delle opere con denuncia di inizio attività a scelta dell'interessato integrano il proprium del nuovo principio dell'urbanistica (…). In definitiva, le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un principio dell'urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure» (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2. del Considerato in diritto).”.

In sostanza, la Corte Costituzionale – al di fuori delle materie c.d. “sensibili” elencate negli articoli 19 e 20 della legge n. 241/1990, che riflettono la tutela dei valori costituzionalmente protetti quali l’ambiente, il paesaggio, la salute e la pubblica incolumità, ecc. – ha sancito che in attesa di ottenere il preventivo titolo abilitativo di controllo privo di discrezionalità tecnica (autorizzazione, permesso, concessione non costitutiva, ecc,) il privato può dare corso all’inizio della propria attività, in quanto le valutazioni discrezionali amministrative sono state tutte già compiute negli atti generali a cui l’attività deve conformarsi.

 

8.            Pertanto, tutte le esigenze che sottendono la funzione del procedimento, quali:

-          l’accertamento, la valutazione e la ponderazione dei vari elementi di fatto e dei diversi interessi che la Pubblica Amministrazione deve tener presente nell’emanazione dei singoli atti;

-          la coordinazione dell’operato e del parere dei vari organi che intervengono nell’emanazione dell’atto;

-          l’esercizio dell’attività di controllo;

-          la garanzia che anche l’interessato venga sentito prima dell’emanazione dell’atto, e possa così far valere le proprie ragioni;

sono tutte svolte – ripeto, nelle materie diverse da quelle c.d. “sensibili” – dal privato (coadiuvato da professionisti del settore che compiono le richieste asseverazioni ed attestazioni) che intende avvalersi della facoltà concessagli dall’ordinamento di poter iniziare l’attività o l’opera senza attendere il rilascio del provvedimento abilitativo (che nel caso di specie non agisce più in funzione preventiva, ma in funzione di certificazione della correttezza dell’attività o dell’opera eseguita in conformità all’istanza e ai documenti allegati).

In tal modo il cittadino partecipa attivamente, ma con senso di responsabilità, all’amministrazione della res pubblica ed alla tutela degli interessi contemplati negli atti generali licenziati dalla Pubblica Amministrazione, con il minor sacrifico per i propri specifici interessi.

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  1. – La Segnalazione Certificata di Inizio Attività (S.C.I.A.) e il Silenzio-Assenso quali titoli abilitativi alla realizzazione degli interventi di trasformazione edilizia e/o urbanistica – non costituenti provvedimenti – variamente provvisori in attesa delle determinazioni del responsabile del procedimento sull’istanza di parte per il rilascio del provvedimento amministrativo.

 

1.            Con la recente legge n. 122/2010 la dichiarazione di inizio attività (già denuncia di inizio attività) è stata sostituita integralmente dalla “segnalazione certificata di inizio attività” o “S.C.I.A.”), la cui disciplina ha dichiaratamente soppiantato quella precedente relativa alla D.I.A, in ogni normativa nazionale e/o regionale.

 

2.            Come si può evincere dal confronto tra i due istituti di “semplificazione procedimentale” che abilitano all’inizio dell’attività, la S.C.I.A. è utilizzabile esclusivamente laddove alla Pubblica Amministrazione non residui alcun apprezzamento tecnico-discrezionale per il rilascio dell’atto di assenso comunque denominato, dovendo esclusivamente effettuare un mero accertamento della sussistenza dei requisiti predeterminati dalla legge.

 

3.            Il Silenzio-Assenso è invece utilizzabile:

-               sia nel caso in cui la Pubblica Amministrazione, nel rilascio dell’atto abilitativo richiesto con l’istanza, avrebbe proceduto con il mero accertamento;

-               sia nel caso in cui è necessaria una valutazione tecnico-discrezionale.

A questa interpretazione – grazie alla quale la semplificazione del procedimento mantiene una coerenza con la tutela, mediante controllo, degli interessi generali tradotti nelle scelte della pianificazione e programmazione – si giunge analizzando l’incipit contenuto nell’articolo 20 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. dedicato al silenzio assenso: “Fatta salva l’applicazione dell’art. 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, …”.

Invero, l’inciso “Fatta salva l’applicazione dell’art. 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi” sta ad evidenziare alcune peculiarità:

-               che anche nei procedimenti ad istanza di parte è applicabile la S.C.I.A. (prima D.I.A.);

-               che la S.C.I.A. (inizio anticipato dell’attività) è un titolo meramente privato, come tale non autonomamente impugnabile, facente parte del procedimento avviato mediante istanza di parte.

Poiché le norme sulla semplificazione del procedimento hanno come destinatari esclusivi i cittadini al fine della tutela dei loro specifici interessi privati, l’interpretazione del complesso delle disposizioni non può risolversi in una coercizione, bensì in una facoltà unilaterale di esercizio.

Tale incipit fa così comprendere come l’istituto di semplificazione della S.C.I.A. (art. 19) possa essere un adempimento facoltativo nel procedimento ad istanza di parte per il rilascio del provvedimento amministrativo, dovendo il Comune – a mio sommesso avviso – attrezzare i propri modelli di richiesta con un apposito spazio dedicato alla “segnalazione certificata di inizio attività” che sarà compilato a cura del richiedente il permesso di costruire o l’autorizzazione qualora l’interessato voglia dare inizio ai lavori – sotto la propria responsabilità ai sensi e per gli effetti dell’art. 21 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. - prima che la Pubblica Amministrazione si sia determinata sull’istanza.

