Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 355, del 22 gennaio 2013
Urbanistica.Silenzio rifiuto rilascio concessione edilizia e obblighi della pubblica amministrazione
Non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto ex art. 117 CPA - D.Lgs. n. 104/2010. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 00355/2013REG.PROV.COLL.
N. 02737/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2737 del 2011, proposto da:
Pasquale Lanza Peluso, Caterina Messina, rappresentati e difesi dall'avv. Antonio Bonagura, con domicilio eletto presso Stefano Maranella in Roma, via Varrone, 9;
contro
Comune di Casalnuovo di Napoli, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Armando Profili, con domicilio eletto presso Armando Profili in Roma, V. Palumbo, 26;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. della CAMPANIA – Sede di NAPOLI- SEZIONE II n. 19838/2010, resa tra le parti, concernente silenzio rifiuto su istanza di rilascio concessione edilizia per la realizzazione di un fabbricato – risarcimento dei danni.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Casalnuovo di Napoli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 gennaio 2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Antonio Bonagura e Mario Sanino (su delega di Armando Profili);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso di primo grado l’odierna parte appellante aveva chiesto l’accertamento dell’illegittimità del silenzio rifiuto serbato dal Comune di Casalnuovo di Napoli sull’atto di diffida stragiudiziale notificatogli in data 28.6.2010, nonché l’annullamento della delibera di Giunta del Comune di Casalnuovo di Napoli n.23 del 18.2.2010 e la condanna del Comune di Casalnuovo al risarcimento del danno subito dagli odierni appellanti a cagione della complessiva illegittimità dell’azione amministrativa spiegata dall’amministrazione comunale.
Gli originari ricorrenti Signori Pasquale Lanza Peluso e Caterina Messina avevano fatto presente che con sentenza n.3584 depositata in data 8 maggio 2002, la IV Sezione del T.A.R. della Campania aveva accolto il ricorso n.735/1998 R.G. da loro proposto, annullando per difetto di istruttoria e di motivazione l’impugnato diniego (prot. n.49780 del 13 novembre 1997) di rilascio di concessione edilizia per la costruzione di un fabbricato per civile abitazioni, emesso dal Comune di Casalnuovo di Napoli.
Essi avevano poi appreso (solo in data 18 giugno 2010, consultando il sito web dell’ente) della pubblicazione all’albo pretorio della deliberazione di Giunta comunale n.23 del 18 febbraio 2010 – avente ad oggetto: “Adempimenti relativi alla ottemperanza sentenze TAR Campania di annullamento parziale PRG e dinieghi di concessioni edilizie emessi precedentemente alla approvazione del PRG” –, con la quale, in riferimento alla loro posizione giuridica, l’amministrazione aveva valutato negativamente l’opportunità di una variante allo strumento urbanistico vigente, stante la carenza di aree destinate a standard, con conseguente impossibilità di rilascio del titolo edificatorio richiesto.
Avevano pertanto notificato al comune, in data 28 giugno 2010, atto di significazione e diffida, al fine di ottenere il rilascio della concessione edilizia attraverso un riesame delle determinazioni adottate – allo scopo di valutare se, rispetto alle nuove prescrizioni urbanistiche sopravvenute, “possa essere applicata una deroga od una modifica, che recuperi in tutto o in parte, compatibilmente con l’interesse pubblico, le previsioni urbanistiche del PdF sulle quali si fondava l’originaria domanda di concessione edilizia a torto respinta”– ovvero, in mancanza, il risarcimento del danno per il mancato utile (derivante dall’eventuale vendita degli appartamenti), quantificato in € 1.163.557,64, oltre interessi legali.
Il Comune appellato non aveva fornito alcun riscontro alla detta diffida, ed essi erano insorti prospettando due macrocensure di violazione di legge ed eccesso di potere, censure che il primo giudice ha analiticamente esaminato – e respinto - prescindendo da ogni rilievo circa l’ammissibilità del cumulo della domanda proposta avverso l’inerzia dell’amministrazione con quella impugnatoria, (contestualmente introdotte in giudizio secondo il rito speciale del silenzio-rifiuto).
In particolare, il primo giudice ha esaminato la struttura motivazionale della sentenza n.3584 depositata in data 8 maggio 2002, con la quale era stato annullato per difetto di istruttoria e di motivazione l’impugnato diniego al rilascio del titolo abilitativo edilizio richiesto, ed ha escluso che da tale statuizione potesse discendere in capo all’appellato comune alcun obbligo di rilascio del titolo edificatorio richiesto.
