Corte Costituzionale sent. 282 del 21 dicembre 2016
Oggetto: Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Marche - Attività edilizia libera - Elencazione di una serie di interventi eseguibili senza necessità di ottenere alcun titolo abilitativo - Esonero per taluni interventi dell'obbligo di presentazione della comunicazione di inizio lavori;
Interventi soggetti a SCIA - Possibilità di realizzare mediante SCIA interventi di ristrutturazione edilizia, di demolizione parziale o integrale di manufatti edilizi, e gli interventi di cui all'art. 22, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001;
Variazioni essenziali - Previsione che non costituiscono variazioni essenziali rispetto al titolo abilitativo determinati interventi;
Autorizzazione temporanea - Possibilità del Comune di autorizzare a titolo temporaneo interventi edilizi riguardanti esclusivamente le opere pubbliche o di pubblico interesse e le attività produttive difformi dagli strumenti urbanistici comunali;
Miglioramento sismico degli edifici - Disciplina;
Recupero dei sottotetti degli edifici esistenti al 30 giugno 2014 - Disciplina.
Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza - inammissibilità
SENTENZA N. 282
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, lettere a), b), c), d), h), l) e m); 6, commi 1, lettere c) e g), e 2; 8, comma 3; 9, commi 1, 2 e 6; 12 e 13, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Marche 20 aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della normativa regionale in materia di edilizia), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 26-30 giugno 2015, depositato in cancelleria il 2 luglio 2015 ed iscritto al n. 73 del registro ricorsi 2015.
Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;
udito nell’udienza pubblica dell’8 novembre 2016 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 26-30 giugno 2015, depositato il 2 luglio 2015 e iscritto al n. 73 del registro ricorsi 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 4, comma 1, lettere a), b), c), d), h), l) e m); 6, commi 1, lettere c) e g), e 2; 8, comma 3; 9, commi 1, 2 e 6; 12 e 13, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Marche 20 aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della normativa regionale in materia di edilizia), in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione.
1.1.– L’art. 4, comma 1, della legge impugnata individua una serie di interventi edilizi eseguibili senza necessità di ottenere alcun titolo abilitativo, in quanto ritenuti ricompresi tra quelli indicati all’art. 6, comma l, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», di seguito TUE.
Secondo il ricorrente, la disposizione citata violerebbe i principi fondamentali in materia di «governo del territorio», in quanto gli interventi in essa individuati si allontanerebbero dalla ratio sottesa alla normativa statale che includerebbe tra le attività “libere” soltanto quelle prive di rilevanza esterna, se non temporanea. Inoltre, per taluni di essi, il legislatore regionale non avrebbe prescritto l’invio della comunicazione di inizio dei lavori (cosiddetta cil).
Sulla scorta di questa premessa generale, il Governo passa in rassegna le singole previsioni di edilizia libera elencate nella norma censurata, rimarcandone i profili di contrasto con la disciplina statale.
La lettera a) ‒ relativa ai «movimenti di terra strettamente necessari alla rimodellazione di strade di accesso e aree di pertinenza degli edifici esistenti, sia pubblici che privati, purché non comportino realizzazione di opere di contenimento e comunque con riporti o sterri complessivamente di altezza non superiore a metri 1,00» ‒ contrasterebbe con l’art. 6, comma l, lettera d), del TUE, che espressamente limita l’attività libera ai soli movimenti di terra «strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola».
La lettera b) ‒ la quale consente, negli stessi limiti previsti dalla lettera a), la «rimodellazione del terreno anche per aree di sosta nei limiti indicati alla lettera a), che siano contenute entro l’indice di permeabilità ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate» ‒ si porrebbe in contrasto con quanto previsto dall’art. 6, comma 2, lettera c), del TUE, in quanto non riproduce il limite della non accessibilità delle medesime e non prevede l’obbligo di presentare la cil.
La lettera c) ‒ relativa alla «realizzazione di rampe e pedane per l’abbattimento e superamento delle barriere architettoniche per dislivelli inferiori a metri 1,00» ‒ si porrebbe in contrasto con l’art. 6, comma l, lettera b), del TUE, che esclude espressamente dall’attività di edilizia libera gli interventi di rimozione delle barriere architettoniche che «comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni».
La lettera d) ‒ nella parte in cui non prevede l’obbligo di presentare la cil per gli interventi consistenti nella realizzazione di «aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici senza creazione di volumetria e con esclusione delle piscine ‒ violerebbe l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE.
La lettera h) ‒ che, nel combinato disposto con l’art. 5, commi l e 2, esclude dall’obbligo di presentare la comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato (cosiddetta cila) «le opere interne a singole unità immobiliari, ivi compresi l’eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscono elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici» ‒ violerebbe l’art. 6, comma 2, lettera a), e comma 4, del TUE, che subordina gli interventi di manutenzione straordinaria a tale adempimento.
La lettera l) violerebbe i principi fondamentali della materia «governo del territorio», in quanto ricondurrebbe all’attività edilizia libera una serie di fattispecie che la normativa statale subordina a permesso di costruire (art. 3, comma l, lettera e), del TUE), a SCIA, ovvero a cil (contrastando in quest’ultimo caso con quanto previsto dall’art. 6, comma 2, lettere b ed e-bis, del TUE).
La lettera m) ‒ relativa alle «opere necessarie a consentire lavorazioni eseguite all’interno di locali chiusi, anche comportanti modifiche nell’utilizzo dei locali adibiti a esercizio d’impresa» ‒ contrasterebbe con l’art. 6, comma 2, lettera e-bis), del TUE che esclude dall’edilizia libera gli interventi che riguardino parti strutturali dell’edificio.
1.2.– Viene impugnato anche l’art. 6, commi l, lettere c) e g), e 2, della legge reg. Marche n. 17 del 2015. La disposizione regionale, consentendo di realizzare mediante segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), invece che tramite permesso di costruire, o denuncia di inizio attività (DIA) alternativa al permesso di costruire, gli interventi «di ristrutturazione edilizia», «di demolizione parziale e integrale di manufatti edilizi», nonché quelli «di cui all’articolo 22, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001», violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento agli artt. 10, comma l, lettera c), e 22, comma 3, lettera a), del TUE, i quali devono ritenersi principi fondamentali in materia di «governo del territorio» afferenti al regime dei titoli edilizi abilitativi.
1.3.– Viene censurato anche l’art. 8, comma 3, della legge reg. Marche n. 17 del 2015, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.
La disposizione regionale prevede che: «Non costituiscono inoltre variazioni essenziali rispetto al titolo abilitativo il mancato completamento degli interventi o la realizzazione di minori superfici o volumetrie o altezze o parziali riduzioni dell’area di sedime, di maggiori distacchi, purché gli interventi non comportino difformità dalle prescrizioni del titolo abilitativo medesimo o da norme o piani urbanistici».
Il ricorrente lamenta che tale previsione contrasterebbe con il principio fondamentale della materia «governo del territorio» fissato dall’art. 34, comma 2-ter, del TUE, secondo cui: «Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali».