 

4.            Riguardo alla facoltà di utilizzare gli istituti di semplificazione procedimentale, non è un caso che - ad esempio nella materia edilizia - l’art. 22, settimo comma, del D.P.R. n. 380/2001 disponga che l’interessato può comunque procedere alla richiesta del permesso di costruire per realizzare gli interventi eseguibili con la denuncia di inizio attività (ora S.C.I.A., sempreché ed in quali limiti tale istituto di semplificazione sia applicabile all’edilizia, come in appresso sarà esposto).

 

5.            Tuttavia, a ben vedere, entrambi i titoli abilitanti l’inizio dell’attività o dell’opera (S.C.I.A. e Silenzio-Assenso) sono di carattere provvisorio dato che l’art. 21 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. stabilisce che rimangono ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso delle pubbliche amministrazioni anche se è stato dato inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20.

Recita infatti l’art. 21, secondo comma:

Le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso si applicano anche nei riguardi di coloro i quali diano inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20 in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente.”.

In sostanza, la Pubblica Amministrazione è tenuta a controllare formalmente la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti per dare inizio all’attività, e nel caso in cui riscontri la mancanza dei requisiti richiesti o il contrasto con la normativa vigente deve comminare le sanzioni previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso (art. 21, commi 1 e 2).

 

6.            Poiché in Toscana, ai sensi dell’art. 84, comma 5, della L.R. 1/2005 e ss.mm.ii. il Comune è obbligato a verificare i presupposti legittimanti entro 20 giorni dalla presentazione della D.I.A. (ora S.C.I.A.) ecco che i dirigenti degli uffici tecnici devono – ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. – rilasciare formalmente l’atto abilitativo richiesto nello stesso termine perentorio (il permesso di costruire oppure l’autorizzazione edilizia per il settore speciale dell’edilizia residenziale di cui alla legge n. 457/1978 e dei parcheggi pertinenziali di cui all’art. 9 della legge n. 122/1989).

Si dubita, tuttavia, che tale termine di 20 giorni debba prevalere rispetto a quello ben più ampio indicato dalla legge n. 122/2010, in quanto vi deve comunque essere la concreta possibilità per l’ente locale di svolgere la propria funzione di controllo che costituisce anch’essa una garanzia per il cittadino destinatario del provvedimento.

 

7.            Per quanto concerne il permesso di costruire, poiché la legge regionale Toscana n. 1/2005 – all’art. 83, comma 5 – impone al “responsabile del procedimento” di formulare perentoriamente la proposta motivata (deliberazione preparatoria) a conclusione del procedimento, ecco che è sufficiente detta positiva formale deliberazione preparatoria per integrare la volontà provvedimentale tecnica dirigenziale della pubblica amministrazione espressa per ficto iuris (ovverosia per silenzio assenso) con il trascorso dei 30 giorni stabiliti (quale livello essenziale delle prestazioni) dall’art. 20 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii.

Invero, sia il Testo Unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii.) che la legge regionale Toscana n. 1/2005 e ss.mm.ii. - a differenza di quanto disposto dall’art. 6, comma 1, lettera e) della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. – nel disciplinare in modo speciale e compiutamente il procedimento finalizzato al rilascio del provvedimento autorizzatorio non consente all’organo competente all’adozione del provvedimento finale di discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria (deliberazione preparatoria) condotta dal responsabile del procedimento pur indicando le motivazioni. Pertanto è inapplicabile alla fattispecie la disposizione generale contenuta nell’art. 6 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. che consente al dirigente di discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria mediante specifica motivazione.

In sostanza, in edilizia il “responsabile del procedimento” è il vero deus ex machina del provvedimento conclusivo e la determinazione che contiene le risultanze dell’istruttoria altro non è che una deliberazione preparatoria vincolante quanto al contenuto del provvedimento finale.

Ecco, quindi, che le responsabilità del corretto procedimento e del contenuto del provvedimento finale (ottenuto anche per fictio iuris ovverosia per silenzio assenso) sono tutte ad appannaggio del “responsabile del procedimento” nelle materie che non ineriscono i c.d. valori “sensibili” (ambiente, paesaggio, salute e pubblica incolumità, ecc.), in quanto la volontà politica amministrativa degli organi della pubblica amministrazione di ammettere l’attività o l’opera per cui è stata avanzata l’istanza era già stata espressa preventivamente in sede di pianificazione e programmazione generale e pertanto è del tutto inutile ripetere le scelte politiche già effettuate, residuando solamente aspetti di natura tecnica.

Non a caso, la Regione Toscana ha specificamente disciplinato il caso in cui il dirigente preposto al rilascio del permesso di costruire non condivida le risultanze a cui è pervenuto il responsabile del procedimento.

Invero, una volta che il dirigente diverga sull’esito dell’istruttoria e non vi sia alcuna possibilità di composizione delle diverse vedute, esso non può adottare l’atto e il richiedente il permesso di costruire – previa diffida ad adempiere andata vana - può chiedere alla Regione di nominare un commissario ad acta ai sensi della l.r. n. 88/1998.

In tal caso, quale rimedio “gerarchico giudiziale”, il Commissario regionale adotta il provvedimento  conclusivo.

