Cass. Sez. III n. 7861 del 26 febbraio 2016 (Ud 12 gen 2016)
Pres. Amoresano Est. Di Nicola Ric. Vassalini
Caccia e animali.Differenza tra caccia in senso stretto e uccellagione

Unica concettualizzazione che appare coerente con il  sistema normativo della legge 157 del 1992 è quella che, nell'ambito della generale nozione di cattura della selvaggina, distingue tra la caccia in senso stretto e la uccellagione in rapporto al mezzo usato per la cattura: che è l'arma da sparo per la caccia, e qualsiasi altro mezzo idoneo allo scopo per l'uccellagione. Ne deriva che l'uccellagione vietata dall'art. 3 e punita dalla lettera e) dell'art. 30 legge 157 del 1992 comprende qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi da armi da sparo (reti, panie ecc.).

RITENUTO IN FATTO
 
1. Paride Vassallini ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte d'appello di Trento ha riformato quella emessa dal locale tribunale, sezione distaccata di Cles, riducendo a mesi uno e giorni dieci di arresto la pena inflitta al ricorrente, ritenuta l'ipotesi tentata, con riferimento al reato previsto dagli articoli 3 e 30, comma 1, lettera e), legge 11 febbraio 1992, n. 157 perché esercitava l'uccellagione con il prelievo di nidiacei che avrebbe depositato all'interno di contenitori di compensato preventivamente predisposti nella propria autovettura ove inoltre veniva rinvenuto materiale per l'illegale inanellamento degli uccelli prelevati dai nidi. Fatti commessi in Revò il 25 maggio 2011.
 
2. Per la cassazione dell'impugnata sentenza, il ricorrente, tramite il difensore, solleva i tre seguenti motivi di impugnazione, qui enunciati ai sensi dell'articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
 
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, la contraddittorietà e la ~ manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo specificamente indicati (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
Assume che la Corte d'appello non ha rispettato i principi di completezza, di correttezza e logicità della motivazione e che le conclusioni cui è pervenuta sarebbero il precipitato di criteri di inferenza fondati su sillogismi censurabili secondo la logica comune. Il fatto che il ricorrente fosse fuoriuscito da un frutteto con la maglia macchiata da una deiezione avicola o dalle foglie non può certo essere ritenuto univocamente riconducibile al tipo di "attività" che il medesimo avrebbe svolto all'interno del frutteto, risolvendosi tale affermazione in un postulato apodittico nel quale la premessa maggiore dell'inferenza logico- giuridica sarebbe meramente congetturale in quanto non fondata su massime di esperienza generalizzate, posto che non è affatto vero o probabile come massima di esperienza quella che vorrebbe che chi entra in un meleto e ne fuoriesce sporco di foglie e "fatta" avicole sia dedito all'uccellagione, tanto più se addosso non abbia nulla che lo ricolleghi a tale pratica venatoria.
 
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale in relazione all'articolo 56 del codice penale).
 
Sostiene che la Corte d'appello sarebbe incorsa in un evidente errore di diritto avendo ritenuto, al cospetto di un reato contravvenzionale, l'ipotesi del tentativo, non configurabile nelle contravvenzioni, con la conseguenza che il giudice distrettuale, preso atto delle emergenze istruttorie e condividendo di fatto la tesi difensiva sull'anticipazione della soglia di punibilità operata dal primo giudice, anziché trarne le doverose conseguenze, ha cercato di superare l'impasse inquadrando la fattispecie nella forma affievolita poi ritenuta in sentenza, come se si trattasse di una ipotesi delittuosa. Ne discende che anche sotto tale profilo la pronuncia di merito deve essere, ad avviso del ricorrente, cassata senza rinvio perché il fatto non sussiste, per difetto manifesto di un elemento della fattispecie, ovvero perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
 
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla mancata applicazione della sola pena pecuniaria in luogo di quella detentiva (articolo 606, comma 1, lettera e), codice di procedura penale).
 