1.4.– Anche l’art. 9 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 viene impugnato per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. La disposizione regionale da ultimo citata ‒ nella parte in cui prevede che il Comune «può autorizzare a titolo temporaneo interventi edilizi» riguardanti opere pubbliche o di pubblico interesse e attività produttive, «ancorché difformi dalle previsioni degli strumenti urbanistici comunali adottati o approvati, destinati al soddisfacimento di documentate esigenze di carattere improrogabile e transitorio non altrimenti realizzabili» ‒ si porrebbe, per un verso, in contrasto con l’art. 7, comma 1, lettera b), del TUE, il quale esenta «le opere pubbliche, da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale e opere pubbliche di interesse statale» dal rispetto delle norme del titolo II del TUE, a condizione che ne sia accertata la «conformità con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 383, e successive modificazioni». Per altro verso, la disposizione regionale contrasterebbe con l’art. 14, comma l, del TUE, che non consente il rilascio di permesso di costruire in deroga per le attività produttive.
Aggiunge il Governo che, attraverso l’autorizzazione temporanea, la norma censurata avrebbe introdotto un nuovo titolo abilitativo, non previsto dalla legislazione statale, invadendo anche sotto questo profilo la competenza legislativa statale in materia di «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
1.5.– Il ricorrente impugna poi l’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015, in tema di miglioramento sismico degli edifici, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentali delle materie «protezione civile» e «governo del territorio» contenuti agli artt. 84 e 88 del TUE. L’art. 88, in particolare, riconoscerebbe soltanto al Ministro per le infrastrutture e i trasporti la possibilità di concedere deroghe all’osservanza delle norme tecniche di costruzione nelle zone considerate sismiche (viene citata la sentenza n. 201 del 2012).
1.6.– Da ultimo, l’art. 13, comma l, lettere a) e b), della legge reg. Marche n. 17 del 2015, in tema di recupero dei sottotetti degli edifici esistenti al 30 giugno 2014, nella parte in cui non prevede il rispetto delle distanze minime di cui all’art. 9 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765), violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in relazione all’art. 2-bis del TUE. La medesima disposizione regionale, «ove prevede di consentire l’agibilità», contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 24 e 25 del TUE, che disciplinano il certificato di agibilità.
2.‒ In data 5 agosto 2015 la Regione Marche si è costituita in giudizio, chiedendo sia dichiarata l’inammissibilità o, in subordine, l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale proposte dal Governo.
2.1.‒ In riferimento all’art. 4, comma l, della legge regionale impugnata, la resistente replica a ciascuno dei plurimi motivi di impugnazione.
La censura di incostituzionalità della lettera a), oltre che inammissibile per genericità e carenza di motivazione, sarebbe infondata. I movimenti di terra vengono sì riportati dalla norma statale alle sole attività aventi carattere agricolo e agro-silvo-pastorale, tuttavia ben potrebbe il legislatore regionale – nell’esercizio della facoltà riconosciutagli dall’art. 6, comma 6, lettera a), del TUE – individuare attività di diversa natura rispetto alle quali “i movimenti di terra” siano parimenti coessenziali.
La lettera b) dovrebbe interpretarsi come comprensiva dell’obbligo di comunicazione di inizio lavori previsto dall’art. 6, comma 2, lettera c), del TUE; analogamente, la realizzazione di «intercapedini interrate» dovrebbe intendersi assoggettata al limite della inaccessibilità delle medesime. Tale interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata sarebbe giustificata dalla stessa legge reg. Marche n. 17 del 2015, la quale rimanda alla disciplina statale per tutto quanto da essa non espressamente disciplinato (art. 1, comma 3).
Quanto alla lettera c), la scelta di ascrivere all’attività di edilizia libera la realizzazione di rampe e pedane «per dislivelli inferiori a metri 1,00», ovvero per altezze minime, che non sono idonee ad alterare la sagoma dell’edificio, si rileverebbe del tutto coerente con l’art. 6, comma l, lettera b), del TUE. Il fondamento della norma statale, infatti, sarebbe quello di evitare interventi di significativa rilevanza esterna, come quelli diretti alla realizzazione di ascensori, oppure di rampe e di altri manufatti, ma soltanto se idonei a modificare la sagoma dell’edificio: idoneità di cui la norma censurata sarebbe priva.
La questione di legittimità costituzionale della lettera d) sarebbe manifestamente inammissibile, contenendo il ricorso una mera asserzione del contrasto tra due norme, regionale e statale, senza alcuna argomentazione esplicativa. Nel merito, la previsione regionale, contemplando una fattispecie costruttiva di rilevanza esterna minima, non sarebbe sovrapponibile a quella prevista dall’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE. La norma censurata, infatti, riconduce all’edilizia libera le aree ludiche e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici senza «creazione di volumetria» e con esclusione «delle piscine». Inoltre, anche in questo caso, l’obbligo di comunicazione di inizio lavori, per quanto non previsto espressamente, potrebbe ricavarsi in via interpretativa.
Quanto alla lettera h), la questione sarebbe innanzitutto inammissibile. Ciò che la difesa erariale realmente contesterebbe non sarebbe la fattispecie ricondotta dall’art. 4, comma l, lettera h), tra le attività di edilizia libera, bensì la diversa previsione, contenuta nell’art. 5, comma l, che esclude tale ipotesi dall’assoggettamento alla cila. La norma da ultimo citata, tuttavia, come risulterebbe tanto dal ricorso quanto dalla delibera del Consiglio dei ministri, non sarebbe stata oggetto di specifica impugnazione. Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, poiché gli interventi in esame rientrano nell’attività di edilizia libera solo ove «non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici», e quindi solo nella misura in cui abbiano un particolare impatto sul territorio.
La questione prospettata in riferimento alla lettera l) sarebbe anch’essa inammissibile, non avendo il ricorrente specificato su quali parti della disposizione regionale impugnata (articolata in diversi sotto numeri) si appunterebbero le censure di incostituzionalità, né in relazione a quali parti delle norme statali (evocate a parametro interposto) si determinerebbe l’asserito contrasto. Nel merito, la questione sarebbe infondata, in quanto: ‒ dovrebbe escludersi la violazione dell’art. 3, comma l, lettera e), del TUE, ricomprendendo la norma impugnata interventi inidonei ad apportare una «trasformazione permanente del territorio non priva di rilevanza esterna»; per le medesime ragioni non sarebbe necessaria la SCIA; ‒ non vi sarebbe contrasto con l’art. 6, comma 2, lettera b), del TUE, concernente le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, la quale nulla avrebbe a che vedere con la impugnata lettera l), afferente alle «opere da realizzare nell’ambito di stabilimenti industriali, intese ad assicurare la funzionalità dell’impianto e il suo adeguamento tecnologico»; ‒ non sarebbe violato neppure l’art. 6, comma 2, lettera e-bis), del TUE, in relazione a tutte le fattispecie contemplate dalla norma regionale impugnata che non riguardano «modifiche interne di carattere edilizio»; per quelle parti della norma regionale che prevedono le suddette modifiche interne, la lettera l) andrebbe interpretata in senso conforme al TUE, con conseguente assoggettamento all’obbligo di comunicazione di inizio lavori.