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  1. – I provvedimenti abilitativi edilizi (Permesso di costruire e Autorizzazione edilizia) e titoli abilitativi edilizi (S.C.I.A. e deposito progetto).

 

1.            Come già esposto in precedenza, l’autorizzazione amministrativa (al cui schema devono essere ricondotte tutte le forme di titoli edilizi ed in precedenza anche la concessione edilizia) oltre a rimuovere un limite legale all’esercizio di un’attività consolida la legittimità dell’opera eseguita ed il conseguente diritto del proprietario della res ad utilizzarla, a mantenerla nel tempo anche in presenza di modifiche del quadro normativo vigente al momento della sua realizzazione, a disporne anche a fini economici (compreso la vendita).

 

2.            Forme semplificative del procedimento che portano alla formazione di un provvedimento amministrativo ottenuto per ficto iuris (silenzio assenso) sono sempre state osteggiate dagli operatori, finanche dal destinatario diretto del provvedimento, in quanto non stabilizzano i rapporti tra p.a. e privati.

Invero, è assai difficile la formazione di un valido silenzio assenso, anche in considerazione che ai sensi dell’art. 21 della legge n. 241/1990

“Con la denuncia (n.d.r.: oggi S.C.I.A.) o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato.”.

In sostanza, qualora a seguito di un’azione di accertamento ex post compiuta dalla p.a. scaturisca che la S.C.I.A. o l’istanza sia basata su presupposti inesistenti, falsi o non veritieri il provvedimento della p.a. ottenuto per silentium è tamquam non essent.

 

3.            Si può quindi comprendere la diffidenza verso tali forme surrogatorie del provvedimento, tanto che la giurisprudenza è arrivata a dichiarare la persistenza del diritto del privato ad ottenere il provvedimento espresso della p.a. ancorché sulla domanda si sia formato il silenzio assenso, proprio per il principio della certezza del diritto e della conseguente stabilità del provvedimento.

Invero, l’incertezza che contraddistingue il silenzio assenso mina alla radice i diritti fondamentali dell’uomo ad ottenere dalla p.a. quel “bene della vita”, nella specie il provvedimento espresso, che solamente assicura la stabilità dei rapporti giuridici (si pensi nell’ordinamento civile alle compravendite e qualsiasi altra obbligazione di natura patrimoniale e non).

Senza considerare che nel caso in cui vi sia una pronuncia giurisdizionale - su ricorso di terzi, interessati ad opporsi al provvedimento formatosi per ficto iuris - che annulli il silenzio assenso, particolare rilevanza – ai fini del risarcimento del danno – assume la dichiarazione di rispondenza dell’opera ai presupposti legittimanti effettuata ai sensi dell’art. 21 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. da parte del richiedente.

Invero, in tal caso, i danni conseguenti non possono che essere ripartiti tra la p.a. (che non ha annullato il silenzio assenso) e il privato, visto che entrambi sono stati parti attive nella formazione del titolo ottenuto per silentium con la loro azione rispettivamente di controllo e di asseverazione che si è rivelata fallace davanti alla Giustizia.

Diversamente, ovverosia in presenza di un provvedimento espresso (alla cui adozione la p.a. è chiamata doverosamente ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii.) gli eventuali danni conseguenti al suo annullamento in sede giudiziale non possono che gravare interamente sulla p.a. (in particolare sul funzionario che ha sottoscritto l’atto).

In sostanza, il legislatore consente al privato di poter anticipare l’esecuzione dell’attività che intende intraprendere (mediante la s.c.i.a. e il silenzio assenso) solamente se accetta di condividere i rischi della validità dell’azione da intraprendere con la p.a. Altrimenti, il privato non può che rimanere ad attendere l’adozione del provvedimento espresso.

E’ superfluo dire che nel caso in cui la scelta ricada sull’inizio dell’attività mediante modelli procedimentali semplificati la responsabilità dell’effettiva aderenza sostanziale dell’opera alla normativa di settore ricade interamente sul professionista chiamato ad asseverare il progetto: da qui anche la legittima rivendicazione degli ordini professionali alla reintroduzione dei minimi tariffari, la cui abolizione tanto nuoce sia al professionista che al committente nel caso in cui l’asseverazione si riveli fallace.

Così come è superfluo dire che più la strumentazione pianificatoria e programmatoria nonché i regolamenti sono di chiara applicazione e minore è il rischio per il funzionario comunale di rilasciare autorizzazioni contra legem a cui potrebbe essere successivamente richiamato a danni.

Pertanto è del tutto evidente che la chiarezza pianificatoria e programmatoria e la semplicità dei linguaggi adottati nella redazione degli strumenti comunali porta un immediato e diretto vantaggio a tutti coloro che, in veste pubblica o privata, sono chiamati alla loro applicazione.

 

4.            E’ in base a queste considerazioni che è stata approfondita l’esegesi del Testo Unico dell’Edilizia.

 

5.            Orbene, l’attenzione si è soffermata sugli articoli 136 e 137 t.u.e. che rispettivamente riportano le norme abrogate e quelle che rimangono tuttora in vigore.

 

6.            Si riporta adesso un compendio dell’analisi dell’art. 136 – Abrogazioni compiuto da MAURA CARTA.

“Con il termine abrogazione si fa riferimento alla eliminazione dell’efficacia della legge, specifica ed individuata manifestazione del potere dell’organo legislativo che dà luogo ad un nuovo atto legislativo.