Detta sentenza, infatti, nel censurare il provvedimento negativo per difetto di istruttoria e di motivazione, non imponeva all’amministrazione l’obbligo di adottare un atto dal contenuto favorevole (come espressamente chiarito anche nella parte conclusiva della decisione, laddove -capo 6 - si era disposto l’annullamento dell’atto impugnato “con ampia salvezza, peraltro, delle ulteriori valutazioni dell’Amministrazione resistente”).
Il primo giudice ha poi osservato che, ancorché l’autorità amministrativa non avesse spontaneamente provveduto sull’originaria istanza dei privati, questi neanche si erano avvalsi del tipico strumento offerto dall’ordinamento per ottenere l’esecuzione della sentenza, passata in giudicato, costituito dal giudizio di ottemperanza: al contrario, nessuna iniziativa avevano intrapreso allorché il Comune era rimasto inerte: solo quando l’appellata amministrazione comunale aveva provveduto, avevano prima diffidato l’ente ad un riesame delle determinazioni adottate e poi azionato il rimedio del ricorso avverso il presunto silenzio-inadempimento dello stesso Comune.
Tuttavia – ad avviso del Tribunale amministrativo- non era configurabile a carico del Comune un obbligo di provvedere sul citato atto di significazione e diffida (notificato il 28.6.2010) nel senso auspicato dagli odierni appellati, in quanto, al momento della notificazione della diffida, risultava già adottata (ed era conosciuta dagli appellanti) la delibera di Giunta n.23 del 10.2.2010, con la quale l’amministrazione aveva già valutato negativamente l’opportunità di una variante allo strumento urbanistico vigente, stante la carenza di aree destinate a standard, con conseguente impossibilità di rilascio del titolo edificatorio richiesto.
La diffida, quindi, si risolveva nell’ingiunzione all’adozione di un atto di autotutela incidente su una precedente delibera e, in quanto tale, non era coercibile attraverso lo strumento del silenzio-rifiuto.
Né il ricorso, introdotto con il rito del silenzio, poteva essere convertito in azione di ottemperanza: la pretesa sostanziale fatta valere dagli instanti, infatti, andava oltre la stretta esecuzione della sentenza, (che avrebbe comportato la valutazione dell’istanza edificatoria alla luce del nuovo piano regolatore, entrato in vigore ben prima della decisione di annullamento).
Gli appellanti, infatti, consapevoli, ad avviso del primo giudice, della mancanza di attuale conformità urbanistica dell’intervento progettato, avevano chiesto una variante allo strumento urbanistico vigente, il che era certamente esuberante rispetto al petitum proponibile con ricorso per l’ottemperanza alla citata sentenza n. 3584/ 2002.
Il primo giudice ha, quindi, respinto la richiesta di annullamento della già citata deliberazione n.23 del 2010 (a sostegno della quale non risultano formulate specifiche censure, fatta salva la generica doglianza riferita alla violazione del principio di affidamento dei privati, per il decorso di un lungo tempo dalla già menzionata sentenza n.3584 del 2002, e dei canoni di correttezza e buon andamento dell’attività amministrativa).
Ciò in quanto:
a) per un verso, dalla citata sentenza n. 3584/ 2002 non poteva ricavarsi l’obbligo incombente sull’amministrazione comunale di rilasciare il titolo ampliativo richiesto (sicché, ferma restando l’esperibilità del giudizio di ottemperanza, non poteva predicarsi la lesione di un affidamento giuridicamente tutelato, né il mero decorso del tempo poteva dirsi di per sé idoneo a configurare un vizio di legittimità della delibera avversata);
b) sotto altro profilo, neppure poteva ritenersi violato il principio di correttezza e buon andamento, atteso che la Giunta comunale aveva rivalutato approfonditamente la situazione infrastrutturale delle zone territoriali interessate, reputando con ampia motivazione – restata incontestata – che le attrezzature d’interesse generale coprivano circa “un decimo del fabbisogno da soddisfare”, per cui, del tutto legittimamente non aveva reputato possibile approvare una variante al P.R.G..
In ultimo (e con riguardo alla parte della diffida in cui era stato chiesto al Comune il pagamento della suindicata somma a titolo di risarcimento del danno asseritamente subito), il primo giudice ha rilevato che il rimedio del silenzio-rifiuto si configurava come strumento diretto a superare l’inerzia della p.a. nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, a fronte di una posizione di mero interesse legittimo in capo al privato.