Anche la questione di costituzionalità della lettera m) sarebbe manifestamente infondata, dovendosi, anche in questo caso, interpretare la norma regionale conformemente al TUE, con riguardo sia all’obbligo di comunicazione di inizio lavori, sia alla esclusione delle modifiche interne che comportino interventi su parti strutturali dell’edificio.
2.2.‒ L’impugnazione dell’art. 6, comma l, della legge reg. Marche n. 17 del 2015 sarebbe infondata, in quanto tale disposizione premette che sono soggetti alla SCIA soltanto gli interventi «non riconducibili all’attività edilizia libera di cui all’articolo 4 o alla CIL di cui all’art. 5 ovvero al permesso di costruire». In secondo luogo, l’infondatezza della censura statale discenderebbe dalla considerazione che l’art. 10, comma 2, del TUE, consente alle regioni di stabilire «con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività»: sarebbe lo stesso legislatore statale, dunque, a riconoscere espressamente al legislatore regionale un margine di azione circa la scelta di quali tra gli interventi che comportino mutamenti d’uso degli immobili (collegati o meno a trasformazioni fisiche) debbano essere subordinati al permesso di costruire o alla SCIA.
2.3.‒ La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo in relazione all’art. 8, comma 3, sarebbe innanzitutto inammissibile, poiché non motiverebbe sotto quale profilo due norme riguardanti oggetti diversi – una (quella impugnata) concernente l’individuazione delle variazioni essenziali al progetto assentito; l’altra (quella statale) relativa alla disciplina delle sanzioni per gli «interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire» – si porrebbero in conflitto tra loro.
Nel merito, la questione sarebbe comunque infondata. L’art. 8, comma 3, dopo aver stabilito che «il mancato completamento degli interventi o la realizzazione di minori superfici o volumetrie o altezze o parziali riduzioni dell’area di sedime, di maggiori distacchi» non costituiscono variazioni essenziali al titolo abilitativo, pone come condizione che «gli interventi non comportino difformità dalle prescrizioni del titolo abilitativo medesimo o da norme o piani urbanistici». Ciò significa «che tali variazioni non essenziali devono risultare pur sempre conformi alla normativa statale e che, pertanto, non saranno sanzionabili ai sensi dell’art. 34-ter [recte: dell’art. 34, comma 2-ter] solo qualora ne rispettino il contenuto, ovvero solo se si tratti di variazioni “che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”».
La Regione Marche aggiunge che la censura sollevata sarebbe «priva di fondamento» laddove si rivolge all’intero comma 3 dell’art. 8. Infatti, l’art. 34, comma 2-ter, del TUE, che il ricorrente assume essere stato violato dalla norma regionale impugnata, concerne le difformità del progetto realizzato rispetto al permesso di costruire e alla SCIA, non anche rispetto alla comunicazione di inizio lavori.
2.4.‒ La questione di legittimità costituzionale formulata dal Governo in riferimento all’art. 9, commi l, 2 e 6, della legge reg. Marche n. 17 del 2015, sarebbe anch’essa infondata. La disposizione regionale non avrebbe introdotto un ulteriore e nuovo titolo abilitativo edilizio, bensì si sarebbe limitata a disciplinare alcune ipotesi in relazione alle quali ragioni di interesse pubblico richiedono un permesso temporaneo, alla scadenza del quale o deve essere intervenuto il titolo abilitativo previsto dalla legge per quella determinata fattispecie, oppure l’opera deve essere rimossa, anche coattivamente. Del resto, per espressa previsione del comma 3 dell’art. 9, l’autorizzazione temporanea «non sostituisce le altre autorizzazioni previste dalla legge», ed è circondata da garanzie intese ad assicurare l’effettiva provvisorietà di tali interventi. Neppure si tratterebbe di un permesso in deroga, perché in quest’ultimo caso la deroga autorizzata non è provvisoria.
2.5.‒ In riferimento all’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015, la questione di legittimità prospettata dal ricorrente sarebbe inammissibile, in quanto il ricorso non avrebbe chiarito i termini del contrasto tra la norma censurata e i principi fondamentali della materia, individuata peraltro indifferentemente nel «governo del territorio» e nella «protezione civile».
Nel merito, la questione non potrebbe comunque essere accolta. Nessun contrasto potrebbe ravvisarsi tra la norma regionale impugnata e l’art. 84 del TUE, il quale riguarda soltanto gli edifici di nuova costruzione e non già, come la norma censurata, gli interventi volti a migliorare la tenuta di edifici esistenti rispetto a fenomeni sismici. Sotto altro profilo, le norme tecniche cui l’art. 84 del TUE fa rinvio, non sarebbero idonee a costituire principi fondamentali né in materia di «governo del territorio», né di «protezione civile», trattandosi di norme adottate con fonte regolamentare (si cita la sentenza n. 303 del 2003, paragrafo 7, del considerato in diritto).
Quanto, invece, al paventato contrasto con l’art. 88 del TUE, l’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 non conterrebbe alcuna deroga alle norme tecniche in materia antisismica. Inoltre, anche l’art. 88 si occuperebbe della sola costruzione di nuovi edifici in zone sismiche e non di interventi su edifici esistenti.
2.6.‒ L’impugnazione dell’art. 13, comma l, lettere a) e b), della legge reg. Marche n. 17 del 2015, sarebbe innanzitutto inammissibile per carenza di motivazione.
Nel merito, il denunciato contrasto tra la norma regionale e l’art. 2-bis del TUE sarebbe privo di fondamento, in ragione del fatto che la disposizione impugnata non autorizzerebbe alcuna deroga alla disciplina statale in materia di distanze.
Sarebbe priva di fondamento anche la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento alla violazione degli artt. 24 e 25 del TUE, in quanto la norma censurata non eliminerebbe la necessità, ove ne ricorrano i presupposti, di richiedere e ottenere il certificato di agibilità, limitandosi semplicemente a consentirne l’ottenimento.
2.7.‒ Con memoria depositata il 18 ottobre 2016, la Regione resistente ha ribadito le proprie difese.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, lettere a), b), c), d), h), l) e m); 6, commi 1, lettere c) e g), e 2; 8, comma 3; 9, commi 1, 2 e 6; 12 e 13, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Marche 20 aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della normativa regionale in materia di edilizia).
2.‒ Con un primo ordine di motivi, il ricorrente impugna l’art. 4, comma 1, lettere a), b), c), d), h), l) e m), della citata legge regionale. Queste disposizioni violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentali della legislazione statale in materia di «governo del territorio» contenuti nel d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», di seguito TUE. In particolare, gli interventi assoggettati dal legislatore regionale al regime dell’edilizia libera non sarebbero omogenei a quelli che possono essere eseguiti senza titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 2, del TUE.
2.1.‒ Secondo la giurisprudenza costituzionale, la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia di competenza legislativa concorrente fra Stato e regioni del «governo del territorio», vincolando così la legislazione regionale di dettaglio (sentenza n. 303 del 2003; in seguito, sentenze n. 259 del 2014, n. 171 del 2012, n. 309 del 2011).