Lo schema dell’abrogazione presenta un rapporto tra due atti di pari grado nell’ordine gerarchico delle fonti e mette capo ad un determinato effetto prodotto dall’atto posteriore sull’oggetto e di riflesso sull’efficacia dell’atto anteriore in presenza (e in conseguenza) di una esplicita pronuncia – e si versa nell’ipotesi di abrogazione espressa – oppure di una situazione obiettiva d’incompatibilità tra nuova e vecchia disciplina, ed allora si verifica il caso di abrogazione tacita.

Da tempo in dottrina viene discussa l’efficacia abrogativa delle norme contenute in un testo unico e sui rapporti tra le norme ricognitivi o innovative e le disposizioni preesistenti.

Per comprendere l’ambito di incidenza del testo unico sulle norme preesistenti, occorre tener conto della natura giuridica, della tipologia e della collocazione di questo atto nel sistema delle fonti.

La ratio ispiratrice di queste previsioni è l’esigenza di riunire e coordinare norme legislative e regolamentari concernenti l’attività costruttiva, talvolta confuse e frammentate, tali da ingenerare frequentemente il dubbio sulla vigenza o meno di una disposizione o sulla sua abrogazione.

L’art. 20, comma 4, della legge n. 59/1997 (norma in base alla quale sono state disposte le abrogazioni di cui al primo comma dell’art. 136 t.u.e.) ha stabilito che dopo l’entrata in vigore dei regolamenti di delegificazione “con effetto dalla stessa data sono abrogate le norme, anche di legge, regolatrici dei procedimenti”.

Sia gli utenti che gli interpreti si avvantaggiano di un sicuro quadro giuridico di riferimento e, in particolare, della chiara distinzione tra le norme vigenti e quelle abrogate, anche se nel testo unico dell’edilizia.

L’art. 136 t.u.e. prevede due distinte ipotesi di abrogazione: si tratta di una duplicazione più apparente che reale, atteso che i due commi fanno espressamente riferimento a due distinte previsioni di legge alla base del potere “abrogativo”.

L’art. 20, comma 4, della legge n. 59/1997 fa riferimento all’abrogazione delle norme procedimentali, mentre l’art. 7 della legge n. 50/1999 riguarda le abrogazioni connesse e conseguenti all’entrata in vigore del testo unico o, comunque , derivanti dalla perdurante vigenza di altre disposizioni.

Secondo uno dei primi commentatori del t.u.e. (M.A. MARCIANO), la molteplicità di previsioni relative alle abrogazioni risponde alla ratio di individuare esattamente la fonte del potere abrogativo del Governo per evitare di cadere in un eccesso di delega: dato il carattere meramente ricognitivi di queste “abrogazioni” il rischio di declaratoria di incostituzionalità di questa norma finale sembra davvero remoto.

Analizzando nel dettaglio le disposizioni abrogative dell’art. 136, comma 1, t.u.e. si rileva come la disposizione in esame prevede l’espressa abrogazione di varie norme ai sensi dell’art. 20 della legge n. 59/1997 e, cioè, quelle essenzialmente preordinate alla regolazione dei procedimenti di rilascio dei provvedimenti abilitativi, in prevalenza da tempo disattese e superate.

L’elenco comprende:

a) l’articolo 31 della legge n. 1159/1942, che per primo ha introdotto l’obbligo della “licenza di costruzione” per le nuove costruzioni, l’ampliamento, la modifica o la demolizione e per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione;

b) l’articolo 3 della legge n. 1357/1955 riguardante la facoltà dei comuni di apportare deroghe alle norme tecniche di attuazione del p.r.g. e del regolamento edilizio per la realizzazione di impianti ed attrezzature di interesse generale (alberghi, ecc.);

c) gli articoli 1, 4 (commi 3, 4 e 5) e ) (lett. c) della legge n. 10/1977. L’art. 1 concerne l’estensione dell’ambito delle attività edificatorie da subordinare a concessione edilizia comprendendovi qualunque intervento, su area urbanizzata o no, consistente in nuova costruzione, ampliamento o opera di urbanizzazione. L’art. 4, commi 3, 4 e 5 disciplina l’efficacia temporale del titolo concessorio ed i termini di inizio ed ultimazione dell’intervento assentito, mentre l’art. 9, lett. c) è relativo alla gratuità degli interventi di manutenzione straordinaria;

d) l’art. 48 della legge n. 457/1978 che aveva introdotto un iter semplificato e sancito la necessità dell’autorizzazione edilizia per le opere di manutenzione straordinaria;

e) gli articoli 7 e 8 del decreto legge n. 9/1982 convertito in legge n. 94/1982 (cd. Legge Nicolazzi) contenente ulteriori semplificazioni per le opere di modesta entità e per le pertinenze;

f) gli articoli 15 e 25, comma 4, della legge n. 47/1985. La prima disposizione riguarda le varianti in corso d’opera, mentre la seconda concerne l’attribuzione alle regioni della competenza ad individuare criteri e modalità per la regolamentazione delle modifiche di destinazioni d’uso, con o senza opere edilizie;

g)      l’articolo 4 del decreto legge n. 398/1993 convertito, con modificazioni, in legge n. 493/1993. Questa disposizione, più volte integrata e modificata, ha definito specifici limiti temporali per il rilascio della concessione edilizia, limitato la possibilità di richieste puramente dilatorie di documenti da parte del Comune ed introdotto la d.i.a. per gli interventi edilizi di minore importanza.”.

