Consiglio di Stato Sez. IV n. 7768 del 25 settembre 2024
Urbanistica.Disciplina del silenzio-assenso

Anche qualora vi sia un superamento del termine di conclusione del procedimento, appare in contrasto con i principi di collaborazione e di buona fede, oggi codificati come principio generale dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione dall’art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, invocare la formazione del silenzio assenso in ipotesi in cui siano stati tempestivamente sollevati dagli uffici rilievi oggettivamente problematici e non pretestuosi, seguiti da interlocuzioni finalizzate a cercare soluzioni idonee a superarli e sfociati, da ultimo, in una proposta di decisione contraria, chiaramente espressa nel preavviso di diniego: in questi casi infatti non ricorre alcuna inerzia amministrativa che giustifichi il meccanismo di semplificazione in esame, previsto a tutela dell’interesse pretensivo del privato, ma, al contrario, si è di fronte ad un articolato confronto procedimentale che - in luogo di decisioni sbrigative sfavorevoli in presenza di criticità e di carenze documentali - e nella ricerca di possibili soluzioni alle problematiche emerse, ha comportato, nel caso concreto, una dilatazione (tra sospensioni ed interruzioni) della scansione temporale stabilita, in via generale ed astratta, dal legislatore.

Pubblicato il 25/09/2024

N. 07768/2024REG.PROV.COLL.

N. 00753/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 753 del 2023, proposto dalla Società Ro.Ma. S.r.l.s, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Silva Gotti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Cervia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Cristiana Carpani e Silvia Medini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna (Sezione Seconda) n. 01029/2022.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio e l’appello incidentale del Comune di Cervia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Luca Monteferrante e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con ricorso proposto avanti al T.a.r. per l’Emilia Romagna, sede di Bologna, la Società Ro.Ma. S.r.l.s. ha impugnato l’ordinanza n. 204/2022 del 20 maggio 2022 recante il diniego del permesso di costruire PG. 62770 (82-2021) chiesto con istanza presentata in data 11 ottobre 2021, avente ad oggetto l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione con opere di efficientamento energetico, sismico, rigenerazione e sopraelevazione di un piano, con destinazione d’uso principale a residenza su immobile sito in Via Urano n. 11, Cervia, e posto sull’area edificabile identificata nel Catasto Terreni: Foglio: 43; Mappale: 708; Subalterno: 8, 9, 10.

Con sentenza n. 1029/2022, pubblicata in data 28 dicembre 2022, il T.a.r. adito ha:

a) respinto il motivo inerente la pretesa formazione del silenzio-assenso a fronte della accertata assenza di inerzia dell’Amministrazione comunale sul piano fattuale e per la carenza del requisito sostanziale della conformità del progetto alla normativa urbanistica (cfr. capi 1, 1.2, 1.3, 1.4 e 1.5 della pronuncia cit.);

b) respinto il motivo inerente la pretesa violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 con specifico riferimento alla sopraelevazione del terzo piano (cfr. capi 2; 2.1; 2.2; 2.3 e 2.4 della pronuncia cit.);

c) respinto il motivo inerente la pretesa applicabilità dell’art. 10, comma 2 della L.R. n. 24/2017 e, quindi, il riconoscimento di incentivi volumetrici suscettibili di essere realizzati in deroga al D.M. n. 1444/1968 (cfr. capi 3; 3.1; 3.2; 3.3 e 3.4 della pronuncia cit.);

d) accertato e dichiarato l’irrilevanza del motivo inerente il mancato rispetto delle distanze anche ad opera dell’ascensore previsto in sede progettuale, a fronte della ritenuta legittimità di una delle motivazioni addotte ai fini del diniego rispetto ad un provvedimento amministrativo fondato su una pluralità di motivi autonomi.

La società Ro.Ma. ha interposto appello avverso la predetta sentenza per chiederne la riforma in quanto errata in diritto.

Il Comune di Cervia si è costituito in giudizio per resistere all’appello contestandone la fondatezza.

Ha anche proposto, in via cautelativa, appello incidentale per la riforma del capo 4.1 della sentenza n. 1029/2022 nella parte in cui è parso che il T.a.r. abbia ritenuto legittima la realizzazione dell’ascensore, in deroga al regime delle distanze, rinviando, sebbene a fini “di giustizia sostanziale” (cfr. punto 4.1. della motivazione), alla favorevole pronuncia resa sul punto in sede cautelare.

Alla udienza pubblica del 5 ottobre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica con cui le parti hanno nuovamente illustrato le rispettive tesi difensive.

Con ordinanza n. 8877 del 11 ottobre 2023 il Collegio ha chiesto alle parti: “documentati chiarimenti da ciascuna delle parti in causa al fine di chiarire, in fatto, lo stato dei luoghi, attraverso apposita documentazione fotografica e piantine di raffronto dei due edifici, idonee a descrivere lo stato delle pareti frontistanti, evidenziando le relative distanze, le altezze e la eventuale presenza di luci e vedute, nello stato di fatto ante e post intervento, ed ogni ulteriore elemento descrittivo utile alla verifica del rispetto delle distanze, secondo il criterio di misurazione c.d. lineare, sia rispetto alla sopraelevazione che alla realizzazione del vano ascensore.”.

È stata quindi depositata da entrambe le parti documentazione fotografica ed illustrativa dello stato dei luoghi che ha palesato tra l’altro una incertezza sull’oggetto del giudizio in relazione al lato del fabbricato (sud o est) rispetto al quale è stata contestata la violazione delle distanze in relazione alla sopraelevazione.

La causa è stata, infine, nuovamente chiamata per la pubblica trattazione alla udienza del 15 febbraio 2024 all’esito della quale è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica incentrate essenzialmente sulla questione centrale della contestata violazione delle distanze in relazione alle risultanze della documentazione versata in atti in seguito alla ordinanza istruttoria del Collegio.

Tanto premesso in fatto e venendo al merito della controversia, l’appello principale è infondato.

Con il primo motivo l’appellante deduce: “Formazione del silenzio assenso. Violazione ed errata applicazione dell’art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell’art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Violazione degli artt. 10 bis e 21 nonies della l. n. 241/1990. Riproposizione dei motivi di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell’art. 88 cpa. Palese inadeguatezza ed erroneità della motivazione. Travisamento dei fatti. Motivazione inesistente”.

Lamenta che il T.a.r. avrebbe errato nell’escludere la intervenuta formazione del silenzio assenso a causa del ritardo nel provvedere del Comune, incorrendo in una serie di errori nella ricostruzione dell’iter procedimentale, quali il carattere (ritenuto) innovativo dei documenti depositati il 10 febbraio 2022, rispetto al deposito del 5 gennaio 2022, e il riferimento, nel computo, alla data di protocollazione in entrata dei documenti inviati anziché di ricezione via pec.; nessuna particolare solerzia sarebbe poi ravvisabile nella sequenza procedimentale scandita da una sola richiesta di chiarimenti degli uffici comunale (neppure avente ad oggetto la questione delle distanze come erroneamente indicato dal T.a.r.) cui seguivano numerosi depositi di documenti, tavole di progetto e deduzioni difensive circa i caratteri dell’intervento e la disciplina applicabile, con particolare riferimento al regime delle distanze tra pareti finestrate ed alla non applicabilità della distanza di 10 metri all’ascensore in quanto vano tecnico, trattandosi in ogni caso di impianto funzionale al superamento delle barriere architettoniche.