Si afferma che la motivazione - con la quale la Corte del merito ha respinto la richiesta difensiva di rimodulare il trattamento sanzionatorio con riferimento all'applicazione della sola pena pecuniaria, in luogo di quella detentiva - è del tutto apodittica giacché di fatto è stata subordinata solo alla confessione del reo, essendo l'altro elemento (ossia quello dell'apprezzabile organizzazione) una mera congettura.

CONSIDERATO IN DIRITTO
 
1. Il ricorso è infondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
 
2. Il primo ed il secondo motivo d'impugnazione, in quanto connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
 
Essi non sono fondati.
 
2.1. Con adeguata motivazione, priva di vizi logici, la Corte distrettuale ha accertato, in conformità del resto all'approdo fattuale cui era giunto il primo giudice, che il comandante del distretto forestale di Cles, nel transitare nella strada provinciale nei pressi di Revò, notò un autoveicolo uscire repentinamente da un frutteto ed immettersi sulla strada; seguendo il veicolo, l'ufficiale di polizia giudiziaria notò ~ che, a bordo, vi erano due persone che, dopo poco, avevano imboccato una strada laterale verso un altro frutteto, dove il comandante della forestale aveva inviato personale della stazione di Rumo.
 
I forestali trovarono sulla strada interpoderale, all'interno del frutteto, un'autovettura corrispondente a quella loro indicata, ferma e senza persone a bordo e, dopo un po' di tempo, essendosi appostati, videro sopraggiungere l'imputato, con la maglietta sporca di escrementi di uccelli, che si era chiuso nel veicolo. Quando ne era uscito, dopo un po' di tempo, aveva aperto il portabagagli al cui interno era stato rinvenuto materiale tipico dell'attività di uccellagione (un contenitore in legno diviso in cinque scomparti atto a contenere adeguatamente i nidi, mangime, strumenti necessari ad imboccare i piccoli uccelli, anelli regolamentari da apporre alle zampe dei nidiacei), materiale che fu sottoposto a sequestro. Alcuni giorni dopo, nel corso di una più accurata ispezione dei luoghi, i forestali rinvennero una borsa con all'interno nidi e cadaveri di volatili neonati. Nel corso dell'esame testimoniale, i forestali, oltre a confermare le predette circostanze, riferirono che l'imputato presentava la maglietta sporca di escrementi di uccelli, che si era introdotto nella sua autovettura, che stava per allontanarsi, che la borsa con all'interno nidi e cadaveri di volatili neonati era stata rinvenuta all'esito di un successivo e più meticoloso sopralluogo in quanto la zona presentava un avvallamento sufficientemente grande da rendere difficoltoso il ritrovamento di qualsiasi cosa fosse stata ivi casualmente lasciata per la "vegetazione sviluppata".
 