Le disposizioni dell’art. 136, comma 2, riguardano invece, come già detto, le abrogazioni connesse o conseguenti all’entrata in vigore del t.u.e. e riguardanti le norme sostanzialmente di principio delle leggi in materia.

 

7.            Arrivati qui nell’esegesi, si sposta l’attenzione all’art. 137 – Norme che rimangono in vigore del t.u.e.

L’art. 137, comma 1, contiene la specifica e puntuale individuazione delle norme che rimangono in vigore, non inserite nel testo unico, così come stabilito dall’art. 7 , comma 2, lett. e) della legge n. 50/1999.

Questa attività ricognitiva è la risultanza della comparazione tra il testo originario delle leggi in materia edilizia e quello rimasto dopo l’abrogazione parziale di alcune leggi dichiarata ai sensi del precedente art. 136.

L’elenco non è esaustivo, poiché molte norme collegate a quelle elencate rimangono anch’esse in vigore, pur senza essere espressamente richiamate (ad esempio la legge n. 689/1981, la legge n. 186/1968, la legge n. 1083/1971, il D.P.R. n. 547/1955).

Nel comma 1 ritroviamo tra le leggi ancora vigore l’intero complesso normativo della legge n. 457/1978.

E’ questa apparente discrasia con l’abrogazione disposta dal precedente art. 136 per l’art. 48 della legge n. 457/1978 che ha acceso l’interesse per una più approfondita analisi del t.u.e.

E’ dall’esame comparato delle disposizioni degli articoli 136 e 137 inerenti la legge n. 457/1978 che posso ragionevolmente affermare che dell’art. 48 della legge n. 457/1978 è stato abrogato il solo modulo procedimentale che porta al rilascio del provvedimento di autorizzazione edilizia, ma non il titolo.

Una siffatta interpretazione è corroborata altresì dalla specifica disposizione dell’art. 1, comma 2, t.u.e. che espressamente dispone la perdurante vigenza di specifiche normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia.

Invero, la giurisprudenza maggioritaria ha sempre statuito che le disposizioni della legge n. 457/1978 hanno carattere di normativa speciale e che devono applicarsi esclusivamente all’edilizia residenziale: arrivando ad escludere l’applicazione delle definizioni degli interventi sul patrimonio edilizio esistente di cui all’art. 31 l. 457/1978 per edifici non aventi destinazione urbanistica residenziale.

Anzi, dal combinato disposto degli articoli 1, secondo comma, 136, primo comma, e 137, primo comma, esce codificato in legge il suddetto orientamento prevalente giurisprudenziale; con la derivante conseguenza che l’intervento di ristrutturazione edilizia per interventi su edifici a destinazione residenziale non può arrivare fino a comprendere la demolizione e fedele ricostruzione con spostamenti rispetto all’originaria posizione visto che la definizione speciale contenuta nell’art. 31, lettera d) della legge n. 457/1978 non ammette tale favor oggi previsto dall’art. 3 del t.u.e. e che entrambe le definizioni prevalgono su quelle diverse contenute negli strumenti urbanistici generali e nei regolamenti edilizi.

Resta il fatto che, in conclusione, i provvedimenti amministrativi edilizi sono sempre:

-               In via ordinaria, il permesso di costruire (ex concessione edilizia);

-               In via speciale per l’edilizia residenziale e per la realizzazione di parcheggi pertinenziali ai sensi della legge n. 122/1989, l’autorizzazione edilizia;

-               IN via speciale per la disciplina antisismica, l’autorizzazione sismica;

-               IN via speciale per le costruzioni in cemento armato, il deposito del progetto.

Solamente con questa conclusione, peraltro, si spiega l’introduzione del terzo comma dell’art. 137 (tra le norme che sono rimaste in vigore a seguito dell’entrata in vigore del t.u.e.) con il quale viene assoggettata a denuncia di inizio attività (oggi s.c.i.a.) l’esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal primo comma dell’art. 9 della legge n. 122/1989.

Invero, qualora si volesse accedere all’interpretazione che l’autorizzazione edilizia non sussista più nella materia tale disposizione non avrebbe alcun senso in virtù del fatto che le pertinenze erano state comunque regolate dal legislatore al precedente art. 22 t.u.e. relativo alla d.i.a.

 

8.            In conclusione:

1.      in tale ottica e nel rispetto del principio di divieto della duplicazione delle valutazioni già compiute ai fini della rimozione del limite legale all’esercizio dell’attività quale elemento permissivo e non costitutivo di diritti soggettivi, costituiscono titoli abilitativi all’inizio della realizzazione delle opere il permesso di costruire, le autorizzazioni suddette, il deposito progetto ex legge n. 1086/1971 ed ex legge n. 64/1974 (già configurati come d.i.a. dalla Corte Costituzionale), la s.c.i.a. (prima d.i.a.);

2.      costituiscono, invece, provvedimenti abilitativi che stabilizzano le opere iniziate ed eventualmente ultimate, in quanto provenienti dalle pp.aa., il permesso di costruire, le varie autorizzazioni e il silenzio assenso ottenuto per ficto iuris.

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  1. – Sull’applicabilità della S.C.I.A. alla materia edilizia.