L’art. 6, comma 6, del TUE prevede che le regioni a statuto ordinario possono estendere la disciplina dell’edilizia libera a «interventi edilizi ulteriori» (lettera a), nonché disciplinare «le modalità di effettuazione dei controlli» (lettera b). Nel definire i limiti del potere così assegnato alle regioni, questa Corte ha escluso «che la disposizione appena citata permetta al legislatore regionale di sovvertire le “definizioni” di “nuova costruzione” recate dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (sentenza n. 171 del 2012). L’attività demandata alla regione si inserisce pur sempre nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Non è perciò pensabile che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative, da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo» (sentenza n. 139 del 2013). Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella possibilità di estendere «i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6» (ancora sentenza n. 139 del 2013).
Su queste basi, va dunque verificato se, in relazione a ciascuna delle categorie di opere incluse ‒ dalle censurate lettere dell’art. 4, comma 1, della legge reg. Marche n. 17 del 2015 ‒ tra gli interventi edilizi eseguibili senza necessità di titolo abilitativo, il legislatore regionale si sia mantenuto nei limiti di quanto gli è consentito.
2.2.‒ La lettera a) riconduce all’edilizia libera i «movimenti di terra strettamente necessari alla rimodellazione di strade di accesso e aree di pertinenza degli edifici esistenti, sia pubblici che privati, purché non comportino realizzazione di opere di contenimento e comunque con riporti o sterri complessivamente di altezza non superiore a metri 1,00». Tale previsione, secondo il Governo, contrasterebbe con l’art. 6, comma 1, lettera d), del TUE.
2.2.1.‒ In via preliminare, va respinta l’eccezione di inammissibilità della questione prospettata dalla Regione per asserito difetto di motivazione sulle ragioni del contrasto tra la norma regionale e quella statale.
I requisiti di chiarezza e completezza delle ragioni a sostegno della richiesta declaratoria di incostituzionalità nei giudizi proposti in via principale risultano soddisfatti nel caso in esame, nella misura richiesta dalla giurisprudenza costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 251, n. 233, n. 218, n. 142, n. 82 e n. 32 del 2015). Nel ricorso infatti si possono individuare gli elementi sufficienti per ritenere ammissibile la censura, ossia i termini della questione proposta, la disposizione impugnata, i parametri evocati (ex plurimis, sentenze n. 40 del 2007, n. 139 del 2006, n. 450 e n. 360 del 2005, n. 213 del 2003, n. 384 del 1999) ed esso contiene inoltre una sia pure sintetica argomentazione di merito a sostegno della richiesta dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata (ex plurimis, sentenze n. 3 del 2013 e n. 312 del 2010 e ordinanza n. 123 del 2012).
2.2.2.‒ Nel merito, la questione è fondata.
L’art. 6, comma 1, lettera d), del TUE, prevede che nessun titolo abilitativo è richiesto per i movimenti di terra, ma soltanto se essi sono strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e alle pratiche agro-silvo pastorali. L’esenzione è giustificata dal fatto che si tratta di modificazioni della forma del territorio, non accompagnate dalla realizzazione di opere edilizie, inerenti all’usuale pratica agricola, che verrebbe altrimenti disincentivata con effetti pregiudizievoli anche per la buona manutenzione del territorio.
Le attività di sbancamento del terreno finalizzate a usi diversi da quelli agricoli, se destinate a incidere sul tessuto urbanistico del territorio, sono invece assoggettate a titolo abilitativo edilizio. Al fine di stabilire se i movimenti di terreno costituiscano o meno una trasformazione urbanistica del territorio, occorre valutare l’entità dell’opera che si intende realizzare, potendo gli stessi costituire, sia spostamenti insignificanti sotto il profilo dell’insediamento abitativo, per i quali non è necessario alcun titolo abilitativo, sia rilevanti trasformazioni del territorio, in quanto tali subordinate al preventivo rilascio del permesso di costruire (Corte di cassazione, terza sezione penale, 24 novembre 2011, n. 48479; Corte di cassazione, terza sezione penale, 5 marzo 2008, n. 14243).
I movimenti di terra previsti dalla norma regionale, in quanto «strettamente necessari alla rimodellazione di strade di accesso e aree di pertinenza degli edifici esistenti, sia pubblici che privati, purché non comportino realizzazione di opere di contenimento e comunque con riporti o sterri complessivamente di altezza non superiore a metri 1,00», potenzialmente includono anche opere di sbancamento che, sebbene non preordinate a una successiva costruzione, sono idonee ad alterare la morfologia del territorio, determinando una trasformazione permanente del suolo non edificato. La scelta del legislatore regionale non è, dunque, coerente con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le corrispondenti ipotesi di sottrazione a permesso di costruire e SCIA.
2.3.‒ La lettera b) riguarda «le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, compresa l’eventuale necessaria rimodellazione del terreno anche per aree di sosta nei limiti indicati alla lettera a), che siano contenute entro l’indice di permeabilità ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate».
Il Governo lamenta che, in difformità dall’art. 6, comma, 2, lettera c), del TUE, la norma regionale, da un lato, non prevede l’obbligo di presentare la comunicazione di inizio lavori (CIL); dall’altro consentirebbe la realizzazione di intercapedini interamente interrate senza riprodurre il limite della loro non accessibilità.
2.3.1.‒ La questione è fondata.
Ai fini dell’accoglimento è dirimente il fatto che, mentre la norma statale subordina la medesima tipologia di interventi alla previa comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato al comune, la previsione regionale non impone analogo onere formale.
Come questa Corte ha recentemente statuito, «[l]e regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila. L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive ‒ al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi ‒ la natura di principio fondamentale della materia del “governo del territorio”, in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali» (sentenza n. 231 del 2016). Ne consegue che è precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni forma di controllo, sia pure indiretto mediante denuncia.
La rilevata antinomia non è superabile in via di interpretazione conforme. Il significato fatto palese dalla lettera dell’art. 4, comma 1, è chiaro nel senso che gli interventi in essa individuati sono eseguibili senza necessità di comunicazione preventiva. Solo gli interventi indicati nel successivo art. 5 sono effettuati previa CIL. È vero che l’art. l, comma 3, della legge regionale impugnata rinvia alla normativa statale vigente «per quanto da essa non espressamente previsto», ma tale ultima precisazione non consente di rimodulare in via interpretativa l’impianto sistematico in cui si colloca la previsione censurata, connotato da una rigida classificazione delle categorie di opere edilizie e del loro regime giuridico.
Anche il profilo di censura relativo alla inclusione nel regime della edilizia libera delle «intercapedini interamente interrate», senza che sia riprodotto il limite della loro “non accessibilità”, appare fondato. L’accessibilità dell’intercapedine, infatti, ne altera la funzione da volume tecnico a vero e proprio “vano” potenzialmente utilizzabile a diversi fini. Anche in questo caso, dunque, la Regione ha individuato e liberalizzato un intervento edilizio “nuovo” e non semplicemente “ulteriore” rispetto alle previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
2.4.‒ La lettera c), riguardante «la realizzazione di rampe e pedane per l’abbattimento e superamento delle barriere architettoniche per dislivelli inferiori a metri 1,00», viene impugnata dal Governo per contrasto con l’articolo 6, comma l, lettera b), del TUE.
2.4.1.‒ Anche questa censura è fondata.