L’appellante propone una analitica ricostruzione della scansione procedimentale e dei termini di deposito delle integrazioni documentali, richieste dall’ufficio tecnico comunale all’esito della riunione del 26 ottobre 2021, al fine di dimostrare la consumazione del termine previsto dall’art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (che prevede un termine massimo di 75 giorni in luogo di quello di 100 giorni – 60 per la proposta e 40 massimo per la adozione del provvedimento finale - previsto dall’art. 20, commi 3 e 6 del d.P.R. n. 380 del 2001) per la formazione del silenzio assenso allorquando il Comune ha adottato, in data 20 maggio 2022 il provvedimento conclusivo di diniego, a fronte di una istanza presentata in data 11 ottobre 2021.

Il motivo è infondato.

All’esito della audizione tenutasi il 26 ottobre 2021 la domanda è risultata incompleta, tant’è vero che, in relazione alla medesima, sono stati richiesti chiarimenti, integrazioni documentali e modifiche al progetto, cui l’appellante ha dato riscontro, tra gli altri, con il deposito, in data 5 gennaio 2022, di numerosi elaborati progettuali recanti modifiche al progetto originario (cfr. doc. 16 prodotto dalla ricorrente in primo grado) e in data 11 gennaio 2022 con il deposito sulla asseverazione degli impianti.

Ulteriori elaborati grafici sono stati inviati via pec dalla Società appellante in data 10 febbraio 2022: la tavola 9 parcheggi/posti auto, stato di progetto; la tavola 12 sistemazione esterna/verifica Ip; la tavola 10 calcolo ST-Vt, stato attuale.

L’appellante sostiene che tale ultima produzione andrebbe qualificata quale “ri-deposito” di documenti già in atti, quelli del 5 gennaio 2022, e critica l’affermazione del T.a.r. secondo cui “il raffronto con il doc. 16 di parte ricorrente non restituisce certezze sull’identità delle tavole (al contrario, le tre descrizioni degli elaborati non collimano)” (cfr. capo 1.3 della sentenza appellata).

La doglianza non può essere condivisa.

Il T.a.r., invero, ha chiarito di non poter condividere l’obiezione per cui si sarebbe trattato di un mero ri-deposito di quanto messo a disposizione il 5 gennaio 2022 precedente anche perché “… la stessa nota è testualmente classificata come integrazione della pratica”; da tale circostanza, non contestata, discende che gli uffici comunali hanno necessariamente dovuto riaprire una fase di verifica della predetta documentazione che giustifica l’effetto interruttivo previsto dall’art. 20, comma 5, (o comunque di quello sospensivo ex art. 18, comma 7, della legge regionale n. 15 del 2013), a prescindere dal fatto che si sia trattato di documenti nuovi o di quelli già depositati il 5 gennaio 2022 perché l’operazione di deposito ha comunque un impatto organizzativo sui tempi del procedimento ed è anche onere della parte evitare inutili aggravamenti dell’iter.

Inoltre, ancora in data 14 marzo 2022, successivamente alla notificazione del preavviso di diniego al permesso di costruire del 4 marzo 2022, l’appellante ha provveduto all’invio di ulteriore documentazione progettuale e segnatamente degli “…. elaborati grafici di progetto e comparato con variata l’apertura nel vano scala del piano terzo (luce a ml. 2,00 dal pavimento) posta sul prospetto est, in conformità a quanto sostenuto in merito alle aperture “lucifere””, modifica reputata dall’istante utile per superare il motivo ostativo indicato nel preavviso di rigetto, relativo proprio al rispetto delle distanze tra pareti finestrate, tema che, sebbene non formalizzato nel verbale della riunione del 26 ottobre 2021, è stato pacificamente al centro delle verifiche istruttorie per essere infine formalizzato con il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022.

Alla luce di quanto sopra, la conclusione cui è pervenuto il primo Giudice ai capi 1.3, 1.4 e 1.5 della sentenza appellata in relazione alla mancata formazione del silenzio assenso, merita di essere confermata, sebbene con motivazione parzialmente diversa, poiché solo a partire dal 14 marzo 2022 è venuto meno l’effetto sospensivo del decorso del termine per provvedere, previsto dall’art. 20, comma 4 t.u. ed. (e comunque dall’art. 18, comma 7 della legge regionale n. 15 del 2013), in relazione alla richiesta di modifiche progettuali formulate sin dalla riunione istruttoria del 26 ottobre 2021 per superare anche i profili di contrasto con la normativa sulle distanze.

Il predetto comma recita infatti che “Il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può, nello stesso termine di cui al comma 3, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L'interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta di cui al presente comma sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di cui al comma 3.”.

A sua volta il comma 3 prevede che “Entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l'istruttoria, e formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell'intervento richiesto….”.

L’“esito” di cui parla il comma 3 e cioè il riscontro alla richiesta degli uffici comunale è stato completato solo in data 14 marzo 2022, sicché il residuo termine di quarantacinque giorni (60 meno i 15 giorni decorsi tra la presentazione dell’istanza – 11 ottobre 2021 – e la richiesta di modifiche – 26 ottobre 2021 -) ha ripreso a decorrere solo da quella data, per venire a scadere oltre il 20 maggio 2022, quando il diniego è stato formalizzato, dovendosi computare il termine ulteriore di 40 giorni previsto per la adozione del provvedimento finale di cui all’art. 20, comma 6.

Inoltre, ai sensi dell’art. 20, comma 5, la richiesta di documenti integrativi - avanzata sempre nel corso della riunione del 26 ottobre 2021 – ha comunque interrotto il termine per l’adozione della proposta di decisione, il cui decorso è ripreso ex novo dalla ricezione della documentazione integrativa, con invio completato solo il 10 febbraio 2022.

Recita infatti il comma 5 che “Il termine di cui al comma 3 può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell'amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa.”.

Ne discende che, anche in questo caso, sommando il termine di 60 giorni per la adozione della proposta con quello di 40 giorni per la adozione del provvedimento finale, e computandoli dal 10 febbraio 2022, si supera il termine del 20 maggio 2022 (seppur di un solo giorno), allorquando è giunto il diniego espresso.

Pertanto, tenuto conto sia dell’effetto sospensivo che di quello interruttivo del termine di 60 giorni previsto per la elaborazione della proposta di decisione - determinatosi all’esito delle verifiche istruttorie e delle richieste di modifica e di integrazione documentale formulate nella riunione del 26 ottobre 2021 – deve escludersi la formazione del silenzio assenso alla data del 20 maggio 2022 – allorquando il diniego impugnato è stato adottato - tenuto conto, come si è detto, che, ai sensi dell’art. 20, comma 6, “Il provvedimento finale, che lo sportello unico provvede a notificare all’interessato, è adottato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio, entro il termine di trenta giorni dalla proposta di cui al comma 3….. Il termine di cui al primo periodo è fissato in quaranta giorni con la medesima decorrenza qualora il dirigente o il responsabile del procedimento abbia comunicato all’istante i motivi che ostano all’accoglimento della domanda, ai sensi dell’articolo 10-bis della citata legge n. 241 del 1990, e successive modificazioni.”.