Ciò posto, la Corte territoriale ha osservato come il comandante della forestale avesse notato inizialmente l'imputato insieme ad un altra persona, rimasta ignota, mentre era diretto inequivocabilmente all'interno del frutteto; che, alla luce del successivo comportamento dell'imputato e del ritrovamento dell'attrezzatura sequestrata all'interno della Jeep, l'ipotesi accusatoria trovava solido fondamento; che la presenza sui luoghi non poteva trovare spiegazione nella giustificazione addotta, ossia che l'imputato si trovasse in zona per seguire il giro d'Italia, posto che il percorso della tappa interessava altre strade e, in ogni caso, la sede stradale non era visibile all'interno del frutteto; che la pattuglia inviata sul posto colse l'imputato mentre proveniva chiaramente dalla zona coltivata a meleto con la maglietta sporca di escrementi di uccelli, bagnata e con pezzi di foglie, segni evidenti del tipo di "attività" che aveva svolto all'interno del frutteto stesso; che esisteva un fiorente mercato di nidi e di nidiacei di frodo, usati nella caccia in quanto il richiamo dei nidiacei, dei turdidi allo stato naturale era molto più efficace rispetto a quelli di allevamento, venendo di conseguenza venduti a prezzi elevati; che vi era dunque un preciso interesse alla cattura degli uccellini in relazione sia alla maggiore efficacia del loro richiamo nell'esercizio della caccia e sia allo stesso intrinseco valore economico dei singoli esemplari; che la presenza dell'attrezzatura rinvenuta sulla Jeep e sottoposta a sequestro costituiva un indubbio riscontro dell'ipotesi accusatoria: il ricorrente, allevatore iscritto al registro nazionale della federazione ornicoltori italiani, aveva dedotto di averla avuta con sé in quanto i piccoli dovevano essere continuamente nutriti ed ha introdotto due testi al riguardo i quali hanno confermato che spesso l'imputato ~va con sé i "neonati" che doveva nutrire a cadenze temporali ravvicinate. La Corte del merito ha ritenuto provata la circostanza dedotta ed ha quindi attribuito logica spiegazione della presenza della cassetta di legno a scomparti, delle siringhette, del contenitore per preparare le pappette, del mangime, ma non dell'attrezzatura per inanellare i nidiacei che l'imputato non aveva alcuna ragione lecita di portare con sé. Né si trattava di qualche anello dimenticato sulla vettura, ma di una nutrita quantità di anelli di varie specie nonché degli arnesi necessari all'applicazione, così da rendere sicuro il trasporto
e nascondere la provenienza, illecita, degli uccellini.
 
Se anche lo zainetto contenente i nidi e i cadaveri di uccellini non è stato attribuito, con la necessaria certezza, all'imputato, la Corte d'appello ha osservato che invece la predisposizione dei mezzi (l'attrezzatura ritrovata per il trasporto e l'inanellamento), l'introduzione nel frutteto, la ricerca dei piccoli volatili da apprendere con cui sicuramente l'imputato era entrato in contatto, come dimostrato dalle tracce sui suoi indumenti (le foglie e gli escrementi di uccelli), comprovano una condotta "in progress", un comportamento non portato a compimento con l'appropriazione della selvaggina a causa dell'intervento della forza pubblica. Da ciò la Corte distrettuale ha ritenuto l'imputato responsabile del reato contestato ancorché nella forma meno grave del reato di pericolo ~ consistente nell'atteggiamento venatorio sicuramente posto in essere anche attraverso i contatti con i volatili (tanto da recare sul proprio abbigliamento tracce fresche dei relativi escrementi).
 
2.2. Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d'appello ha fatto buon governo delle regole che disciplinano il procedimento probatorio perché ha ritenuto accertato, sulla base' di elementi certi e convergenti, il fatto da provare ossia che l'imputato avesse realizzato atti diretti alla illecita cattura di uccelli.
 
Alla ricostruzione probatoria del fatto operata in maniera pressoché convergente dai giudici del merito, il ricorrente muove un'obiezione strumentale perché limita la portata della costellazione indiziaria utilizzata per l'accertamento dei facta probanda, frantumandone gli elementi, isolandone uno solo di essi e quindi assumendo che l'essere fuoriusciti da un frutteto con la maglia macchiata da una deiezione avicola o dalle foglie non può essere ritenuto fatto univocamente riconducibile al tipo di "attività" incriminata.
 
Nondimeno, la Corte territoriale non ha utilizzato soltanto un tale (sia pur significativo) indizio, soprattutto se coniugato con la situazione monitorata dapprima dal comandante della forestale e successivamente dalle guardie che hanno espletato l'accertamento in loco, ma lo ha ritenuto convergente con l'altro indizio costituito dalla presenza dell'attrezzatura rinvenuta sulla Jeep e sottoposta a sequestro, sia pure limitatamente a quella necessaria per inanellare i nidiacei, attrezzatura che l'imputato non aveva alcuna ragione lecita di portare con sé, non trattandosi di qualche anello dimenticato nel veicolo, ma di una nutrita quantità di anelli di varie specie nonché degli arnesi necessari all'applicazione, così da rendere sicuro il trasporto e nascondere la provenienza, illecita, degli uccellini, ed il tutto in presenza di un valido movente a sostegno del comportamento censurato (esistenza di un fiorente mercato di nidi e di nidiacei di frodo, usati nella caccia in quanto il richiamo dei nidiacei, dei turdidi allo stato naturale era molto più efficace rispetto a quelli di allevamento, venendo di conseguenza venduti a prezzi elevati).
 