Gli interventi di rimozione delle barriere architettoniche che «comportino la realizzazione di rampe o ascensori esterni» sono espressamente esclusi dall’articolo 6, comma l, lettera b), del TUE dal regime dell’attività edilizia libera. Le opere necessarie alla loro realizzazione, compresi i manufatti che alterino la sagoma, rientrano invece nell’ambito applicativo dell’art. 22 del TUE e sono quindi soggette a SCIA (Consiglio di Stato, sezione sesta, 24 novembre 2010, n. 7129). Con tali previsioni, da considerare come principi fondamentali della materia, la norma regionale si pone quindi in contrasto.
2.5.‒ La lettera d) – nella parte in cui non prevede l’obbligo di presentare la CIL per gli interventi consistenti nella realizzazione di «aree ludiche senza fini di lucro» e di «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici senza creazione di volumetria e con esclusione delle piscine» – violerebbe, secondo il Governo, l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, che subordina tale tipologia di intervento a previa comunicazione.
2.5.1.‒ L’eccezione di inammissibilità per difetto di motivazione sollevata dalla regione non è fondata. I termini della questione sollevata dallo Stato sono chiaramente identificabili nel ricorso che offre anche un’argomentazione di merito, sia pure sintetica, a sostegno della richiesta declaratoria di incostituzionalità.
2.5.2.‒ Nel merito la questione è fondata.
Mentre la norma statale subordina la stessa tipologia di interventi alla previa comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato, la previsione regionale non impone analogo onere formale. Il contrasto con la disciplina statale non è escluso dalla precisazione, contenuta nella norma regionale, che la realizzazione delle aree ludiche e delle opere di arredo non deve comportare «creazione di volumetria» e che da esse va esclusa la realizzazione «delle piscine». Anche l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, deve essere interpretato nel senso di escludere dal suo ambito applicativo, sia gli interventi volti alla creazione di nuove volumetrie (ad esempio: spogliatoi e docce), sia la costruzione di piscine, in quanto opere comportanti l’effettuazione di scavi e, come tali, del tutto estranee alla nozione di edilizia libera; ma questo non rileva quanto alla circostanza che la norma regionale non subordina a CIL gli interventi in essa previsti, mentre tale subordinazione non può essere omessa, alla stregua di quanto previsto, come principio, dalla legge statale.
L’interpretazione costituzionalmente orientata della previsione della lettera d) non appare percorribile per gli stessi motivi indicati sopra al paragrafo 2.3.1., con riferimento alla impossibilità di rimodulare in via interpretativa l’impianto sistematico in cui si colloca la previsione censurata, connotato da una rigida classificazione delle categorie di opere edilizie e del loro regime giuridico.
2.6.‒ La lettera h) – che, nel suo combinato disposto con l’art. 5, commi l e 2, esclude dall’obbligo di presentare la comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato (cila) «le opere interne a singole unità immobiliari, ivi compresi l’eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscono elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici» – si pone, secondo il Governo, in contrasto con l’art. 6, comma 2, lettera a), e comma 4, del TUE, che subordina gli interventi di manutenzione straordinaria a tale adempimento.
2.6.1.‒ In via preliminare, la Regione eccepisce che la questione sarebbe inammissibile poiché ciò che la difesa erariale realmente contesta sarebbe la previsione contenuta nell’art. 5, comma l, che esclude l’ipotesi in esame dall’assoggettamento alla cila e che non sarebbe stata oggetto di impugnazione, come risulterebbe sia dal ricorso che dalla delibera di autorizzazione del Consiglio dei ministri.
L’eccezione non è fondata perché la disciplina pertinente alla censura è esattamente quella risultante dall’art. 4, comma 1, lettera h), in combinato disposto con l’art. 5, commi 1 e 2, e perché a tali previsioni fanno concordemente riferimento sia il ricorso, sia la deliberazione della Presidenza del Consiglio dei ministri.
2.6.2.‒ Nel merito, la questione è fondata.
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera a), del TUE, sono soggetti a CILA «gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio». La manutenzione straordinaria è dunque sottoposta a CILA quando interessi la rinnovazione o sostituzione di parti interne delle singole unità immobiliari e quelle esterne non strutturali. Le corrispondenti categorie di opere prese in considerazione dalla impugnata lettera h) non sono invece assoggettate a comunicazione asseverata (CILA), e neppure a comunicazione semplice (CIL).
Il contrasto con la norma statale non è escluso ‒ come sostiene la Regione ‒ dal fatto che si tratta di interventi di minimo impatto, giacché nella disciplina statale i sopra indicati interventi di manutenzione straordinaria sono sempre soggetti a previa comunicazione, anche quando «non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o non implichino incremento degli standard urbanistici».
2.7.‒ La lettera l) dell’art. 4, comma 1, della legge impugnata riconduce all’attività edilizia libera le «opere da realizzare nell’ambito di stabilimenti industriali, intese ad assicurare la funzionalità dell’impianto e il suo adeguamento tecnologico, purché non modifichino le caratteristiche complessive in rapporto alle dimensioni dello stabilimento, siano interne al suo perimetro o area di pertinenza e non incidano sulle sue strutture». La disposizione regionale precisa che «[t]ali opere riguardano: 1) le costruzioni che non prevedono e non sono idonee alla presenza di manodopera, realizzate con lo scopo di proteggere determinati apparecchi o sistemi, quali cabine per trasformatori o per interruttori elettrici, cabine per valvole di intercettazione fluidi, site sopra o sotto il livello di campagna, cabine per stazioni di trasmissione dati e comandi o per gruppi di riduzione purché al servizio dell’impianto; 2) i sistemi per la canalizzazione dei fluidi mediante tubazioni, fognature e simili, realizzati all’interno dello stabilimento stesso; 3) i serbatoi fino a metri cubi tredici per lo stoccaggio e la movimentazione dei prodotti e le relative opere; 4) le opere a carattere precario o facilmente amovibili, quali garitte, chioschi per l’operatore di pese a bilico, per posti telefonici distaccati, per quadri di comando di apparecchiature non presidiate; 5) le installazioni di pali porta tubi in metallo e conglomerato armato, semplici e composti; 6) le passerelle con sostegni in metallo o conglomerato armato per l’attraversamento delle strade interne con tubazioni di processo e servizi; 7) le trincee a cielo aperto, destinate a raccogliere tubazioni di processo e servizi, nonché le canalizzazioni fognanti aperte e le relative vasche di trattamento e decantazione; 8) i basamenti, le incastellature di sostegno e le apparecchiature all’aperto per la modifica e il miglioramento di impianti esistenti; 9) la separazione di aree interne allo stabilimento realizzata mediante muretti e rete ovvero in muratura; 10) le attrezzature semifisse per il carico e lo scarico da autobotti e ferro cisterne, come bracci di scarichi e pensiline, ovvero da navi, come bracci di sostegno delle manichette; 11) le attrezzature per la movimentazione di materie prime e prodotti alla rinfusa e in confezione, quali nastri trasportatori ed elevatori a tazze; 12) le coperture estensibili poste in corrispondenza delle entrate degli stabilimenti a protezione del carico e dello scarico delle merci; 13) le canne fumarie e altri sistemi di adduzione e di abbattimento».