Precisa il Collegio, sin d’ora, che la verifica del rispetto del termine – più favorevole anche in ragione della previsione del solo effetto sospensivo e non interruttivo delle integrazioni documentali e delle modifiche progettuali - per la formazione del silenzio assenso, previsto dall’art. 18 della legge regionale dell’Emilia Romagna n. 15 del 2013, non rileva nel caso di specie sussistendo ulteriori e più stringenti motivazioni che ostano alla formazione del silenzio assenso.

È conseguentemente priva di rilevanza anche la questione della individuazione della normativa applicabile – statale o regionale - e della possibile incostituzionalità della disciplina regionale rispetto all’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale nella materia del governo del territorio, prevista anche a tutela dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 29, comma 2-ter della legge n. 241 del 1990, in relazione alla compatibilità (oltre che con la norma di principio statale) degli eventuali livelli ulteriori di tutela previsti dalla legislazione regionale ex art. 29, comma 2-quater, rispetto al principio del buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost. (in ragione della riduzione dei termini di conclusione del procedimento e della natura sospensiva anziché interruttiva dei termini per integrazioni documentali).

Queste le ulteriori ragioni ostative alla formazione del silenzio assenso (oltre quanto si dirà, con portata dirimente, in relazione al terzo motivo di appello).

L’art. 20, comma 8, t.u. ed. afferma che “decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo” “sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso” solo “ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego” ma non richiede necessariamente che il “motivato diniego” debba rivestire la forma provvedimentale, ben potendosi desumere la volontà procedimentale espressa anche dal preavviso di diniego, quale proposta di decisione da sottoporre al preventivo contraddittorio procedimentale prima di assumere l’eventuale veste provvedimentale: la teoria generale del procedimento è concorde nel ritenere centrale la fase istruttoria che si conclude con la elaborazione delle alternative decisionali e con la scelta della decisione più ragionevole rispetto alla quale il provvedimento finale costituisce il mero involucro formale o comunque il riepilogo delle verifiche istruttorie e del processo di selezione delle alternative decisionali che sfocia, per l’appunto, nella proposta di decisione, anticipata all’istante laddove negativa.

La comunicazione della ipotesi di decisione, nella specie, è intervenuta sin dal 4 marzo 2022, in tempo utile ad interdire la formazione del silenzio, anche a voler considerare l’effetto, quanto meno sospensivo (in base alla più favorevole disciplina della legge regionale) del deposito in data 5 gennaio 2022: seguendo questa prospettazione la proposta di decisione sarebbe comunque intervenuta al 73° giorno (computando 15 giorni sino al 26 ottobre 2021 e 58 giorni dal 5 gennaio al 4 marzo 2022), quindi entro i 75 giorni previsti dal più favorevole articolo 18 della legge regionale n. 15 del 2013.

Osserva ancora il Collegio che anche qualora vi fosse stato un superamento del termine di conclusione del procedimento, appare in contrasto con i principi di collaborazione e di buona fede (richiamati, in materia, anche da Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 ed oggi codificati come principio generale dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione dall’art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990) invocare la formazione del silenzio assenso in ipotesi in cui, come nel caso di specie, siano stati tempestivamente sollevati dagli uffici rilievi oggettivamente problematici e non pretestuosi, seguiti da interlocuzioni finalizzate a cercare soluzioni idonee a superarli e sfociati, da ultimo, in una proposta di decisione contraria, chiaramente espressa nel preavviso di diniego: in questi casi infatti non ricorre alcuna inerzia amministrativa che giustifichi il meccanismo di semplificazione in esame, previsto a tutela dell’interesse pretensivo del privato, ma, al contrario, si è di fronte ad un articolato confronto procedimentale che - in luogo di decisioni sbrigative sfavorevoli in presenza di criticità e di carenze documentali - e nella ricerca di possibili soluzioni alle problematiche emerse, ha comportato, nel caso concreto, una dilatazione (tra sospensioni ed interruzioni) della scansione temporale stabilita, in via generale ed astratta, dal legislatore.

Quanto da ultimo osservato circa la rilevanza del preavviso di diniego e del principio di buona fede nella formazione del silenzio assenso, rende superflua, come si è visto, l’indagine – anche in termini di legittimità costituzionale, rispetto all’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale in materia di governo del territorio – circa l’applicabilità dell’art. 18 della legge regionale della Emilia Romagna n. 15 del 2013, che prevede un calcolo dei termini di formazione del silenzio assenso più favorevole al privato poiché il preavviso di diniego è in ogni caso tempestivo e di per sé ostativo e lo stesso principio di buona fede, a fronte di un comportamento amministrativo attivo e collaborativo, opera in senso preclusivo dell’effetto legale previsto dall’art. 20, comma 8 (e dalla corrispondente previsione regionale) il quale presuppone una inerzia o comunque un ritardo imputabile a colpa dell’amministrazione, in violazione del principio del buon andamento, non configurabile quando invece il decorso del tempo consegua all’esercizio del soccorso istruttorio, espressione del principio solidaristico che concorre a conformare, in senso democratico, lo statuto costituzionale dell’amministrazione, come servizio e non come potere.

In questo senso merita conferma la statuizione del T.a.r. nella parte in cui ha accertato “l’assenza dell’inerzia sul piano fattuale”.

Alla luce di quanto osservato resta, conseguentemente, assorbita la doglianza con cui l’appellante lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui afferma che i termini dovrebbero calcolarsi dalla data della protocollazione e non da quella del deposito, avvenuto con pec, per difetto di rilevanza della questione poiché lo scarto temporale tra deposito via pec e data di protocollazione non è determinante, nel caso di specie, ai fini del decorso del lasso temporale necessario alla formazione del silenzio assenso, fermo restando che nella proposta ricostruttiva della scansione procedimentale il Collegio ha tenuto conto della data di invio via pec e non di quella del protocollo informatico comunale.

Ne discende che il motivo deve, in conclusione, ritenersi infondato.

Con il secondo motivo l’appellante deduce: “Sospensione e non interruzione del termine. Violazione ed errata applicazione dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990 e dell’art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Ancora sul motivo di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell’art. 88 cpa.

Difetto ed erroneità della motivazione.”.

Lamenta la erroneità della motivazione della sentenza nella parte in cui il T.a.r. ha ricollegato alla adozione del preavviso di rigetto ex art. 10 - bis della legge n. 241 del 1990 un effetto interruttivo anziché sospensivo del decorso del termine di conclusione del procedimento, come invece espressamente indicato sia dallo stesso art. 10 - bis che dall’art. 18, comma 12, della legge regionale n. 15 del 2013.

Il motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché l’effetto sospensivo previsto dalla legge, in luogo di quello interruttivo affermato dal T.a.r., non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello circa la mancata formazione, nel caso di specie, del silenzio assenso.