Tale rimedio non era azionabile nel caso di inerzia su un’istanza diretta ad ottenere l’accertamento di un preteso diritto soggettivo oppure il risarcimento del danno, dovendo in questo caso la tutela essere fatta valere mediante l’apposita azione di accertamento o di condanna.
Peraltro, e nel merito, allo stato, il “bene della vita” consistente nella realizzazione dell’intervento edilizio originariamente programmato non era suscettibile di essere conseguito; e tale impedimento non discendeva da un comportamento colposo dell’amministrazione, poiché, risultavano ostative le vigenti prescrizioni urbanistiche, la cui attualità era stata ribadita dall’amministrazione con la citata delibera comunale.
Alla stregua di tali considerazioni il mezzo è stato integralmente disatteso.
L’ originaria parte ricorrente rimasta soccombente ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe sotto tutti i versanti motivazionali suindicati, ripercorrendo la cronologia degli accadimenti e chiedendo la riforma dell’appellata decisione.
Parte appellante ha sostenuto di avere atteso la spontanea ottemperanza, da parte dell’amministrazione comunale, della sentenza n. 3584/2002: essa aveva di conseguenza diritto ad ottenere una risposta dall’amministrazione, per cui la istanza/diffida di provvedere in autotutela alla rimozione del provvedimento lesivo era senz’altro ammissibile (e l’istanza era altresì fondata).
Ciò era stato obliato dal primo giudice, il che aveva determinato la conseguenza che l’Amministrazione non si era pronunciata sulla richiesta di concessione edilizia presentata da parte appellante alla luce della vigente normativa urbanistica.
La stessa parte appellante ha poi riproposto la domanda di liquidazione del danno risarcibile, provvedendo a quantificarlo e censurando la statuizione di primo grado laddove aveva escluso il ricorrere di una responsabilità patrimoniale in capo all’amministrazione comunale .
Alla pubblica udienza dell’8 gennaio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio
DIRITTO
1.L’appello è infondato e va respinto.
2. Prima di addentrarsi nella disamina delle censure prospettate dall’odierno appellante ritiene il Collegio di premettere alcune brevi considerazioni di ordine generale, al fine di chiarire le coordinate alle quali ci si atterrà nella delibazione della controversia.
2.1. Ad avviso del Collegio la decisione di primo grado è non soltanto corretta, ma a tale apprezzamento può aggiungersi che la stessa - nel lodevole sforzo di fornire comunque risposta alle istanze della parte odierna appellante -ha scandagliato funditus le questioni di merito sottoposte al vaglio giurisdizionale, sebbene il mezzo di primo grado presentasse numerose criticità che avrebbero potuto legittimamente condurre ad una pronuncia in rito di (almeno parziale) inammissibilità.
2.2. Va premesso che il giudice di primo grado ha certamente fatto buongoverno del principio, ormai consolidato in giurisprudenza, secondo il quale “in materia di cumulo di domande, il disposto normativo di cui all'art. 117, comma sesto, c.p.a., nella parte in cui prevede che se l'azione di risarcimento del danno è proposta congiuntamente a quella avverso il silenzio, il Giudice può definire con il rito camerale l'azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria, chiaramente ammette la proponibilità contestuale delle due domande, all'uopo non stabilendo alcuna conversione obbligatoria del rito, bensì rimettendo al Giudice il potere di decidere con rito camerale l'azione avverso il silenzio, rinviando al rito ordinario la trattazione della domanda risarcitoria. Stante quanto innanzi, deve, pertanto, concludersi per l'ammissibilità della domanda di risarcimento danni per responsabilità della Pubblica Amministrazione proposta contestualmente al ricorso avverso il silenzio, soggetto quest'ultimo, al rito speciale di cui all'art. 21 bis, L. n. 1034 del 1971.” (Cons. Stato Sez. V, 21-03-2011, n. 1739; ma si veda anche Cons. Stato Sez. V, 02-07-2012, n. 3845).
Detto principio, fondato su espresse disposizioni del cpa, consente di ritenere superato il più restrittivo orientamento (sostenuto dalle antevigenti disposizioni di legge), secondo il quale “col rito previsto dall'art. 21-bis della L. n. 1034/1971 può unicamente essere impugnato il silenzio serbato dall'amministrazione su una istanza, ma non si può formulare alcuna ulteriore domanda, né quella di impugnazione dell'atto che abbia dato riscontro all'istanza (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 5310 del 2007), né quella volta al risarcimento di un danno, poiché - in ragione della natura del rito - non possono essere esaminati gli indefettibili elementi costitutivi dell'illecito” (T.A.R. Lazio Roma Sez. I Sent., 30-07-2008, n. 7725, ma, anche, Consiglio di Stato, sez. IV, 28 aprile 2008, n. 1873).