Quanto previsto alla lettera h), lamenta il ricorrente, violerebbe i principi fondamentali della materia del «governo del territorio», in quanto ricondurrebbe all’attività edilizia libera una serie di fattispecie che la normativa statale subordina a permesso di costruire, a SCIA, ovvero a CIL.
2.7.1.‒ L’eccezione di inammissibilità proposta dalla Regione per genericità e difetto di motivazione è fondata.
La censura ha ad oggetto innanzitutto indistintamente l’intero contenuto normativo della lettera l), nonostante la disposizione sia composta da una pluralità di proposizioni normative alquanto articolate e diverse. Il ricorso, inoltre, non specifica in relazione a quali parti delle plurime norme statali evocate a parametro interposto si determinerebbe il lamentato contrasto. L’indiscriminata impugnazione di previsioni dal contenuto assai eterogeneo determina una inevitabile genericità e oscurità delle censure. Per le stesse ragioni, le argomentazioni svolte dalla ricorrente a sostegno dell’impugnazione «non raggiungono quella soglia minima di chiarezza e completezza cui è subordinata l’ammissibilità delle impugnative in via principale (cfr. ex plurimis, sentenza n. 312 del 2013» (sentenza n. 88 del 2014).
2.8.‒ La lettera m) – riferita alle «opere necessarie a consentire lavorazioni eseguite all’interno di locali chiusi, anche comportanti modifiche nell’utilizzo dei locali adibiti a esercizio d’impresa» – contrasta secondo il Governo con l’art. 6, comma 2, lettera e-bis, del TUE, che espressamente assoggetta a CILA le «modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa». La previsione statale evocata dal Governo a parametro interposto è stata introdotta dall’art. 13-bis, comma 1, lettera a), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, e successivamente modificata dall’art. 17, comma 1, lettera c), numero 1), lettera b), del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, e ha la finalità di semplificare le trasformazioni edilizie preordinate allo svolgimento di attività d’impresa.
2.8.1.‒ La questione è fondata sotto un duplice profilo.
In primo luogo, la norma regionale, a differenza di quella statale, non prescrive alcuna comunicazione preventiva, neppure semplice, per la realizzazione dei lavori individuati, mentre alla regione non è consentito di discostarsi dalle scelte legislative statali attinenti al regime dei titoli edilizi, alla luce di quanto esposto sopra circa la loro natura di principi fondamentali della materia.
In secondo luogo, il legislatore statale limita espressamente la possibilità di realizzare mediante CILA interventi sui fabbricati adibiti a esercizio di impresa ai soli casi in cui non interessino le parti strutturali ovvero modifichino la destinazione d’uso dei locali adibiti a esercizio d’impresa. Nessuna delle due limitazioni ricorre nella disposizione impugnata.
L’interpretazione riduttiva costituzionalmente orientata prospettata dalla resistente non appare percorribile per gli stessi motivi sopra indicati al paragrafo 2.3.1., con riferimento alla impossibilità di rimodulare in via interpretativa l’impianto sistematico in cui la previsione censurata si colloca, connotato da una rigida classificazione delle categorie di opere edilizie e del loro regime giuridico.
3.‒ L’art. 6, commi l, lettere c) e g), e comma 2, consente di realizzare mediante SCIA (invece che tramite permesso di costruire o DIA alternativa al permesso di costruire), gli interventi di «ristrutturazione edilizia», di «demolizione parziale e integrale di manufatti edilizi», nonché quelli di cui «all’articolo 22, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001».
Secondo il Governo tali previsioni contrastano con l’art. 10, comma l, lettera c), e con l’art. 22, comma 3, lettera a), del TUE, che devono ritenersi principi fondamentali in materia di governo del territorio, afferenti al regime dei titoli abilitativi, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Ai sensi dell’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portano a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportano modifiche del volume o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportano mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia). In via residuale, sono soggetti invece a SCIA i restanti interventi di ristrutturazione cosiddetta “leggera” (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente).
L’art. 22, comma 3, del TUE, si occupa di tre diverse tipologie di interventi edificatori: la ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE; gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi comunque denominati; gli interventi di nuova costruzione direttamente esecutivi di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche. Per la loro realizzazione si consente all’interessato, per ragioni di carattere acceleratorio, di optare, in alternativa al permesso di costruire, per la presentazione della DIA (cosiddetta “super DIA”). La facoltà di scelta esaurisce i propri effetti sul piano prettamente procedimentale, mentre su quelle sostanziale (dei presupposti), penale e contributivo, resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per gli interventi soggetti a permesso di costruire.
3.1.‒ Ciò premesso, le censure rivolte all’art. 6, comma l, lettere c) e g), della legge reg. Marche n. 17 del 2015, non sono fondate, perché le previsioni contestate non contraddicono il regime edilizio dettato dal TUE. L’art. 6, comma 1, si apre infatti con la precisazione che sono soggetti alla SCIA gli interventi non riconducibili al permesso di costruire. Esso va quindi pianamente interpretato nel senso che si riferisce soltanto agli interventi di ristrutturazione edilizia cosiddetta “leggera”, che, ai sensi dell’art. 10, comma l, del TUE, non sono subordinati al rilascio del permesso di costruire.
3.2.‒ Per motivi speculari, il comma 2 dell’art. 6 è invece costituzionalmente illegittimo, in quanto assoggetta a SCIA gli interventi di ristrutturazione cosiddetta “pesante”, gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi, gli interventi di nuova costruzione direttamente esecutivi di strumenti urbanistici generali. Per tali categorie di opere, come visto sopra, l’art. 22, comma 3, del TUE, prescrive invece il permesso di costruire o, alternativamente, la “super DIA”.
4.‒ Il Governo impugna poi l’art. 8, comma 3, della legge reg. Marche n. 17 del 2015, secondo cui: «Non costituiscono inoltre variazioni essenziali rispetto al titolo abilitativo il mancato completamento degli interventi o la realizzazione di minori superfici o volumetrie o altezze o parziali riduzioni dell’area di sedime, di maggiori distacchi, purché gli interventi non comportino difformità dalle prescrizioni del titolo abilitativo medesimo o da norme o piani urbanistici».
Secondo il Governo la previsione contrasta con la disposizione di principio contenuta all’art. 34, comma 2-ter, del TUE, secondo cui: «Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità dal titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali».
4.1.‒ In accoglimento dell’eccezione formulata dalla Regione Marche, la questione deve essere dichiarata inammissibile.
Il Governo formula la questione in termini meramente assertivi, generici e formali, ponendo a confronto il testo della norma regionale con quella statale avente ad oggetto la disciplina delle difformità parziali, senza motivare specifici profili di contraddizione tra le due disposizioni e senza tenere conto del fatto che si tratta di disposizioni aventi un oggetto diverso: la norma regionale infatti esemplifica le variazioni essenziali al progetto assentito (in attuazione peraltro dell’art. 32, comma l, del TUE), mentre la norma statale evocata a parametro interposto disciplina le sanzioni per gli «interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire». La carenza assoluta di argomenti a sostegno dell’impugnativa e l’impossibilità di ricostruirne altrimenti il senso ne preclude irrimediabilmente lo scrutinio nel merito (ex plurimis, sentenze n. 8 del 2014, n. 272, n. 22 e n. 8 del 2013).