Deve tuttavia precisarsi che il richiamato effetto sospensivo opera in relazione alla verifica del rispetto del termine di conclusione del procedimento, rilevante anche in ordine alla azionabilità dei rimedi di tutela esperibili ma non è incompatibile con l’affermazione per cui il preavviso di rigetto, anticipando una chiara volontà procedimentale dell’amministrazione procedente, in termini di scelta tra alternative decisionali - seppur ancora provvisoria in quanto soggetta a verifica nel contraddittorio procedimentale - debba ritenersi logicamente incompatibile con la situazione di inerzia amministrativa, richiesta dalla legge per la operatività del dispositivo di semplificazione di cui all’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.

Con il terzo motivo l’appellante ha dedotto che “Il silenzio si forma anche in assenza di conformità del progetto alle norme urbanistiche. Violazione ed errata applicazione dell’art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell’art. 18 della lr n. 15 del 2013. Violazione dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 e degli artt. 41 e 97 Cost.. Violazione dell’art. 88 cpa.. Difetto ed erroneità della motivazione.”.

Lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto la non conformità del progetto alle norme urbanistiche ostativa alla formazione del silenzio assenso, alla luce degli orientamenti più recenti del Consiglio di Stato. Invoca, a sostegno, il principio di diritto affermato da Cons. Stato, sez. VI, n. 5746 del 2022.

Anche questo motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché il principio invocato dall’appellante - circa il carattere non ostativo della difformità del progetto rispetto alle previsioni di legge ed ai regolamenti edilizi, rispetto alla formazione del silenzio assenso - non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello, atteso che, nel caso di specie, il silenzio assenso non si è comunque perfezionato a causa non di difformità rispetto a parametri, in senso lato, normativi, bensì per mancato decorso del termine di conclusione del procedimento e comunque per assenza di inerzia, sul piano fattuale, in capo al Comune.

Peraltro il richiamo del nuovo indirizzo giurisprudenziale che si scosta dalla lettura tradizionale dell’istituto in esame (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2023 n. 7534; Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217; Cons. Stato, sez. II, 22 maggio 2023, n. 5072; Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 che segue la n. 5746 del 8 luglio 2022; in linea, anche se in tema di onere della prova, cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2023, n. 2239; per una recente riaffermazione invece dell’indirizzo tradizionale si veda Cons. Stato, sez. VII, 16 febbraio 2023, n. 1634) non consentirebbe in ogni caso il raggiungimento di un esito favorevole per l’appellante.

Il predetto indirizzo, infatti, non manca di rammentare (e la stessa appellante lo evidenzia correttamente nel penultimo capoverso di p. 20 dell’appello) che ai fini della operatività del dispositivo del silenzio assenso occorre che la domanda sia “quantomeno aderente al ‘modello normativo astratto’ prefigurato dal legislatore” pena la “inconfigurabilità giuridica” della stessa (così Cons. Stato, sez. VI, Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 e già 8 luglio 2022, n. 5746, alla cui ricostruzione generale dell’istituto si fa rinvio) il che significa che la domanda deve essere completa degli elementi essenziali (“minimali” secondo Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217), a pena di inconfigurabilità della stessa (in questo senso si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11203 su cui infra).

La stessa legge regionale n. 15 del 2013 declina correttamente il principio laddove, all’art. 18, comma 4, precisa che: “L'incompletezza della documentazione essenziale di cui al comma 1, determina l'improcedibilità della domanda, che viene comunicata all'interessato entro dieci giorni lavorativi dalla presentazione della domanda stessa”.

Occorre premettere che la questione della configurabilità di una domanda idonea non rappresenta una ipotesi di integrazione della motivazione in giudizio - in quanto per ipotesi non dedotta a corredo della motivazione del provvedimento impugnato - costituendo l’oggetto della domanda di pronuncia di accertamento del giudice circa la formazione del silenzio assenso che l’appellante ha formulato con il ricorso di primo grado.

È dunque infondata l’eccezione circa la inammissibilità di una tale prospettazione su cui insiste invece la difesa comunale.

Venendo al merito della questione, la giurisprudenza non ha ancora chiarito quali siano gli elementi essenziali richiesti, a pena di inconfigurabilità della domanda, ai fini della formazione del silenzio assenso.

Il Collegio è dell’avviso che siffatti elementi siano solo quelli indicati dall’art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 a mente del quale “La domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell'articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un'attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti, e quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte II. La domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie alle norme relative all'efficienza energetica”.

In particolare il novero degli elementi essenziali non è integrabile ad opera dei regolamenti edilizi e neppure da parte della legislazione regionale tramite normativa primaria o secondaria di dettaglio in quanto le Regioni sono autorizzate dall’art. 29, comma 2-quater della legge n. 241 del 1990 a prevedere livelli “ulteriori di tutela” ma non ad aggravare il procedimento con ulteriori adempimenti o documenti che avrebbero l’effetto di depotenziare l’efficacia dello strumento di semplificazione, comprimendo un livello essenziale della prestazione, lo standard minimo, riservato alla competenza esclusiva del legislatore statale ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost..

Il menzionato disposto normativo, tra gli altri elementi essenziali, indica gli “elaborati progettuali richiesti”.

Analoga previsione è contenuta nell’art. 18, comma 1, della legge regionale n. 15 del 2013.

Gli elaborati progettuali assumono una particolare rilevanza poiché, insieme alla asseverazione ed alla relazione illustrativa del tecnico incaricato, descrivono la natura dell’intervento e quindi delimitano l’oggetto della domanda e il perimetro dell’effetto autorizzatorio discendente dalla fictio iuris.

Nel caso di specie gli elaborati progettuali sono stati modificati una prima volta con il deposito del 5 gennaio 2022 (a voler considerare non innovativo il successivo deposito del 10 febbraio 2022) ed ancora, dopo il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022, con la produzione documentale del 14 marzo 2022 mediante invio di tavole di progetto modificate per conformarsi ai rilievi critici formulati nell’avviso ex art. 10 bis.

La presentazione di nuovi elaborati progettuali e la modifica dell’oggetto dell’intervento che ne consegue, comportando una nuova ed ulteriore modifica dell’oggetto dell’intervento, fa sì che ci si trovi di fronte ad una nuova istanza, trattandosi di modifica di un requisito essenziale, con la conseguenza che il termine inizia a decorrere nuovamente solo da quella data, sicché sia rispetto all’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 (90 giorni) che all’art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (75 giorni) il termine di formazione del silenzio assenso non poteva ritenersi spirato allorquando è intervenuto il diniego formale in data 20 maggio 2022.

A rigore l’art. 18, comma 4, della legge regionale n. 15 del 2013 prevede in questi casi l’improcedibilità tout court della domanda.

È stato al riguardo chiarito, in linea con il più recente indirizzo giurisprudenziale, che “per l’espletamento di una efficace istruttoria, l’istanza debba essere corredata da tutti gli elementi necessari a consentire l’accertamento della spettanza del bene della vita, per cui il silenzio assenso può formarsi solo in tale ipotesi, nel qual caso l’eventuale discrasia della fattispecie rispetto al modello legale di riferimento determina l’illegittimità dell’atto tacito, ma non ne impedisce il venirne ad esistenza.

L’opzione ermeneutica più idonea alla tutela degli interessi in conflitto, in altri termini, deve essere individuata nel fatto che l’assenso tacito si forma allorquando sulla domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della P.A., sia decorso il termine di legge senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la normativa di riferimento.

