Cass. Sez. III n. 56678 del 17 dicembre 2018 (Ud 21 set 2018)
Pres. Cervadoro Est. Reynaud Ric. Iodice
Urbanistica.Titolo abilitativo illegittimo e responsabilità penale
Ai fini dell’integrazione dei reati di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001, fatta salva la necessità di ravvisare in capo all’agente il necessario elemento soggettivo quantomeno colposo, la contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste anche quando il titolo, pur apparentemente formato, sia (oltre che inefficace, inesistente o illecito) illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia sostanziale di fonte normativa o risultante dalla pianificazione; in tali casi, la "macroscopica illegittimità" del permesso di costruire non è condizione essenziale per la oggettiva configurabilità del reato, ma l'accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un significativo indice di riscontro dell'elemento soggettivo anche riguardo all'apprezzamento della colpa
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 14 maggio 2018, il Tribunale di Savona, in accoglimento della richiesta di riesame proposta dagli indagati, ha revocato il decreto di sequestro preventivo adottato dal pubblico ministero in via d’urgenza e convalidato dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Savona, relativo ad opere di cui si ipotizzava la realizzazione in assenza di permesso di costruire, con provvisoria contestazione del reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Savona, lamentando l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ed il vizio di contraddittorietà, manifesta illogicità e mancanza della motivazione.
In particolare, rilevando che trattasi di lavori eseguiti in zona sottoposta a tutela paesaggistica ambientale (in quanto ricadente, tra l’altro, nella fascia di 300 mt. dalla linea della battigia) ed in forza di permesso di costruire illegittimo perché rilasciato, per plurimi profili, in violazione dell’art. 338 r.d. 1265 del 1934 (Testo Unico Leggi Sanitarie) – come riconosciuto dallo stesso tribunale – il ricorrente lamenta che l’ordinanza impugnata abbia escluso la sussistenza del fumus del reato contestato sul rilievo che ai fini della norma incriminatrice ipotizzata il permesso di costruire illegittimo non possa essere equiparato a quello mancante.
Osservando come il tribunale, dando conto di due orientamenti della giurisprudenza di legittimità ritenuti contrastanti e dichiarando di condividere quello secondo cui, ai fini dell’integrazione del reato previsto dall’art. 44, comma 1, lett. b) o c), d.P.R. 380/2001, in caso di formale rilascio del titolo edilizio, potrebbe ritenersene l’assenza laddove esso sia (tra l’altro) affetto da macroscopica illegittimità tale da poter essere qualificato in termini di illiceità, non avrebbe in alcun modo motivato le ragioni per cui, nel caso di specie, non potrebbe essere ravvisata tale macroscopicità.
Rileva, inoltre, il ricorrente (sollecitando sul punto un pronunciamento definitivo della Corte di cassazione) che l’orientamento che l’ordinanza impugnata ha dichiarato di voler seguire è stato superato in altre, anche successive, sentenze di legittimità, secondo le quali il reato di costruzione sine titulo sarebbe ravvisabile in tutti i casi in cui il permesso di costruire formalmente rilasciato non sia conforme alla disciplina urbanistica ed a quella che regola il rilascio del provvedimento, sicché – laddove il vizio sia eclatante e significativo di una condotta quantomeno colposa, come avvenuto nel caso di specie alla stessa stregua delle argomentazioni contenute nell’ordinanza impugnata – non potrebbe disconoscersi la sussistenza del reato ipotizzato.
3. Con memoria pervenuta il 7 settembre 2018, la difesa degli indagati Iodice e Grosso ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso – o, in subordine, il rigetto dello stesso – sul rilievo che il medesimo non sarebbe stato proposto, in violazione dell’art. 325 cod. proc. pen., per violazione di legge, osservandosi come la motivazione dello stesso non sia in alcun modo mancante o meramente apparente e come la decisione sia comunque conforme alla legge. Nel caso di specie, secondo l’accertamento effettuato dal giudice di merito, il permesso di costruire sarebbe affetto da un mero vizio di illegittimità del procedimento amministrativo, senza che possa affermarsene l’inesistenza o l’illiceità, con conseguente impossibilità di ritenerne la mancanza, pena la violazione dei principi costituzionali di eguaglianza, stretta legalità e responsabilità personale in materia penale
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso – certamente ammissibile nella parte in cui deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale con riguardo alla ritenuta non configurabilità del fumus del reato urbanistico ipotizzato, oltre che con riguardo ad uno specifico, e rilevante, profilo di assoluta mancanza di motivazione – è fondato.