5.‒ Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 9, commi 1, 2 e 6, della legge reg. Marche n. 17 del 2015, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. In particolare, la disposizione regionale ‒ nella parte in cui prevede che il Comune «può autorizzare a titolo temporaneo interventi edilizi» riguardanti opere pubbliche o di pubblico interesse e attività produttive, «ancorché difformi dalle previsioni degli strumenti urbanistici comunali adottati o approvati, destinati al soddisfacimento di documentate esigenze di carattere improrogabile e transitorio non altrimenti realizzabili» ‒ si porrebbe in contrasto innanzitutto con l’art. 7, comma 1, lettera b), del TUE, che esenta le opere pubbliche da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale e opere pubbliche di interesse statale dal rispetto delle norme del titolo del TUE, a condizione che sia accertata la «conformità con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 383, e successive modificazioni». Per altro verso, la disposizione regionale contrasterebbe anche con l’art. 14, comma l, del TUE, che non consente il rilascio di permesso di costruire in deroga per le attività produttive. Aggiunge ancora il ricorrente che, attraverso il permesso di costruire “temporaneo”, la norma censurata avrebbe inoltre introdotto un nuovo titolo abilitativo, non previsto dalla legislazione statale, invadendo così la competenza legislativa statale in materia di «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
Va premesso che, sebbene nelle conclusioni del ricorso siano richiamati soltanto i commi 1, 2 e 6, il tenore delle censure investe l’intero contenuto dell’art. 9, il quale delinea la disciplina unitaria di un medesimo istituto.
5.1.‒ La questione è fondata.
La disposizione impugnata contraddice, in primo luogo, le norme statali che disciplinano il regime edilizio delle opere pubbliche e di interesse pubblico (art. 7 del TUE). Per le «opere pubbliche, da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale» e per le «opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti, ovvero da concessionari di servizi pubblici», oltre a non essere dovuto il contributo di costruzione (art. 17, comma 3, del TUE), non è necessario acquisire il permesso di costruire, né presentare la denunzia di inizio attività (art. 7, comma l, lettera b, del TUE), essendo prescritto, in luogo di essi, l’accertamento della conformità urbanistica ed edilizia delle opere, tramite lo specifico procedimento disciplinato dal d.P.R. 18 aprile 1994, n. 383 (Regolamento recante disciplina dei procedimenti di localizzazione delle opere di interesse statale).
Mentre dunque la norma statale non prescrive un titolo abilitativo per le opere pubbliche o di interesse pubblico, ma le sottopone alla osservanza delle prescrizioni edilizie e urbanistiche tramite un apposito procedimento di controllo, la norma regionale ha coniato, per le medesime opere, un atto di assenso “precario” non riconducibile ad alcuno dei “tipi” disciplinati dal testo unico dell’edilizia. La violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento all’art. 7 del TUE non è, sotto questo primo profilo, contestabile.
5.2.‒ L’art. 9 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 contraddice anche l’art. 14 del TUE che consente, a talune condizioni, il rilascio del permesso di costruire in deroga alla disciplina urbanistica ed edilizia.
Il permesso di costruire in deroga, ai sensi del comma 1 dell’art. 14 del TUE, può essere rilasciato solo per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del Consiglio comunale, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza. Il permesso in deroga può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza fra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi e può essere disposto solo se sussiste uno specifico interesse pubblico prevalente rispetto agli interessi che hanno trovato considerazione e riconoscimento negli atti di pianificazione territoriale (sul punto, Consiglio di Stato, sezione quinta, 20 dicembre 2013, n. 6136).
La possibilità di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali, che l’art. 14, comma 1, del TUE riserva agli edifici e agli impianti pubblici e di interesse pubblico, è stata recentemente integrata da una nuova previsione (comma 1-bis), introdotta dall’art. 17, comma 1, lettera e), del decreto-legge n. 133 del 2014. In particolare, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è prevista la possibilità di costruire «anche in deroga alle destinazioni d’uso». La previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico è peraltro subordinata alla condizione che il mutamento di destinazione d’uso non comporti un aumento della superficie coperta esistente prima del programmato intervento di ristrutturazione.
Alla luce di quanto esposto, è evidente che l’autorizzazione temporanea introdotta dalla disposizione regionale censurata contrasta sotto più profili con la disciplina statale del permesso di costruire in deroga.
Le difformità concernono: il procedimento, poiché la disciplina statale richiede una previa deliberazione del Consiglio comunale, mentre l’art. 9 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 stabilisce soltanto che l’autorizzazione temporanea «è rilasciata secondo le modalità previste nel regolamento edilizio comunale» (comma 3); i presupposti, in quanto la disciplina statale non prevede, come invece la norma regionale, alcuna possibilità di deroga per gli interventi edilizi riguardanti generiche «attività produttive», a meno che non si tratti di ristrutturazione edilizia (di cui all’art. 14, comma 1-bis, del TUE); le finalità, in quanto l’istituto statale è volto a soddisfare esigenze costruttive stabili e non «esigenze di carattere improrogabile e transitorio non altrimenti realizzabili» (comma 1 dell’art. 9 della legge regionale); gli effetti, in quanto il permesso disciplinato dall’art. 14 del TUE consente di derogare (in via definitiva) ai soli limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza fra i fabbricati, mentre la norma regionale sembra autorizzare qualsivoglia difformità rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali adottati o approvati.
Ne consegue che, anche sotto questo profilo, il legislatore regionale ha introdotto una deroga non consentita al regime statale dei titoli abilitativi, il quale come più volte ricordato costituisce principio fondamentale della materia concorrente «governo del territorio».
5.3.‒ Al di là dei profili sopra esaminati, va rimarcato, quale ulteriore motivo di accoglimento della questione, che è in ogni caso precluso al legislatore regionale di introdurre atti di assenso all’esecuzione di opere edilizie del tutto “atipici” rispetto a quelli disciplinati dal testo unico dell’edilizia. Il regime dei titoli abilitativi ‒ quanto a presupposti, procedimento ed effetti ‒ costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio» rimesso alla potestà legislativa dello Stato.
6.‒ Secondo il Governo l’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 contrasta con l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentali delle materie «protezione civile» e «governo del territorio» desunti dagli artt. 84 e 88 del TUE. Quest’ultimo articolo, in particolare, riconoscerebbe soltanto al Ministro per le infrastrutture e i trasporti la possibilità di concedere deroghe all’osservanza delle norme tecniche di costruzione nelle zone considerate sismiche.
6.1.‒ In via preliminare, va respinta l’eccezione di inammissibilità prospettata dalla Regione resistente, sul presupposto che il ricorso non chiarirebbe i termini del contrasto tra la norma censurata e i principi fondamentali della materia, individuata indifferentemente nel «governo del territorio» e nella «protezione civile».