 

1.            In attesa di leggere autorevoli saggi di dottrina in merito, al momento risulta controversa l’applicazione della S.C.I.A. alla materia edilizia.

Vi è chi sostiene che la novella normativa non si applichi all’edilizia in quanto verte in materia della disciplina della concorrenza e non del governo del territorio; altri (SANTOLOCI e STEFUTTI) sostengono che è proprio la lettura del dettato normativo a far propendere per la tesi opposta, in quanto si prescrive che la S.C.I.A. sostituisca la D.I.A. ovunque questa ricorra.

 

2.            Ritengo sia da preferire una via mediana ovverosia un’applicabilità ristretta ad interventi che non necessitino di valutazioni tecnico discrezionali.

Invero, dal momento che la novella legislativa della S.C.I.A. si innesta nella legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. sostituendone espressamente l’art. 19, ecco che non può farsi a meno di ricercare nella legge n. 241/90 le eventuali causa ostative all’applicabilità tout court della S.C.I.A.; considerando, peraltro, che al legislatore nazionale è inibito comprimere e/o ridurre significativamente la potestà normativa dei comuni attraverso i regolamenti.

 

3.            A tal proposito, occorre ricordare le disposizioni dell’art. 17 della legge n. 241/1990:

Art. 17 (Valutazioni tecniche)

1. Ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l’adozione di un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell’amministrazione procedente nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell’amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari.

2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica in caso di valutazioni che debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini.

3. Nel caso in cui l’ente od organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie all’amministrazione procedente, si applica quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 16.

 

4.            Ecco, quindi, che estrema importanza assumono il regolamento edilizio e le disposizioni ivi contenute.

 

5.            Il regolamento edilizio fin da tempi lontani è manifestazione dell’autonomia normativa dei Comuni, ma ci si deve interrogare su quali innovazioni siano state determinate dall’entrata in vigore della riforma del titolo V della Costituzione, di cui alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, nonché dalla legge 5 giugno 2003, n. 131, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla medesima riforma.

Si riportano al riguardo alcuni passi di dottrina (F. CINTIOLI).

 

“I problemi di collocazione del regolamento edilizio nel sistema delle fonti non possono risolversi senza tener conto delle innovazioni dovute alla legge costituzionale n. 3 del 2001.

L’art. 114 della Costituzione stabilisce solennemente che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.

L’art. 117, comma 6, della Costituzione, inoltre, occupandosi dei regolamenti, afferma che i Comuni, le Province, le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

In primo luogo, il riconoscimento costituzionale dell’autonomia comunale abbraccia anche il regolamento edilizio, il quale di siffatta autonomia continua indubbiamente a restare diretta espressione.

Non foss’altro che per i dati storici, i quali insegnano che simili competenze erano affidate ai Comuni negli ordinamenti degli antichi Stati italiani, e per elementari ragioni di definizione dell’assetto del territorio in funzione delle quotidiane esigenze di vita della collettività locale.

In secondo luogo, si deve appurare se la copertura costituzionale di poteri regolamentari “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” valga anche per il regolamento edilizio.

Se si prende in esame il disposto dell’art. 4, comma 1, del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. n. 380/2001) la risposta parrebbe negativa: il regolamento edilizio sembra occupare un ambito diverso da quello descritto all’art. 117, comma 6, della Costituzione.

Né l’organizzazione né lo svolgimento delle funzioni comunali paiono interferire con la descritta disciplina delle “modalità costruttive”.

E’ pur vero che, per tradizione, il regolamento edilizio conteneva anche norme sul procedimento relativo alla domanda e rilascio della concessione edilizia, nonché relative ad altri aspetti procedimentali, ivi compresi talora quelli di controllo e vigilanza.

Tuttavia la novità dell’art. 4, comma 1, del t.u. starebbe proprio nel circoscrivere l’oggetto di questo regolamento all’edilizia, collocando altrove le disposizioni di tipo urbanistico e procedimentale, e fatta salva la riserva di cui al comma 2 del medesimo art. 4 a proposito del ruolo della commissione edilizia.

Giova però precisare che l’aver sottratto, nell’enunciazione del “tipo” normativo, profili attinenti all’organizzazione o svolgimento delle funzioni, non può avere alcuna implicazione nel fissare la misura della potestà regolamentare comunale salvaguardata dall’art. 117, comma 6 della Costituzione.

Un conto è occuparsi del contenuto del regolamento edilizio previsto dal t.u., altro conto è definire ambito (nonché fondamento, presupposti e limiti) della potestà regolamentare comunale quale descritta nella Costituzione.

Il problema ovviamente rischia di divenire meramente nominalistico, qualora si ritenesse che comunque ciò che si sottrae da una parte al regolamento edilizio rientra dall’altra parte e ad altro titolo nella potestà regolamentare del Comune; anche se sono forse possibili alcune sue proiezioni sul piano del procedimento di formazione del regolamento (si dovrebbero caso per caso accertare se nello statuto comunale ovvero eventualmente nello statuto regionale, oltre che nella legge statale, vi sia una disciplina speciale per l’approvazione di tutti o di alcuni dei regolamenti che al Comune è concesso di emanare).

Dunque non sembra che la disciplina vigente (per un verso l’art. 117, comma 6 della Costituzione, per altro verso l’art. 4 della legge n. 131/2003) possa mai oggi consentire alla legge statale o regionale ciò che prima ad essi si consentiva (P. NERI): ossia di prevaricare tout court le norme del regolamento comunale relative ad aspetti procedimentali, senza per ciò cadere quantomeno in un vizio di legittimità costituzionale.