Diversamente, ove l’istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l’amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per il comportamento dell’istante a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene, il silenzio assenso non può formarsi, per cui si avrà un’ipotesi di inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità” (cfr. Cons. Stato, VI, 27 dicembre 2023, n. 11203).

Quanto precede vale anche per tutte le modifiche progettuali che fuoriescono dal perimetro istruttorio delineato dall’art. 20, comma 4 (e, analogamente, nel caso di specie, dall’art. 18, comma 6 della legge regionale n. 15 del 2013) e cioè per quelle non concordate nel dialogo procedimentale laddove “di modesta entità” o che esorbitino le scadenze temporali ivi decise, le quali, in ragione dell’effetto sorpresa che generano, determinano una regressione del procedimento alla fase della iniziativa procedimentale trattandosi di domanda nuova per la quale occorre rinnovare l’istruttoria ab inizio.

Su un piano ricostruttivo generale, osserva ancora il Collegio, in assenza degli elementi essenziali della fattispecie per come indicati all’art. 20, comma 1, il mancato esercizio, nel termine di legge, del potere istruttorio di chiedere integrazioni documentali o modifiche al progetto (potere nella specie comunque tempestivamente esercitato) non determina alcun effetto di sanatoria poiché l’inerzia non può sanare il difetto di quei requisiti che incidono sulla stessa configurabilità di una domanda la cui completezza è indispensabile proprio per la operatività dell’effetto legale finalizzato a porre rimedio alla mancanza di un provvedimento espresso: l’effetto sostitutivo presuppone, in altri termini, che la domanda abbia gli stessi requisiti essenziali del provvedimento che va a sostituire e tra questi vi è senz’altro la determinatezza dell’oggetto, che rileva sia per definire il perimetro dell’intervento autorizzato ma anche ai fini della successiva attività di vigilanza oltre che sanzionatoria, in caso di accertate difformità.

Il decorso del termine di legge previsto per la richiesta di elementi integrativi (progettuali e documentali) rileva, invece, rispetto ad eventuali ulteriori requisiti (diversi da quelli previsti dall’art. 20, comma 1) richiesti da leggi regionali o dai regolamenti edilizi, nel senso che, ove mancanti, non potranno essere chiesti successivamente alla scadenza del termine di legge né invocati per impedire la formazione del silenzio assenso in quanto non essenziali ai fini della configurabilità della domanda e della conseguente operatività del dispositivo di semplificazione.

Resta impregiudicata in queste ipotesi la valutazione circa la stessa legittimità della richiesta di eventuali ulteriori requisiti in quando introdotti in possibile contrasto con il menzionato art. 29 della legge n. 241 del 1990, in materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato sui livelli essenziali delle prestazioni (che ricomprende anche la disciplina del silenzio assenso).

Analoghe considerazioni valgono per la diversa ipotesi in cui la richiesta di chiarimenti sia riferita ai requisiti essenziali di cui all’art. 20, comma 1, negli stretti limiti in cui si tratti di mere richieste di regolarizzazione o di precisazioni su fatti secondari e di dettaglio, riferiti alla documentazione progettuale depositata o alle dichiarazioni rese dal tecnico incaricato, limitatamente agli aspetti dichiarativi e rappresentativi che non incidano sulla possibilità di identificare con precisione le caratteristiche dell’intervento, quanto a tipologia, parametri edilizi e plano-volumetrici, asseverazione, requisiti soggettivi (legittimazione) ed oggettivi della domanda: anche in questo caso il potere di chiedere la regolarizzazione dovrà essere esercitato, a pena di decadenza, nel termine di legge e la carenza di tali elementi di dettaglio non impedirà la formazione del silenzio assenso.

Ne discende, in definitiva, che anche alla luce del più recente orientamento sull’inquadramento dogmatico e sistematico dell’istituto, la formazione del silenzio assenso deve, nel caso di specie, essere esclusa poiché i requisiti essenziali necessari, per legge, per la operatività del dispositivo di semplificazione, si sono perfezionati, quanto all’oggetto ed alle tavole di progetto, solo a decorrere dal 14 marzo 2022, con conseguente tempestività del diniego formalizzato il 20 maggio 2022.

Alla luce di quanto precede la motivazione del T.a.r. deve essere corretta ma il motivo va nondimeno dichiarato infondato.

Con il quarto motivo l’appellante ha dedotto: “Piena conformità del progetto: assenza di pareti finestrate. L’art. 9 del dm n. 1444 del 1968 si applica solo in presenza di due pareti. Violazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo di cui alla lett. b) - seconda parte - del ricorso di primo grado. Violazione dell’art. 88 cpa. Difetto ed erroneità della motivazione”.

Lamenta l’erroneità della sentenza del T.a.r. nella parte in cui ha concluso, al Capo 2.4, che “In definitiva, il terzo piano in rialzo viola la distanza minima di 10 metri rispetto all’edificio finestrato frontistante, ancorché più basso”. Argomenta circa la non applicabilità in fatto - e cioè in relazione alle caratteristiche degli edifici frontistanti - dell’art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968.

Assume che il T.a.r.:

- non avrebbe considerato che a fronte del terzo piano non c’è alcuna parete;

- non avrebbe considerato che, quand’anche ci fosse una parete, questa non è finestrata;

- non avrebbe considerato che neppure la parete del terzo piano è finestrata, perché il progetto prevede unicamente un’apertura lucifera.

Lamenta che non potrebbe trovare applicazione la normativa sulla distanza tra pareti finestrate allorché a una parete finestrata si contrapponga la falda del tetto del vicino, nella specie neppure finestrata.

Inoltre la parete del progettato terzo piano è cieca perché è prevista solo un’apertura "lucifera" (non una finestra) nel vano scala dal quale si accede al nuovo piano e l’art. 9 del DM del 1968 non si applicherebbe alle pareti prive di finestre e munite solo di luci.

Infine il T.a.r. avrebbe errato nel ritenere applicabile la normativa sulle distanze, in assenza della c.d. antistanza, vale a dire in assenza del fronteggiarsi di due pareti. Infatti, quand’anche il tetto dell’edificio del confinante costituisse una parete, come si è anticipato sopra, non si contrapporrebbe alla parete del progettato terzo piano del ricorrente in quanto l’edificio del vicino ha solo due piani. La parete del progettato terzo piano fronteggerebbe dunque il vuoto.

Il motivo è infondato.

Nel presente giudizio è contestata la violazione della distanza prevista dall’art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968 in relazione alla sopraelevazione di un piano, realizzata dalla società appellante, ed alla costruzione del vano ascensore, che hanno interessato un edificio adibito a civile abitazione posto in un sito dove sono presenti altri tre edifici, aventi sagoma similare, disposti a scacchiera, due dei quali confinanti e frontistanti, uno per lato (lato est e lato sud), rispetto a quello oggetto di causa.

È contestata dunque l’applicabilità della predetta disposizione in quanto l’appellante sostiene che, nel caso di specie, il terzo piano in sopraelevazione affaccerebbe sul tetto dell’immobile a confine e non su di una parete finestrata mentre il Comune allega che ricorrerebbe un’ipotesi di antistanza in presenza di parete finestrata sul lato a confine, anche se posta a quota inferiore.