Il ricorso, sebbene molto conciso, rende «ben identificabili i termini delle questioni proposte, individuando le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale (sentenza n. 241 del 2012)» (sentenza n. 176 del 2015). In particolare, da esso si comprendono agevolmente i termini del contrasto sollevato: il Governo ha evidentemente inteso censurare le difformità, in termini di parametri costruttivi, tra il contenuto della norma regionale e la disciplina statale recante i principi fondamentali della materia nel settore delle costruzioni in zone sismiche.
6.2.‒ Nel merito, la questione è fondata.
La giurisprudenza costituzionale ha costantemente ricondotto disposizioni di leggi regionali che incidono sulla disciplina degli interventi edilizi in zone sismiche all’ambito materiale del «governo del territorio» e a quello relativo alla «protezione civile» per i profili concernenti «la tutela dell’incolumità pubblica» (sentenza n. 254 del 2010). In entrambe le materie, di potestà legislativa concorrente, spetta allo Stato fissare i principi fondamentali (tra le tante, sentenze n. 300 e n. 101 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010, n. 248 del 2009, n. 182 del 2006). La stessa giurisprudenza assegna inoltre valenza di «principio fondamentale» alle disposizioni contenute nel Capo IV della Parte II del d.P.R. n. 380 del 2001, intitolato «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche», che prevedono adempimenti procedurali, quando questi ultimi rispondano a esigenze unitarie, particolarmente pregnanti di fronte al rischio sismico.
La disciplina statale che rimette a decreti del Ministro l’approvazione delle norme tecniche per le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, da realizzarsi in zone dichiarate sismiche (artt. 83 e 84 del TUE), costituisce chiara espressione di un principio fondamentale, come tale vincolante anche per le Regioni. Il legislatore statale ha inteso dettare una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, con l’obiettivo di garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, un regime unico, valido per tutto il territorio nazionale, in un settore nel quale entrano in gioco valutazioni altamente tecniche.
Per le stesse ragioni, anche l’art. 88 del TUE ‒ il quale riconosce soltanto al Ministro per le infrastrutture e i trasporti la possibilità di concedere deroghe all’osservanza delle norme tecniche di costruzione nelle zone considerate sismiche ‒ esprime, secondo la giurisprudenza della Corte, un principio fondamentale della materia (sentenza n. 254 del 2010).
La difesa regionale non coglie poi nel segno affermando che gli artt. 84 e 88 del TUE si occuperebbero dei parametri costruttivi relativi alla costruzione di edifici in zone sismiche con esclusivo riferimento agli edifici di nuova costruzione, mentre la norma regionale riguarderebbe interventi edilizi su edifici preesistenti.
L’intera normativa riguardante le opere da realizzarsi in zone dichiarate sismiche ha come punto di riferimento del proprio ambito applicativo, non il concetto di nuova costruzione, bensì quello di «tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità» (art. 83 del TUE). Il legislatore applica cioè una nozione trasversale, indifferente e autonoma rispetto a quella utilizzata ai fini di altre classificazioni operanti nella disciplina edilizia, e tale da essere tendenzialmente omnicomprensiva di tutte le vicende in cui venga in questione la realizzazione di una opera edilizia rilevante per la pubblica incolumità (Consiglio di Stato, sezione quarta, 12 giugno 2009, n. 3706). Pertanto, la circostanza che l’opera da realizzare consista in interventi sul patrimonio edilizio esistente non mette in dubbio il fatto che possa trattarsi comunque di una costruzione da realizzarsi in zona sismica, e quindi ricompresa nell’ambito di applicazione degli artt. 84 e 88 del TUE.
Ciò premesso, l’art. 84 TUE non consente che l’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 introduca deroghe per l’inserimento di (peraltro non meglio precisati) «elementi strutturali finalizzati, nell’ambito di un progetto complessivo, a ridurre la vulnerabilità sismica dell’intero edificio». Tanto meno consente che venga introdotto un complesso rilevante di deroghe come quello previsto nella legge regionale impugnata, consistenti in: incrementi di altezza; riduzioni delle distanze dal confine di proprietà; mancato computo ai fini del calcolo della volumetria delle superfici, delle altezze e delle distanze; possibilità di rilasciare il titolo abilitativo in difformità rispetto a quanto stabilito negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi comunali (sia pure fatte salve eventuali limitazioni imposte da specifici vincoli storici, ambientali, paesaggistici, igienico-sanitari e di sicurezza); inapplicabilità delle disposizioni in materia di densità edilizia e di altezza per le edificazioni nelle zone di tipo E di cui agli articoli 7 e 8 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765).
7.‒ L’articolo 13 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 in tema di recupero dei sottotetti degli edifici esistenti al 30 giugno 2014, nella parte in cui non prevede il rispetto delle distanze minime di cui al d.m. n. 1444 del 1968, violerebbe secondo il ricorrente la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in riferimento all’articolo 2-bis del TUE.
La medesima norma regionale inoltre, «ove prevede di consentire l’agibilità», contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di «governo del territorio», in relazione agli artt. 24 e 25 del TUE che disciplinano il certificato di agibilità.
7.1.‒ L’eccezione di inammissibilità per genericità delle censure è infondata, in quanto le questioni sono adeguatamente motivate con l’indicazione degli elementi idonei a far comprendere il senso della lamentata violazione dei parametri invocati.
7.2.‒ Nel merito, il contrasto tra la norma regionale e l’art. 2-bis del TUE, non sussiste.
La norma regionale si limita a stabilire che «sono consentiti, anche in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, il recupero a fini abitativi e l’agibilità, senza modifica della sagoma dell’edificio, dei sottotetti esistenti alla data del 30 giugno 2014, legittimamente realizzati o condonati», purché siano rispettati una serie di limiti di altezza e di rapporto “illuminotecnico”.
Non solo dunque la norma non autorizza alcuna deroga alle distanze minime tra fabbricati e agli standard urbanistici, ma si deve ritenere che faccia salvo il rispetto di questi parametri, come è confermato anche dall’art. 1, comma 3, della medesima legge reg. Marche n. 17 del 2015, in cui l’art. 13 impugnato si inserisce, secondo il quale: «[p]er quanto non previsto, si applica la normativa statale vigente».
7.3.‒ Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 24 e 25 del TUE non è fondata.
Avuto riguardo al suo tenore letterale, va escluso che la norma impugnata elimini l’obbligo di sottoporre a controllo, attraverso la prescrizione del certificato di agibilità, gli interventi di recupero dei sottotetti che possono comportare un sensibile rischio di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie dell’edificio o degli impianti in questione. Essa va quindi logicamente interpretata nel senso che, dal punto di vista edilizio, il recupero dei sottotetti ‒ ove ne ricorrano i requisiti di igiene e salubrità ‒ consente di ottenere il certificato di agibilità, ferma restando ovviamente la necessità di conseguirne in concreto il rilascio.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettere a), b), c), d), h) e m), della legge della Regione Marche 20 aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della normativa regionale in materia di edilizia);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge della Regione Marche n. 17 del 2015;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 della legge della Regione Marche n. 17 del 2015;
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge della Regione Marche n. 17 del 2015;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera l), della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma l, lettere c) e g), della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma l, lettere a) e b), della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il giorno 8 novembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 dicembre 2016.
Il Cancelliere
F.to: Carmelinda MORANO