Riepilogando gli ultimi passaggi:

h) il regolamento edilizio è espressione dell’autonomia normativa comunale e in questo senso rinviene oggi il primo fondamento positivo nell’art. 114, comma 1, Cost.;

i) il regolamento edilizio, inteso come il tipo regolamentare oggi configurato dal t.u. edilizia non contiene più norme di carattere procedimentale e organizzativo e pertanto non rientra nell’ambito della potestà regolamentare espressamente prevista dall’art. 117, comma 6, Cost. (in senso diverso e quindi favorevole a ritenere che tale norma costituzionale, lì dove menziona lo svolgimento delle funzioni, possa riferirsi anche alle modalità costruttive e quindi anche al regolamento edilizio, utilizzando argomenti che comunque rientrano nei filoni interpretativi che si sono esposti, V. ITALIA);

j)       la scelta fatta dal legislatore statale circa il contenuto tipico del regolamento edilizio non può comunque incidere in negativo sulla generale potestà regolamentare comunale inerente la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni, come detto prevista dall’art. 117, comma 6, Cost.”.

 

6.            Tuttavia, ancorché sia assodato che al Comune sia sempre consentito attraverso la potestà regolamentare disciplinare il procedimento amministrativo dei titoli edilizi, l’art. 4, comma 4, della legge n. 131/2003 devolve alla legge statale e regionale il compito di assicurare i requisiti minimi di uniformità.

Ecco, quindi, che le interferenza legislative possono giustificarsi per la tutela dell’unità giuridica ed economica e per la salvaguardia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali (di cui all’art. 120 della Costituzione) o, più in generale, per assicurare il rispetto dei principi di eguaglianza e solidarietà nonché dei diritti e delle libertà custoditi nella parte prima della Costituzione.

A tal riguardo è quindi derimente la qualificazione di “livelli essenziali delle prestazioni” assegnate dalla legge n. 122/2010 alla S.C.I.A. ed alla relativa disciplina per poter affermare con ragionevole certezza che tali disposizioni si applicano fin da subito – in quanto esprimenti una disciplina procedimentale compiuta – alle regioni a statuto ordinario e agli enti locali senza attendere il decorso di novanta giorni stabilito dalla legge 10 febbraio 1953, n. 62 (c.d. Legge Scelba) per il recepimento di tali principi ad opera della legislazione regionale.

Ecco, quindi che tali livelli essenziali delle prestazioni costituiscono metro di riferimento per i Comuni nell’esercizio della potestà regolamentare, ben potendo gli enti locali migliorare l’accesso alla prestazione da parte del Cittadino.

 

7.            L’elevazione a livello essenziale della prestazione sia dell’istituto della S.C.I.A. che della relativa disciplina non esime in ogni caso il privato e la p.a. dall’osservanza dell’art. 17 della legge n. 241/1990, dal momento che espressamente il legislatore ha consentito l’utilizzazione di tale forma di semplificazione procedimentale solamente in caso di accertamento dei presupposti e non allorquando il procedimento richieda valutazioni tecnico discrezionali.

 

8.            Ai sensi dell’art. 17 l. 241/1990 le valutazioni tecnico discrezionali possono essere previste sia dalla legge che dai regolamenti.

Di conseguenza, volta per volta, occorrerà conoscere il contenuto dei Regolamenti edilizi comunali e precisamente conoscere l’esistenza di disposizioni ivi contenute che impongono, per l’espletamento dell’attività di cui si vuol dare inizio, l’assunzione di pareri valutativi di organi appositi.

 

9.            Pertanto sono del parere che – fermo restando le esclusioni predeterminate dal legislatore – la S.C.I.A. non possa essere utilizzata solamente per quegli interventi che il Regolamento edilizio comunale ha previsto la preventiva acquisizione di organi di valutazione.

Qualora il Regolamento edilizio comunale non abbia istituito la Commissione edilizia (vedi art. 4 del t.u.e.) od altro organo equipollente avente le medesime funzioni oppure prescriva l’acquisizione di pareri valutativi di altri appositi organi (VV.FF., A.S.L., VV.UU. ecc.), con la S.C.I.A. possono essere eseguite anche le nuove costruzioni.

In sostanza per poter applicare sic et simpliciter la S.C.I.A. occorre che il Regolamento Edilizio comunale contenga già tutte le prescrizioni costruttive scaturenti dal rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi o che il Comune abbia scelto – nel Regolamento – di rinunciare alla predeterminazione dei requisiti.

Ecco quindi che, in applicazione del divieto di duplicazione delle valutazioni, il legislatore ha voluto spostare a monte la discrezionalità di cui gode la p.a. trasformando così in atto del tutto vincolato il provvedimento finale.

Se si pensa bene, è una visione riformista della p.a. che avvolge anche la materia del paesaggio dal momento che il legislatore statale ha già previsto dal 2004 che le prescrizioni di tutela dei beni paesaggistici debbano essere contenute negli appositi piani, una volta formati i quali anche l’autorizzazione paesaggistica – da sempre caratterizzata da fortissima valutazione tecnico discrezionale – diventa un atto del tutto vincolato al rispetto del contenuto del piano paesaggistico e la relativa azione della p.a. diventa di mero controllo delle disposizioni ivi contenute.