Sul punto il Collegio, come si è detto, ha chiesto alle parti con ordinanza chiarimenti in fatto, che sono stati resi attraverso il deposito di documentazione fotografica e disegni esplicativi dai quali emerge in fatto che:

a) la violazione della distanza di 10 metri sussiste in fatto sia rispetto al lato “sud” (in misura variabile ma contenuta entro il metro) che “est” (in misura più significativa), sebbene il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, peraltro ivi collocando erroneamente anche l’ascensore che si trova invece pacificamente sul lato “est”.

Si legge infatti nel diniego impugnato che:

“ - la realizzazione dell’ascensore non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 dalla parete finestrata dell’edificio frontistante a sud;

- il terzo piano di nuova realizzazione, non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 verso il lato sud essendo presente un edificio finestrato;”.

Dopo l’approfondimento istruttorio si è dunque posta una questione preliminare di delimitazione dell’oggetto del giudizio atteso che anche il T.a.r. ha affrontato genericamente il tema della sopraelevazione del terzo piano, senza specificare il lato, laddove il provvedimento impugnato ha ravvisato la violazione limitatamente al lato sud, indicazione cui si è attenuto anche il Collegio nella richiesta di chiarimenti.

Senonché l’appellante sostiene essere pacifico che in realtà la violazione contestata sia limitata al lato est e che il riferimento al lato sud contenuto nel provvedimento impugnato sarebbe un errore materiale, come inequivocabilmente confermato dal fatto che l’ascensore è posizionato sul lato est e non sud, come invece indicato nel diniego.

Replica il Comune che la contestazione sarebbe invece riferita sia al lato sud, correttamente menzionato nel provvedimento impugnato, che al lato est, dove si trova pacificamente l’ascensore, dovendo il riferimento all’ascensore sul lato est (sebbene indicato come lato sud) intendersi esteso all’intera sopraelevazione, anche sul lato est, alla cui costruzione è funzionale la realizzazione dell’ascensore.

Non vi è dunque accordo tra le parti, dovendosi per l’appellante limitare la contestazione ad un solo lato, quello est, dove si trova inequivocabilmente l’ascensore, mentre per il Comune la violazione concerne entrambi i lati, oltre l’ascensore.

Stante il mancato accordo tra le parti, la questione deve essere risolta facendo applicazione dei criteri in materia di interpretazione degli atti amministrativi che, come noto, è mutuata da quella del codice civile in materia di contratti, limitatamente ai criteri c.d. oggettivi.

Muovendo dal dato letterale (ex art. 1362 c.c. non potendosi indagare in subiecta materia “la comune intenzione delle parti” che rappresenta un criterio di interpretazione di natura soggettivo) non è revocabile in dubbio che il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, non anche alla distanza sul lato est.

Sicuramente il riferimento alla violazione della distanza dell’ascensore rispetto alle pareti finestrate poste sul lato “sud” rappresenta un errore materiale in quanto l’ascensore è posizionato sul lato est (sicché va interpretato in chiave correttiva e conservativa, ex art. 1367 c.c.) ma da tale circostanza non può inferirsi che il diniego si fondi anche sulla violazione della distanza della sopraelevazione sul lato est, poiché trattasi di congettura non convincente in quanto la violazione della distanza da parte dell’ascensore non implica di necessità – secondo un ragionamento di tipo inferenziale - che analoga violazione sussista per la sopraelevazione sul lato dove è posto l’ascensore, il lato est per l’appunto.

Stando al tenore letterale del provvedimento deve dunque escludersi che sia stata contestata la violazione della distanza sul lato est, se non limitatamente all’ascensore. Resta invece ferma la contestazione della violazione sul lato sud, in tali termini espressamente mossa.

Quanto precede trova conferma nel tenore del preavviso di rigetto che reca le medesime contestazioni, tutte riferite al solo lato sud: pertanto anche gli atti anteriori (rilevanti, sebbene in chiave oggettiva, ex art. 1362, comma 2, c.c.) rispetto al provvedimento sono concordi con tale conclusione, fermo l’errore materiale relativo al posizionamento dell’ascensore, che è incontrovertibile.

Lo stesso criterio della interpretazione secondo buona fede in senso oggettivo (art. 1366 c.c.) non consente all’amministrazione di integrare in giudizio un profilo di contestazione non formalizzato in precedenza che, rispetto alle risultanze istruttorie (e allo stesso incontro del 26 ottobre 2021), risulta oggettivamente nuovo, sebbene, alla luce dello stato dei luoghi, la violazione appaia evidente ed anche maggiormente significativa rispetto al lato sud.

L’appellante lamenta di essersi sempre difesa in relazione allo stato dei luoghi sul lato est ma il Collegio, da un lato, non può che attenersi al tenore dell’atto impugnato e alle statuizioni del T.a.r., dovendosi necessariamente perimetrare in tal senso l’effetto devolutivo.

Definito l’oggetto del giudizio - anche in relazione al tema dei c.d. limiti oggettivi del giudicato – e chiarito che la violazione della distanza della sopraelevazione deve intendersi contestata solo rispetto al lato sud (sebbene in termini identici a quanto deducibile anche rispetto al lato est, di cui si dirà solo per completezza ed in termini di mero obiter), occorre dunque rispondere al quesito giuridico:

- se la disciplina di cui all’art. 9, comma 1, n. 2 della d.m. 1444 del 1968 si applichi ad una sopraelevazione che in proiezione orizzontale, su entrambi i lati (est e sud) incontra il “vuoto” (come dice l’appellante con espressione plastica), affacciandosi sui tetti delle abitazioni confinati, per essere le pareti finestrate antistanti poste ad una quota inferiore;

- se in simile fattispecie possa ritenersi sussistente il requisito della c.d. antistanza, parimenti contestato con il motivo di appello in esame, in ragione della assenza di pareti poste alla medesima quota della progettata sopraelevazione; a tale secondo quesito si ricollega il tema del criterio di misurazione della distanza tra edifici.

Ad entrambi i quesiti deve essere data risposta positiva tenuto conto dei consolidati principi della giurisprudenza amministrativa e civile, puntualmente richiamati dal T.a.r., che vengono di seguito riassunti nei seguenti termini:

- l’art. 9 del D.M. 1444/1968 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantisi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all’altro (Consiglio di Stato, sez. II – 19/10/2021 n. 7029, che richiama Corte di Cassazione, sez. II civile 1/10/2019 n. 24471);

- la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, così come la distanza prevista ex art 873 cc, deve essere misurata secondo il c.d. criterio lineare tracciando linee perpendicolari tra gli edifici (Consiglio di Stato sez. II, 10 luglio 2020, n.4465) e non radiale, e va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale (Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909; Cons. Stato n. 7731 del 2010, Cons. Stato n. 7004 del 2023), ciò a prescindere dalla specifica conformazione dell’edificio (pareti lineari o ricurve), sicché la norma trova applicazione anche tra immobili di altezza differente e a prescindere dall’andamento parallelo delle loro pareti (Consiglio di Stato, sez. IV – 14 febbraio 2022 n. 1056), ed è pacifico che la regola ex art. 9 comma 2 del D.M. sia applicabile anche alle sopraelevazioni (Consiglio di Stato, sez. IV - 27/10/2011 n. 5759). A tal proposito è stato chiarito che “laddove vi sia una modifica anche solo dell’altezza dell’edificio (come nel caso di specie) sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze, rispetto agli edifici contigui” e che “la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni”, dovendo essere rispettata anche in caso di recupero dei sottotetti (cfr. Cons. Stato, Sez II, 19/10/2021 n. 7029; nello stesso senso, ex multis, Cons. Stato Sez. II, 25/10/2019, n. 7289; 18/05/2021, n. 3883).