Peraltro, il sequestro dello zianetto contenente i nidi e i cadaveri di uccellini, se non anche attribuito all'imputato, conferma che il luogo era utilizzato per l'uccellagione ed allora non è manifestamente illogico il rilievo dei giudici del merito che hanno censurato l'atteggiamento venatorio dell'imputato in quanto sicuramente posto in essere anche attraverso i contatti con i volatili (tanto da recare sul proprio abbigliamento tracce fresche dei relativi escrementi).
 
2.3. Piuttosto si può convenire con il ricorrente circa l'errata qualificazione giuridica che, per certi aspetti, la Corte d'appello ha attribuito al fatto così come ricostruito nella sentenza impugnata.
 
In effetti, nel solo dispositivo, la Corte del merito ha fatto riferimento all'ipotesi tentata, che è del tutto non configurabile in relazione ad un reato, ~ come nella specie, contravvenzionale.
 
Tuttavia va anche precisato che nella motivazione la Corte d'appello non ha affatto ritenuto il tentativo della contravvenzione, essendosi limitata ad affermare che la condotta aveva realizzato il reato contestato e non avendo affatto operato una diminuzione della pena in relazione a quella prevista per il reato tentato.
 
Ad ogni modo, è pacifico che, all'errore di diritto, può porre riparo il giudice di legittimità in applicazione dalla disposizione dell'art. 619 cod. proc. pen., che trova la sua "ratio" nell'esigenza di scongiurare l'annullamento della decisione impugnata tutte le volte in cui la Corte di cassazione, rimanendo nell'ambito della sua funzione istituzionale e nel rispetto del fatto come ritenuto dal giudice di merito, possa ovviare a errori di diritto, insufficienze motivazionali o cadute di attenzione da parte del giudice "a quo", lasciando inalterato l'essenziale del contesto decisorio assunto con la sentenza esaminata (Sez. U. n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211072).
 
2.4. L'uccellagione è vietata dall'art. 3 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, unitamente alla cattura di uccelli e di mammiferi selvatici, nonché al prelievo di uova, nidi e piccoli nati.
 
Chi esercita una di tali attività è punito, a norma dell'art. 30, comma 1, lett.e), stessa legge, con la pena fino a un anno di arresto o, in alternativa, con l'ammenda.
 
La legge sulla caccia opera la distinzione tra uccellagione e le altre forme di caccia con riferimento esclusivamente al mezzo usato e non alla destinazione delle prede catturate. Costituisce perciò uccellagione qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi da armi da sparo (reti, panie, ecc.) avendo il legislatore inteso sanzionare in modo specifico un sistema di cattura che ha in genere una potenzialità offensiva più indeterminata e comporta maggior sofferenza biologica per i volatili (Sez. 3, n. 4918 del 10/04/1996, Giusti, Rv. 205462).
 
A tali conclusioni, che il Collegio condivide, il precedente arresto giurisprudenziale è pervenuto sulla base dell'analisi del sistema normativo desumibile dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 secondo il quale, nell'ambito di un generico concetto di caccia o attività venatoria, comprendente ogni atto diretto alla uccisione o alla cattura di selvaggina mediante l'impiego di armi, di animali o di arnesi a ciò destinati, la legge distingue un'attività venatoria o caccia in senso stretto, comprendente "ogni atto diretto all'abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l'impiego" di armi (art. 12, comma 2, legge n. 157 del 1992), e l'attività di uccellagione.
 
Perciò, la distinzione tra caccia in senso stretto e uccellagione non attiene soltanto all'oggetto (che nella prima è ogni tipo di fauna selvatica, ad eccezione di talpe, ratti, topi e arvicole di cui all'art. 2, comma 2, L. 157 del 1992 e nella seconda è solo ogni genere di uccelli), ma anche ai mezzi adoperati: nella caccia si adoperano le armi da sparo, nella uccellagione si adopera qualsiasi altro mezzo.
 