2. Secondo l’ordinanza impugnata – e si tratta di circostanze non contestate e ritenute nei medesimi termini dai competenti uffici comunali – l’intervento edilizio oggetto di procedimento, effettuato in zona pacificamente soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale, è qualificabile come nuova costruzione assoggettata a previo rilascio del permesso di costruire, trattandosi di demolizione e successiva ricostruzione di un preesistente fabbricato, con variazioni di sagoma, volumetria e sedime. Poiché il vecchio edificio si trovava altresì nella c.d. fascia di rispetto cimiteriale di cui all’art. 338 T.U.L.S., l’intervento si sarebbe potuto eseguire soltanto in forza di una valida deroga, che non è invece possibile ravvisare nella delibera adottata nel caso di specie dal Consiglio comunale. Ed invero – argomenta l’ordinanza impugnata, con motivazione effettiva e corretta applicazione di legge – da un lato, la deroga a realizzare opere entro i 200 metri dai cimiteri prevista dall’art. 338 T.U.L.S. è consentita solo per opere pubbliche o per interventi urbanistici che vadano a modificare una significativa porzione del tessuto urbanistico-edilizio, ciò che nella specie non è, trattandosi di realizzazione di un singolo edificio di proprietà privata; d’altro lato, l’opera ha comportato un’edificazione entro il limite di 50 metri dal cimitero, limite che è inderogabile anche in forza di una delibera consiliare comunale. Deve pertanto ritenersi – si legge nell’ordinanza impugnata – che «la deliberazione del Consiglio Comunale che ha autorizzato la deroga alla fascia di rispetto cimiteriale è illegittima e la sua invalidità si riverbera sulla legittimità del permesso di costruire».
2.1. Ciò premesso, l’ordinanza impugnata – distinguendo il caso in esame da quello della sindacabilità del titolo in sanatoria, in cui, trattandosi di verifica dei presupposti legali di una fattispecie estintiva del reato, non viene in rilievo il principio di tassatività della norma incriminatrice – osserva che nella giurisprudenza di legittimità sarebbe ravvisabile un contrasto di giurisprudenza, ancorché non espressamente dichiarato, sulla possibilità di ritenere il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) o c), d.P.R. 380 del 2001 nel caso (non di mancanza, ma) di mera illegittimità del permesso di costruire. In particolare, secondo un orientamento – da ultimo affermato nella sent. Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e aa., Rv. 263916 – l’illegittimità del titolo non sarebbe assimilabile alla mancanza se non nel caso di atto inesistente, adottato da un soggetto non legittimato, ovvero di vizio macroscopico tale da sconfinare il campo della mera illegittimità e sfociare in quello della illiceità. Secondo altro orientamento, tutti i profili di conformità del titolo rilasciato alla normativa di riferimento dovrebbero essere presi in considerazione dal giudice penale ai fini della valutazione della legittimità quale elemento normativo di fattispecie.
Optando per il primo indirizzo – ritenuto imposto dall’esigenza di scongiurare la violazione del principio costituzionale di tassatività e riserva di legge in materia penale – l’ordinanza impugnata ha osservato come nel caso di specie il permesso di costruire sia affetto da «violazioni certamente rilevanti, ma che rimangono certamente nell’alveo della mera illegittimità senza sconfinare nella inesistenza o nella illiceità (o criminosità) nel senso precisato dalla sentenza Cervino» e per questo ha escluso il fumus del reato ipotizzato e revocato il sequestro preventivo dell’immobile.
3. L’impostazione data dall’ordinanza impugnata alla soluzione del problema giuridico in esame – e la sua indubbia rilevanza rispetto all’applicazione del diritto penale urbanistico - impone al Collegio di condurre un’articolata analisi della giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto. Come si vedrà, il lungo percorso interpretativo – pur caratterizzato da iniziali, forti, incertezze e sviluppatosi in modo non sempre lineare anche in tempi più recenti – consente di trarre linee sufficientemente univoche per risolvere il tema, indubbiamente delicato e complesso, che il caso di specie pone, sì da poter giungere, come anche auspicato dal ricorrente, ad affermare conclusioni chiare. Sulla scorta di due risalenti decisioni assunte da questa Corte a sezioni unite, l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità ed i principi di diritto in materia possono dunque essere ricostruiti come segue.
Come noto, la questione del sindacato del giudice penale sul provvedimento amministrativo che rappresenti elemento costitutivo del reato urbanistico si è inizialmente posta con riguardo alla contravvenzione di costruzione in assenza di concessione edilizia, un tempo prevista dall’art. 17, lett. b, l. 28 gennaio 1977, n. 10 (c.d. legge Bucalossi), successivamente inserita nell’art. 20, primo comma, l. 28 febbraio 1985, n. 47 (c.d. legge sul condono edilizio) e poi confluita nell’art. 44, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (c.d. Testo Unico in materia Edilizia), che – tra l’altro - punisce oggi le attività di trasformazione del territorio eseguite in assenza di permesso di costruire. Se la giurisprudenza non ha mai avuto dubbi nel ritenere il reato di costruzione sine titulo punito ai sensi della lettera b della fattispecie incriminatrice (o della lettera c, se l’abuso ricada in zone vincolate) quando vi sia un titolo abilitativo inefficace (ad es., quando i lavori siano stati eseguiti una volta decorsi i termini di efficacia del permesso di costruire), vi sono effettivamente state iniziali incertezze su quale sorte il diritto penale riservi a chi costruisca in base ad un provvedimento amministrativo illegittimo.