Non è dunque corretto il criterio di raffronto proposto dalla appellante, che per escludere l’antistanza prospetta un metodo di misurazione della distanza applicando il criterio lineare “per piani” e non rispetto alle intere facciate fronteggiantisi, che indubbiamente, nel caso di specie, si “incontrano” su entrambi i lati. Non si tiene conto che il suddetto criterio lineare si applica anche in caso di immobili di altezza differente e soprattutto non si considera che è irrilevante la circostanza per cui il fronte del piano sopraelevato affacci sopra un tetto, con o senza luci, poiché rispetto al piano sopraelevato, anche se privo di finestre, rileva piuttosto l’esistenza di una parete finestrata antistante, su entrambi i lati, anche se posta a quota inferiore, come può verificarsi pacificamente nel caso di specie e viene confermato dalla documentazione fotografica e dai grafici depositati dalle parti.

In generale va ribadito che trova applicazione il principio di diritto affermato da Cass. civ., sez. II, n. 2847 del 27 settembre 2022, correttamente richiamato dal Comune, secondo cui “L’obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dall’art. 9 d.m. 1444/1968, vale anche quando la finestra di una parete non fronteggi l’altra parete (per essere quest’ultima di altezza minore dell’altra), tranne che le due pareti aderiscano in basso l’una all’altra su tutto il fronte e per tutta l’altezza corrispondente, senza interstizi o intercapedini residui»”.

In tale sentenza la Corte di Cassazione ha chiarito infatti che “laddove la giurisprudenza di questa Corte applica l’art. 9 d.m. 1444/1968 e pretende il rispetto della distanza minima di 10 metri, pur in presenza di una parete con una finestra che si apre su uno spazio libero alla sua altezza (id est, che non fronteggia l’altra parete), al di sotto vi è una intercapedine, non già una costruzione in aderenza sul confine, come accade nel presente caso di specie. Vi sono ottime ragioni funzionali che così sia, giacché la disposizione non esige il rispetto di tale distanza minima in sé e per sé, bensì in funzione della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra fabbricati antistanti”.

È dunque la presenza di una intercapedine o comunque di uno spazio aperto tra gli edifici che giustifica la necessità di tutela della salubrità di affaccio, ovvero la ratio applicativa della disposizione in esame, condizione pacificamente ricorrente nel caso di specie (non anche, invero, nel precedente di questa Sezione n. 8527 del 2019 richiamato dall’appellante, che si riferisce ad un caso “limite” di due fabbricati comunque aderenti per un’altezza di cinque metri e che solo nel successivo sviluppo in verticale si discostavano (l’uno proseguendo in verticale l’altro con parete inclinata): in quella circostanza evidentemente non si è ritenuto che sussistesse una intercapedine tale da giustificare la necessità di tutela della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra i due edifici).

Il quadro dei richiamati pronunciamenti giurisprudenziali non muta alla luce del “principio di prevenzione”, evocato sempre dalla appellante, poiché nel caso di specie non viene in rilievo un problema di rispetto delle distanze “dal confine”, da coordinare e raccordare con l’art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. 1444 del 1968, sicché il precedente richiamato deve ritenersi inconferente.

Quanto al lato sud, per escludere la violazione delle distanze non rileva che la sopraelevazione presenti una rientranza di un metro per la presenza di un balcone perimetrale, con parapetto, che consentirebbe il rispetto della distanza, considerando che la distanza tra i due fabbricati preesistenti su quel lato non è inferiore in nessun punto a 9 ml.

È stato infatti chiarito (cfr. Cons. Stato, 4 ottobre 2021 n. 6613) che le distanze vanno misurate dalle sporgenze estreme dei fabbricati, dalle quali vanno escluse soltanto le parti ornamentali, di rifinitura ed accessorie di limitata entità e i cosiddetti sporti (cornicioni, lesene, mensole, grondaie e simili) che sono irrilevanti ai fini della determinazione dei distacchi. Sono rilevanti, invece, anche in virtù del fatto che essi costituiscono “costruzione” le parti aggettanti (quali scale, terrazze e corpi avanzati) anche se non corrispondenti a volumi abitativi coperti, ma che estendono ed ampliano, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade nel caso di specie.

Tale principio (su cui di recente si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 30 aprile 2024, n. 3941) deve ritenersi valido anche in presenza di balconi non aggettanti rispetto al perimetro esterno del fabbricato principale, nei casi in cui amplino comunque, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade appunto nella fattispecie per la progettata sopraelevazione.

Anche la giurisprudenza civile ritiene i balconi sempre computabili nel calcolo delle distanze; si richiama ad esempio Cass. civ., sez. II, 17 settembre 2021, n. 25191 la quale conferma l’orientamento per cui “In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché il D.M. 2 aprile 1968, art. 9, - applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica17 agosto 1942n. 1150, come modificata dalla L. 6 agosto 1967, n. 765 - stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (L. 6 agosto 1967 n. 765, che, con l'art. 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17 agosto 1942n. 1150 l'art. 41 quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M. 2 aprile 1968, che all'art. 9, n. 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10)” (cui adde Cassazione civile, sez. II, 29 gennaio 2018, n. 2093, Cassazione civile, sez. I, 10 agosto 2017, n. 19932, Cassazione civile, sez. II, 19 settembre 2016, n. 18282).

Il motivo deve, in conclusione, essere respinto.

Con il quinto motivo l’appellante deduce: “Violazione dell’art. 10, comma 2, della l.r. n. 24 del 2017 e dell’art. 8.6.1 del Pug di Cervia. Erronea interpretazione e applicazione. Riproposizione dei motivi aggiunti di impugnazione in primo grado. Violazione dell’art. 88 cpa. Difetto ed erroneità di motivazione”.

Contesta la erroneità della decisione del T.a.r. nella parte in cui ha ritenuto, in ogni caso, inapplicabile al caso di specie l’art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017, che consente di sopraelevare in deroga anche all’art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968.

Il motivo è infondato.

Le puntuali motivazioni addotte sul punto da T.a.r. resistono alle censure dell’appellante.

L’art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017 recita: “Gli eventuali incentivi volumetrici riconosciuti per l'intervento possono essere realizzati con la soprelevazione dell'edificio originario, anche in deroga agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, nonché con ampliamento fuori sagoma dell'edificio originario laddove siano comunque rispettate le distanze minime tra fabbricati di cui all'articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 o quelle dagli edifici antistanti preesistenti,

se inferiori”.

Il T.a.r., a sostegno della tesi della inapplicabilità della deroga regionale al caso di specie, ha richiamato uno specifico precedente di questa Sezione (16 ottobre 2020 n. 6282) che il Collegio intende confermare ed al quale fa rinvio quale precedente conforme ai sensi del c.p.a.