2.3. Il primo giudice, peraltro, in luogo di dichiarare inammissibili le domande demolitorie e risarcitorie proposte nell’ambito del rito del silenzio-rifiuto (come pure avrebbe potuto, stante la circostanza che il mezzo di primo grado venne proposto in data antecedente alla entrata in vigore del cpa ed anche che la vicenda sostanziale ebbe a maturare prima della entrata in vigore del cpa, mentre la causa venne trattenuta in decisione in data 23 settembre 2010 e, pertanto, una settimana dopo l’entrata in vigore del predetto codice del processo amministrativo), le ha decise nel merito.
2.4. Allo stesso modo il primo giudice, ben conosceva il consolidato e condivisibile orientamento di questo Consiglio di Stato secondo il quale “non si può richiedere con lo strumento del silenzio-rifiuto l'accertamento del (preteso) diritto patrimoniale ad ottenere il risarcimento del danno in conseguenza dell'illegittimo comportamento di un'Amministrazione. Tale azione, infatti, ha ad oggetto una pretesa patrimoniale diretta ad ottenere una pronuncia di condanna dell'Amministrazione intimata al pagamento di una somma di denaro determinata, ed a siffatto risultato non può condurre il procedimento speciale di annullamento del silenzio-rifiuto - art. 2 della L. 205/2000-, o, meglio, l'azione di accertamento dell'inadempimento all'obbligo di pronuncia esplicita sulla istanza del privato diretta al soddisfacimento di un interesse pretensivo ad opera di una attività discrezionale della P.A.. Nel detto procedimento, invero, il Giudice amministrativo esercita i poteri propri della giurisdizione di legittimità ed il rimedio del silenzio-rifiuto si configura come strumento diretto a superare l'inerzia della P.A. nell'emanazione di un provvedimento amministrativo, a fronte di una posizione di mero interesse legittimo in capo al cittadino: ed infatti è determinante che il silenzio riguardi l'esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come un interesse legittimo, mentre la pretesa sostanziale sottesa al giudizio volto ad ottenere il risarcimento in questione non si delinea come una posizione di interesse legittimo. (Cons. Stato Sez. V Sent., 30-11-2007, n. 6138; ma anche Cons. Stato Sez. IV Sent., 27-03-2008, n. 1269, T.A.R. Piemonte Torino Sez. II, 07-02-2009, n. 375).
Detto orientamento appare pienamente condivisibile quanto al passato, si osserva per incidens, in quanto in simili ipotesi non è rinvenibile la sussistenza di un obbligo a provvedere da parte dell'Amministrazione, posto che, per giurisprudenza costante, il rimedio del silenzio-rifiuto va configurato come strumento diretto a superare l'inerzia della p.a. nell'emanazione di un provvedimento amministrativo, a fronte di una posizione di mero interesse legittimo in capo al cittadino, con la conseguenza che è inammissibile il ricorso volto all'accertamento del preteso diritto patrimoniale ad ottenere il risarcimento del danno (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 30 novembre 2007, n. 6138) in conseguenza dell'illegittimo comportamento serbato dalla stessa amministrazione (T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, 23 luglio 2008, n. 9178, T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 12 settembre 2007, n. 7536, T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 27 giugno 2007, n. 6287, T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 16 aprile 2007, n. 3302, Consiglio Stato, sez. VI, 03 marzo 2007, n. 1012, T.A.R. Basilicata Potenza, 17 maggio 2006, n. 339 T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 09 gennaio 2006, n. 154).
Anche in questo caso, però, il Tar non ha omesso di esaminare funditus nel merito la pretesa veicolata dall’odierno appellante, evitando di pervenire ad una statuizione processuale preclusiva in rito.
2.5. Si aggiunga,oltre a ciò che, per consolidata quanto condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, da un canto non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto ex art. 117 CPA - D.Lgs. n. 104/2010” (Cons. Stato Sez. V, 03-10-2012, n. 5199) e che, per altro verso, per costante giurisprudenza di merito “l'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo che negativo) dopo la proposizione del ricorso giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non può non avere effetti estintivi sulla materia del contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve dunque proporre contro di esso una nuova impugnazione.” (ex multis: T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 18-01-2012, n. 45 ma anche T. A. R. Campania Napoli, sez. VIII, 8 ottobre 2010, n. 18123).