Nessun altro criterio di distinzione si ricava dall'art. 8 della direttiva 79-409 CEE del Consiglio del 2 aprile 1979, nonché dal corrispondente articolo 8 della Convenzione di Berna del 19 settembre 1979, di cui la legge 157 del 1992 è attuazione (art. 1, comma 4), secondo cui "per quanto riguarda la caccia, la cattura o l'uccisione di uccelli (. .. ) gli Stati membri vietano il ricorso a qualsiasi mezzo, impianto e metodo di cattura o di uccisione, in massa o non selettiva". È infatti evidente che, per la maggior offensività rispetto al bene protetto, sono vietate l'uccisione e la cattura di massa o non selettive; ma nulla induce a ritenere che il legislatore comunitario e quello nazionale abbiano inteso qualificare come uccellagione solo la cattura di massa o non selettiva. Il carattere massivo o non selettivo può essere sia della caccia in senso stretto sia della uccellagione, come è confermato anche dalla formulazione letterale della norma.
 
Neppure può ricavarsi un indiretto criterio di distinzione dalla formulazione del divieto di "usare ( .. .) vischio o altre sostanze adesive, trappole, reti" di cui alla lettera u) dell'art. 21 legge 157 del 1992, e dalla separata formulazione del divieto di "vendere a privati e detenere da parte di questi reti da uccellagione".
 
È infatti evidente che usare per la cattura qualsiasi rete (come qualsiasi pania ecc.) costituisce uccellagione vietata; mentre rendere o detenere reti è vietato solo se queste sono predisposte oggettivamente per l'uccellagione.
 
Infine non si ravvisano fondamenti testuali per sostenere che l'uccellagione si distingue dalla cattura perché la prima è seguita dalla soppressione del volatile e la seconda no, essendo finalizzata a scopi amatoriali o scientifici o simili, anche se una siffatta distinzione è stata sostenuta in passato da qualche corrente dottrinale.
 
In conclusione, l'unica concettualizzazione che appare coerente con il sistema normativo della legge 157 del 1992 è quella che, nell'ambito della generale nozione di cattura della selvaggina, distingue tra la caccia in senso stretto e la uccellagione in rapporto al mezzo usato per la cattura: che è l'arma da sparo per la caccia, e qualsiasi altro mezzo idoneo allo scopo per l'uccellagione.
 
Ne deriva che l'uccellagione vietata dall'art. 3 e punita dalla lettera e) dell'art. 30 legge 157 del 1992 comprende qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi da armi da sparo (reti, panie ecc.). Né questa interpretazione è smentita dalla circostanza che lo stesso legislatore ha previsto sanzioni differenziate per chi esercita l'uccellagione (lett. e) art. 30) e per chi abbatte, cattura o detiene esemplari protetti della fauna alpina (lett. g) art. 30) o per chi abbatte, cattura o detiene uccelli di specie non cacciabile (lett. h) art. 30). Evidentemente il legislatore ha inteso differenziare e aggravare la sanzione per l'uccellagione (arresto o ammenda, invece che sola ammenda) nella considerazione che questo sistema di cattura ha in genere una indeterminata potenzialità offensiva e comunque comporta maggior sofferenza biologica per i volatili.
 
Essendo pertanto il reato di uccellagione integrato da qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi da armi da sparo, ne consegue che la fattispecie incriminatrice è configurata come reato di pericolo a consumazione anticipata, cosicché gli atti idonei ad integrare il tentativo punibile sono già di per sé sufficienti per la consumazione del reato, con ciò restando fermo che il tentativo resta non configurabile tanto nelle contravvenzioni (riferendosi l'art. 56 cod. pen. solo ai delitti), tanto nei delitti colposi (mancando in essi l'intenzione di realizzare l'evento previsto dalla norma incriminatrice, senza la quale il tentativo non può esistere), tanto nei reati di attentato ed in quelli a consumazione anticipata (nei quali, consistendo la condotta tipica nel compiere atti diretti all'offesa del bene giuridico o nell'usare mezzi diretti al medesimo scopo, ciò che costituisce il "minimum" per l'esistenza del tentativo dà già luogo a consumazione del reato).
 