In sintesi deve ribadirsi che la deroga alle previsioni del più volte menzionato art. 9 presuppone comunque il rispetto di quanto previsto dall'art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque una previsione della medesima deroga all’interno della pianificazione generale di tutto il territorio o di ampie parti dello stesso, requisito nella specie insussistente, trattandosi di intervento puntuale non contemplato da atti di pianificazione generale.

L’appellante eccepisce che il menzionato art. 10, comma 2, non contempla alcun richiamo dell’art. 2 bis del d.P.R. n. 380 del 2001, su cui si basa la ratio decidendi del precedente di questa Sezione.

Senonché è sufficiente replicare che il richiamo è contenuto nel comma 1 dell’art. 10 di cui il comma 2 è attuazione, in una logica complessiva di sistema dove le deroghe alle distanze sono ammesse ad opera delle leggi regionali “nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.” (cfr. art. 2-bis, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001).

Peraltro il T.a.r. non ha mancato di evidenziare “l’ulteriore profilo della mancata indicazione dei bonus volumetrici dei quali la Società interessata avrebbe usufruito in base alle norme di piano (che debbono essere specifici e non genericamente ricollegati a un intervento di rigenerazione)”, tema non oggetto di contestazione con il motivo di appello in esame e comunque di per sé ostativo alla operatività della deroga in mancanza di prova circa l’impiego di bonus volumetrici ai fini della sopraelevazione.

Con il sesto motivo, infine, l’appellante deduce: “Piena conformità del progetto: l’ascensore non è costruzione ai fini delle distanze. Violazione della legge n. 13 del 1989. Violazione dell’art. 9 del dm n. 1444 del 1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo b) – prima parte - del ricorso in primo grado. Omessa pronuncia sulla illegittimità del diniego di permesso con riguardo alla realizzazione dell’ascensore. Violazione dell’art. 112 c.p.a. e comunque difetto ed erroneità della motivazione. Violazione art. 88 c.p.a.”.

Lamenta che il T.a.r. avrebbe omesso di decidere il motivo di impugnazione che si riferiva alla illegittimità del diniego nella parte in cui ha ritenuto che la realizzazione dell’ascensore non potesse essere autorizzata in quanto, anche in questo caso, sarebbero violate le distanze.

Trattandosi di atto plurimo e non plurimotivato il T.a.r. avrebbe dovuto esaminare il motivo di ricorso riferito specificamente alla inapplicabilità del regime delle distanze alla costruzione di un ascensore che nel caso di specie, – ed anche laddove non fosse possibile realizzare la sopraelevazione – resterebbe a servizio del primo e del secondo piano esistenti, qualora il motivo fosse ritenuto fondato.

Ha pertanto riproposto il motivo, sostanzialmente non esaminato dal T.a.r., e incentrato sulla non applicabilità della disciplina delle distanze ai volumi tecnici quale è l’ascensore.

Inoltre contesta la motivazione del diniego circa l’assenza nell’immobile di disabili certificati poiché a suo dire l’unità immobiliare dovrebbe essere accessibile anche da ospiti occasionali che siano disabili. L’ascensore infatti – a dire dell’appellante - elimina le barriere architettoniche anche a beneficio di coloro che, pur non essendo disabili, si trovino a non poter salire le scale per motivi transitori e contingenti (ad esempio, un infortunio), senza necessità di alcuna preventiva disabilità e relativa certificazione; dunque, l’ascensore garantisce, in via generale, la vivibilità e la visitabilità delle unità immobiliari da parte dei terzi e la relativa normativa di riferimento (Legge n. 13 del 1989) costituirebbe applicazione del c.d. principio solidaristico.

Il motivo è infondato.

Il Collegio è dell’avviso che il diniego impugnato non possa essere qualificato quale atto ad oggetto plurimo trattandosi di atto plurimotivato, con la conseguenza che la accertata legittimità del diniego per la parte riferita alla sopraelevazione priva l’appellante di interesse ad accertare la legittimità del motivo riferito alla violazione delle distanze tra pareti finestrate quanto alla realizzazione dell’ascensore.

Come noto l’atto è plurimo quando, nonostante la veste unitaria dal punto di vista formale, risulti scindibile in distinte ed autonome determinazioni, autonomamente lesive.

Nel caso di specie, invece, manca il requisito della scindibilità del contenuto dispositivo del diniego che si riferisce in realtà ad un intervento progettato e proposto come unitario, sicché nel rapporto tra la sopraelevazione, la ristrutturazione e l’inserimento dell’ascensore vale la regola simul stabunt simul cadent.

La disciplina derogatoria invocata dall’appellante concerne l’ipotesi dell’ascensore specificamente realizzato al fine di superare barriere architettoniche e non opera nella diversa ipotesi in cui l’impianto è al servizio dell’immobile in quanto la creazione di un terzo piano ne renda obbligatoria, per legge, la presenza, come accade nel caso di specie, trattandosi di un quarto livello fuori terra.

Il Collegio condivide, dunque, le deduzioni difensive del Comune venendo in rilievo non l’ipotesi di cui all’art. 79 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ammette la deroga in questione, ma quella ben distinta di cui all’art. 77, il cui comma 3 prevede che “La progettazione deve comunque prevedere:…d) l'installazione, nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per ogni scala principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini”.

Una volta impostato come struttura di servizio del terzo piano e di quelli sottostanti non può la parte convertirlo come intervento di superamento delle barriere architettoniche: questa è la ragione per cui il T.a.r. ha, di fatto, qualificato l’atto impugnato come non ad oggetto plurimo, ritenendo che la impossibilità di realizzare la sopraelevazione travolgesse anche la fattibilità dell’impianto di servizio che, in astratto, sarebbe invece assentibile come intervento autonomo, come sostiene l’appellante, qualora specificamente richiesto per le finalità di cui all’art. 79 del d.P.R. b. 380 del 2001.

Ma il progetto di intervento non fa riferimento alla finalità di superamento delle barriere architettoniche (nessuna allegazione di parte è in questo senso, in relazione alla documentazione a corredo del progetto) sicché correttamente il Comune non ha ritenuto la deroga applicabile al caso di specie, avendo valutato l’intervento unitariamente, con conseguente necessità del rispetto della distanza, nella specie pacificamente violata per quanto sopra osservato.

Non può la parte invocare un interesse all’annullamento parziale del diniego al fine di realizzare quanto meno l’ascensore, a servizio del primo e secondo piano, per le finalità di cui all’art. 79, in quanto l’impianto non è stato progettato con questa finalità, bensì al servizio di uno stabile di tre piani – quattro fuori terra – per il quale la legge prevede obbligatoriamente l’ascensore.

Dalla infondatezza del sesto motivo discende altresì la sopravvenuta improcedibilità dell’appello incidentale per difetto di interesse.

La particolarità e complessità della vicenda in fatto induce il Collegio a ritenere sussistenti giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese di lite del grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, così provvede:

- respinge l’appello principale;

- dichiara improcedibile l’appello incidentale:

- compensa le spese di lite del grado.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l’intervento dei magistrati:

Gerardo Mastrandrea, Presidente

Francesco Gambato Spisani, Consigliere

Silvia Martino, Consigliere

Luca Monteferrante, Consigliere, Estensore

Ofelia Fratamico, Consigliere