In considerazione della circostanza, quindi, che al momento della notificazione della diffida (18 giugno 2010) risultava già adottata (ed era conosciuta dagli appellanti ) la delibera di Giunta n.23 del 10.2.2010 (con la quale l’amministrazione aveva già valutato negativamente l’opportunità di una variante allo strumento urbanistico vigente, stante la carenza di aree destinate a standard, con conseguente impossibilità di rilascio del titolo edificatorio richiesto), la diffida si risolveva nella ingiunzione all’adozione di un atto di autotutela incidente su una precedente delibera e, in quanto tale, non era coercibile attraverso lo strumento del silenzio-rifiuto.
Anche secondo tale angolo prospettico, quindi, il ricorso avrebbe potuto essere dichiarato inammissibile.
2.6. Il primo giudice ha tuttavia ritenuto di prescindere da tali circostanze, esaminando comunque il merito: alla stregua di tale lodevole aspirazione alla completezza ed esaustività manifestata dal primo giudice, le critiche contenute nel ricorso in appello appaiono - prima che infondate, come di seguito di dimostrerà - assai ingenerose.
3. Ciò premesso, e passando all’esame del merito delle censure proposte, nessuna di esse appare al Collegio condivisibile.
3.1. Come già esattamente colto dal primo giudice, il capo 6 della decisione demolitoria del Tar della Campania n. 3584 depositata in data 8 maggio 2002, così ebbe a statuire: “risultando fondato il denunciato vizio di motivazione, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato e con ampia salvezza, peraltro, delle ulteriori determinazioni dell’Amministrazione resistente”.
3.2. Appare evidente pertanto la restituzione pressoché integra del potere all’Amministrazione discendente dalla menzionata decisione.
3.3. In sede di rieffusione del potere, l’amministrazione comunale ha vagliato approfonditamente i profili in ordine ai quali il Tar aveva ritenuto sussistente una carenza motivazionale, ed ha reiterato la statuizione negativa, valutando negativamente l’opportunità di una variante allo strumento urbanistico vigente, stante la carenza di aree destinate a standard, con conseguente impossibilità di rilascio del titolo edificatorio richiesto.
3.4. La diffida rivolta all’amministrazione da parte appellante, in quanto successiva alla riponderazione della posizione giuridica di parte appellante medesima si risolve in una richiesta di ritiro/modifica sulla quale l’Amministrazione non era certo tenuta a provvedere, avendo seppur tardivamente (ma gli appellanti non si erano medio tempore attivati per chiedere l’ottemperanza alla sentenza demolitoria del Tar) riponderato la questione, colmando il gap motivazionale riscontrato in precedente sede giudiziale (sia pur pervenendo ad una nuova deliberazione negativa).
3.4.1. Parte appellante incorre in un vizio logico, allorché ricollega la detta diffida ad un momento precedente all’adozione della (nuova) statuizione negativa, sostanzialmente “saldando” la detta diffida alla statuizione demolitoria pregressa e considerandola alla stregua di un sollecito ad ottemperare alla sentenza di anullamento.
L’inversione logica ed il travisamento del fatto è evidente, posto che a quella data l’Amministrazione aveva già provveduto: altrimenti argomentando dovrebbe ritenersi inutiliter data qualsiasi nuova manifestazione rieffusiva del potere, suscettibile di essere rimessa in discussione a mezzo di diffide a provvedere, sino a che l’Amministrazione non si determini favorevolmente sulla istanza del privato.
La tesi sostenuta appare del tutto priva di fondamento: la diffida costituiva atto con il quale si sollecitava, nella sostanza, un “riesame” della nuova statuizione negativa già adottata e conosciuta da parte appellante (come lealmente riconosciuto nell’atto introduttivo del giudizio essi ne avevano preso cognizione consultando il sito web dell’ente in data 18.6.2010): vale a dire che al momento della notificazione della suddetta diffida, la delibera di Giunta n.23 del 10.2.2010 risultava già adottata e conosciuta, per cui la diffida inoltrata rientrava e rientra nel paradigma già a più riprese preso in esame dalla giurisprudenza, secondo la quale “se è innegabile che la P.A. debba comportarsi secondo buona fede e correttezza, è altrettanto vero che l'Amministrazione non ha alcun obbligo di provvedere al riesame di un' istanza di revoca o di riesame di un provvedimento edilizio o di un titolo abilitativo divenuto oramai inoppugnabile”(Cons. Stato Sez. IV, 23-02-2012, n. 984).