Si tratta di un approdo, a ben vedere, già presente nella giurisprudenza di legittimità quando è stato affermato che il reato previsto dall'art. 30, comma primo lett. e), della legge 11febbraio1992 n. 157 (esercizio di uccellagione) non richiede la effettiva cattura di animali, essendo sufficiente la semplice predisposizione delle reti o di analoghi mezzi idonei alla cattura della fauna selvatica per ritenere consumato il reato (Sez. 3, n. 19554 del 17/03/2004, Zanchi, Rv. 228886) e che la distinzione fra caccia con mezzi vietati ed uccellagione è costituita dall'uso e dalla particolare offensività degli strumenti utilizzati,    atteso che l'uccellagione è diretta alla cattura di un numero indiscriminato di esemplari, ivi compresi quelli dei quali la cattura è vietata in modo assoluto, mentre la caccia con mezzi vietati è diretta alla cattura di singoli e specifici esemplari (Sez. 3, n. 17272 del 21/03/2007, Del Pesce, Rv. 236497).
 
 
Con la norma incriminatrice in esame, il legislatore si propone quindi di punire i sistemi di cattura con potenzialità offensiva indeterminata, tali anche da comportare il pericolo di un depauperamento della fauna e ciò, indipendentemente dall'abbattimento o meno degli animali, con la conseguenza che il reato si perfeziona anche nel caso in cui la cattura non si sia concretamente ancora verificata (Sez. 3, n. 3090 del 12/01/1996, Marconi, Rv. 205043), con anticipazione pertanto della soglia di punibilità e con costruzione della fattispecie come reato di pericolo, poiché non si richiede l'effettiva cattura o l'abbattimento degli animali ma è sufficiente l'esposizione a pericolo del bene giuridico protetto, che non è il singolo animale, ma la fauna, pericolo quindi che, nel caso dell'uccellagione, si realizza tramite la predisposizione dei mezzi idonei al perseguimento di tale illecita finalità e non con l'effettivo danno arrecato alla fauna.
 
Perciò, se anche la Corte d'appello, come opina il ricorrente, avesse erroneamente ritenuto la configurabilità del tentativo, l'affermazione di responsabilità va affermata, senza alcuna modificazione del fatto accertato, con riferimento al reato consumato, che va in tal senso qualificato in iure, ai sensi dell'art. 619 cod. proc. pen., senza alcuna modificazione della pena (peraltro neppure calcolata con riferimento all'ipotesi del tentativo), stante il divieto della reformatio in peius.
 
3. Il terzo motivo è inammissibile.
 
La Corte del merito, con indagine di fatto non censurabile in sede di controllo di legittimità, ha determinato la pena, peraltro diminuendola e parametrandola in misura ampiamente al di sotto della media edittale, mediante opzione della pena detentiva anziché di quella pecuniaria, facendo leva sull'intensità del dolo che ha animato l'imputato e sull'apprezzabile organizzazione dei mezzi a sostegno della condotta illecita accertata, elementi sufficienti per dare giusto conto del criterio di scelta, al cospetto peraltro di una generica doglianza sollevata con i motivi di appello e risultando superato ogni inutile riferimento alla mancata resipiscenza dell'imputato.
 
Infatti, il giudice, nell'esercizio del potere di scelta fra l'applicazione della pena detentiva o di quella pecuniaria, alternativamente previste, ha l'obbligo, nella specie adempiuto, di indicare le ragioni che lo inducano ad infliggere la pena detentiva (Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014, dep. 2015, Ottino, Rv. 263201).
 
Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
 
P.Q.M.
 
Qualificato come consumato il reato contestato, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
Così deciso il 12/01/2016