 

10.         Ovviamente, non è assoggettabile a S.C.I.A. la realizzazione dei parcheggi pertinenziali in deroga agli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di cui all’art. 9 della legge n. 122/1989 in quanto per l’esercizio della deroga occorre una specifica autorizzazione valutativa ad opera del medesimo organo (Consiglio comunale) che ha adottato le norme regolamentari-provvedimentali a cui il privato intenderebbe derogare.

 

11.         Il fatto che il Regolamento edilizio non sia strutturato come richiede l’art. 4 t.u.e. e che lo stesso rimandi – per la realizzazione di taluni interventi – alla preventiva acquisizione di pareri di organi consultivi diventa così una forma di “punizione-pungolo” per quei Cittadini che non riescono a far agire correttamente i propri diretti amministratori nella funzione amministrativa (n.d.r. secondo due noti adagi: chi è causa del suo mal pianga se stesso oppure ognuno ha il governo che si merita).

Il prolungamento delle procedure amministrative – che si traduce in perdita di competitività e danni per gli amministrati – porterà inevitabilmente ad un profondo cambiamento nel rapporto tra p.a. ed amministrati. Saranno inevitabilmente quest’ultimi a produrre quella spinta propulsiva al cambiamento dell’apparato burocratico che – spesso e volentieri per conservazione dei privilegi assunti – i propri primi rappresentanti istituzionali non sono mai stati capaci finora di avviare e portare a compimento al fine dell’interesse bypartisan dell’ammodernamento del Sistema-Paese.

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  1. – Interpretazione della sentenza n. 20350, Sez. III, Cass. Penale.

 

1.            Con la sentenza n. 20350 della terza sezione penale la Cassazione ha giudicato una presunta violazione della normativa urbanistica nella Regione Toscana in vigenza della legge regionale n. 1/2005.

 

2.            Ai Giudici della Suprema Corte era stato sottoposto un caso di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” (rientrante nell’art. 10 t.u.e.) eseguito in comune di Orbetello in costanza della presentazione di una denuncia di inizio attività redatta ai sensi ed agli effetti della l.r. 1/2005.

 

3.            Recita la sentenza:

“Nella fattispecie in esame è emerso, al dibattimento, che i lavori ancora in corso al momento del sopralluogo erano destinati complessivamente a suddividere il fabbricato in due unità immobiliari, mediante opere di diversa distribuzione interna e modifiche di porte e finestre esterne.

Lavori siffatti, per la loro evidente incidenza sul carico urbanistico, non potevano essere realizzati previa DIA semplice ma solo con DIA alternativa al permesso di costruire e tale procedura non risulta esperita in concreto.

Si verte, pertanto, in ipotesi di opere sostanzialmente prive di titolo abilitativo e ciò comporta (art. 22, 4° comma, T.U. n. 380/2001) l’applicazione delle sanzioni penali di cui al successivo art. 44 .”.

 

4.            Orbene, considerato che l’intervento non contemplava anche la modifica della destinazione d’uso urbanistica (che è assoggetto esclusivamente a permesso di costruire anche dalla legge regionale n. 1/2005) vi è da chiedersi:

<<Quale è quella procedura che doveva essere esperita in concreto, la cui mancanza ha permesso ai Giudici della Suprema Corte di stabilire che era stato operato in assenza del titolo abilitativo ? >>

 

5.            L’unica risposta, a mio sommesso avviso, risiede nelle considerazioni sopra esposte riguardo alla semplificazione procedimentale, ai titoli abilitativi all’inizio dell’attività e alla loro differenza con i provvedimenti autorizzatori.

 

6.            Invero, solo accettando la tesi che la denuncia di inizio attività (oggi S.C.I.A.) è esclusivamente una semplificazione del procedimento iniziato con l’istanza di permesso di costruire e che si conclude con il rilascio del provvedimento espresso (o per ficto iuris) - che consente l’inizio dell’attività edilizia, ma non sopperisce al provvedimento - si può comprendere in appieno la statuizione dei Giudici.

 

7.            In tal caso, ovverosia negli interventi assoggettati dal t.u.e. alla richiesta di permesso di costruire, l’interessato deve formulare l’istanza per l’ottenimento del permesso e qualora intenda anticipare l’esecuzione delle opere rispetto alla decisione provvedimentali deve allegare alla stessa (contestualmente o in via integrativa) la d.i.a. (oggi s.c.i.a.); peraltro, solo esperendo in concreto questa procedura può formarsi il provvedimento per ficto iuris (silenzio assenso) equipollente all’atto espresso.

Sovviene, a conferma di tale esegesi, che l’art. 19 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii. fin dalle modifiche apportate per mezzo della legge n. 80/2005 contiene una disposizione che richiama l’applicabilità dell’istituto del silenzio assenso di cui al successivo art. 20 anche alle d.i.a. (oggi s.c.i.a.).

Invero, solamente con una siffatta interpretazione può darsi una corretta spiegazione anche alla presenza del richiamo al silenzio assenso all’interno della disciplina della d.i.a. (ed oggi della s.c.i.a.): due istituti di semplificazione procedimentale accumunati dalla indefettibile presenza delle asseverazioni di conformità ai sensi e per gli effetti dell’art. 21 della legge n. 241/1990 e ss.mm.ii.