Ciò perché, come si è detto, non sussiste alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi su istanze volte a provocare interventi autoritativi in autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame dei provvedimenti amministrativi mediante l'istituto del silenzio; e ciò perché il potere di autotutela è connotato da ambiti di discrezionalità e si esercita d'ufficio e non su istanza di parte. Detta istanza, pertanto, può avere mera valenza di sollecitazione ed eccitazione di un potere proprio dell'Amministrazione, come di recente ribadito dalla giurisprudenza, che ha ritenuto non coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (Cons. Stato Sez. V, 03-10-2012, n. 5199; ma anche T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 22-10-2012, n. 1924).
4. Tutte le altre doglianze prospettate non meritano favorevole delibazione.
Parte appellante non ha svolto alcuna censura, nel merito, con riguardo alla motivazione addotta dall’Amministrazione per motivare il diniego, e riposante “nella carenza di aree destinate a standard, con conseguente impossibilità di rilascio del titolo edificatorio richiesto. Quanto a tale profilo, va dato atto che la Giunta comunale ha rivalutato approfonditamente la situazione infrastrutturale delle zone territoriali interessate, facendo presente che le attrezzature di interesse generale coprivano, lo si è notato, circa “un decimo del fabbisogno da soddisfare”, (per cui non ha reputato possibile approvare una variante al P.R.G. nei sensi auspicati dagli appellanti).
4.1. Rimasta incontestata da parte dell’appellante la legittimità della motivazione del rinnovato diniego e disattese le assertive ed indimostrate censure con le quali si sostiene che tale “riponderazione” fosse stata in realtà superficiale, o fittizia, è evidente che nessun profilo di danno risarcibile può essere favorevolmente delibato.
Escluso che parte appellante potesse legittimamente aspirare al bene della vita richiesto (tanto che, lo si ribadisce nuovamente, non ha neppure censurato gli approdi reiettivi cui è giunto il Comune allorché ha riponderato la posizione vantata dall’appellante medesimo), essa non ha né allegato di avere subito ulteriori danni, né richiesto la liquidazione dei medesimi, né in alcun modo provveduto a quantificarli: e d’altro canto, si rileva per completezza, a fronte di una statuizione demolitoria che lasciava pressoché integro il potere di rideterminazione in capo all’Amministrazione, sarebbe stato ben difficile ipotizzare alcun affidamento qualificato riposante nella positiva e favorevole conclusione del procedimento.
Né d’altra parte essa aveva mai sollecitato l’Amministrazione a provvedere sollecitamente a seguito dell’annullamento giurisdizionale - attivandosi soltanto quando venne a conoscere la “nuova” statuizione reiettiva -, pur nell’odierno appello reiteratamente stigmatizzando il ritardo impiegato dall’Amministrazione comunale a conformarsi al dictum demolitorio del Tar.
Neppure sotto l’angolo prospettico del danno da ritardo la domanda risarcitoria appare accoglibile:
ciò pure perché nessuna specifica critica è stata mossa dall’appellante alla statuizione (nuovamente) insoddisfacente per la propria posizione adottata dal comune; l’appellante non ha specificamente impugnato detto atto, e quest’ultimo, sia pure qui incidentalmente vagliato, è stato ritenuto connotato da motivazione congrua e non abnorme.
In una simile ipotesi, non è ipotizzabile il ristoro di alcun danno da ritardo (ex multis: Cons. Stato Sez. V, 03-05-2012, n. 2535).
5.Conclusivamente, l’appello è integralmente infondato ed esattamente il primo giudice ha disatteso il mezzo di primo grado
6. Le spese del procedimento seguono la soccombenza, e pertanto l’appellante deve essere condannato al pagamento delle medesime in favore dell’appellata amministrazione, comunale in misura che appare equo quantificare in euro quattromila/00 (€ 4000,00) oltre accessori di legge, se dovuti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, numero di registro generale 2737 del 2011 come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali del grado di giudizio, nella misura di euro quattromila/00 (€ 4000,00) di cui mille/00 (1000/00) per spese e diritti, oltre accessori di legge, se dovuti in favore dell’appellata amministrazione comunale .
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/01/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)