Secondo la dogmatica amministrativistica, il provvedimento illegittimo – perché affetto da uno dei tradizionali vizi dell’atto (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) – è infatti efficace sino a che l’atto sia annullato ovvero disapplicato dal giudice ordinario. Nulla quaestio in ordine alla situazione di chi inizi o prosegua i lavori a seguito dell’annullamento del provvedimento, poiché costui incorre certamente nel reato di costruzione senza permesso al pari di chi effettui le medesime attività in forza di un titolo non più efficace (v. Sez. 3, sent. 20/02/1995, Scalia). Diverso, invece, è il problema della disapplicazione dell’atto – e, più in generale, della sindacabilità del titolo ritenuto illegittimo - da parte del giudice penale e delle conseguenze ai fini dell’integrazione dei reati urbanistici, La questione che sin da subito si pose riguardò l’equiparabilità tra assenza di concessione edilizia e illegittimità della stessa e la più risalente giurisprudenza l’affrontò – risolvendola, per lo più, in senso affermativo – facendo ricorso al potere di disapplicazione del provvedimento illegittimo attribuito al giudice ordinario dall’ art. 5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, c.d. L.A.C., Legge Abolitrice del Contenzioso amministrativo (v., ex multis: Sez. 3, n. 6909 del 23/03/1981, Volpicelli, Rv. 149752; Sez. 3, n. 1078 del 13/11/1984, dep. 1985, Del Favero, Rv. 167661). Non sembrando conforme ad equità ritenere responsabili del reato di costruzione abusiva coloro che avessero in buona fede richiesto ed ottenuto la concessione edilizia confidando nella legittimità dell’operato degli organi comunali e tenendo anche conto delle critiche mosse dalla maggioritaria dottrina, che vi ravvisava una violazione del principio di tassatività della legge penale, a tale rigoroso orientamento fu tuttavia ben presto apportato un importante correttivo: l'equiparazione della concessione illegittima all'assenza di concessione può considerarsi conforme al canone inviolabile di tassatività della fattispecie punitiva soltanto quando la illegittimità dell'atto amministrativo sia tale da eliminare radicalmente la sua attitudine a conseguire l'effetto per il quale è dato all'autorità competente la facoltà di emetterlo si che esso debba considerarsi giuridicamente "tamquam non esset" e privo dei caratteri necessari per essere assistito dalla presunzione della sua legittimità. Ciò si verifica quando la concessione sia frutto dell'attività criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la consegue o per concorso di entrambi (Sez. 3, n. 2168 del 10/01/1984, Tortorella, Rv. 163038).
Si arrivò così a distinguere l’ipotesi della mera illegittimità da quella della inesistenza per illiceità della concessione, affermandosi che soltanto in quest’ultimo caso sussiste responsabilità penale per il reato di costruzione senza titolo (Sez. 3, n. 1524 del 16/12/1985, dep. 1986, Furlan, Rv. 171926). I più recenti approdi della Corte di legittimità, tuttavia, lasciavano in ombra l’impostazione teorica dalla quale la giurisprudenza aveva preso le mosse, vale a dire la disapplicazione dell’atto amministrativo, giacché in questa prospettiva sarebbe stato piuttosto arduo distinguere tra concessione illegittima e concessione illecita. Di qui l’affermarsi dell’orientamento secondo cui il giudice penale non può disapplicare l’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 L.A.C., trattandosi di potere che l’autorità giudiziaria ordinaria potrebbe esercitare soltanto nel caso di atti che incidano negativamente su diritti soggettivi ai sensi del precedente art. 4 della stessa legge (Sez. 3, n. 576 del 13/03/1985, Meraviglia, Rv. 168424).
La conclusione trovò autorevole conferma da parte delle sezioni unite di questa Corte, le quali precisarono, da un lato che il giudice penale non ha, ai sensi degli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, il potere di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi che non comportano una lesione dei diritti soggettivi, ma rinnovano un ostacolo al loro libero Esercizio (nulla osta, autorizzazioni) o addirittura li costituiscono, a meno che tale potere non trovi fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa, ovvero, nell'ambito dell'interpretazione della norma penale qualora l'illegittimità dell'atto amministrativo si presenti essa stessa come elemento essenziale della fattispecie criminosa (Sez. U, n. 3 del 31/01/1987, Giordano, Rv. 176304). D’altro lato, si affermò il reato di costruzione in mancanza di concessione edilizia non è configurabile nel caso che la concessione rilasciata prima dello inizio dei lavori sia illegittima, vertendosi invece in ipotesi di assenza dell'atto non solo quando l'atto in questione sia stato emesso da organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del soggetto privato che lo consegue e, quindi non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri (Sez. U, n. 3 del 31/01/1987, Giordano, Rv. 175115).
Negli anni immediatamente successivi alla pronuncia della Corte a sezioni unite nel caso Giordano, la giurisprudenza per lo più ne recepì l’insegnamento, sia quanto all’impossibilità per il giudice penale di utilizzare il meccanismo di disapplicazione degli atti amministrativi previsto dalla legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo (Sez. 3, n. 9039 del 31/05/1988, Patroni, Rv. 179108, massimata su altro punto; Sez. 3, n. 13691 del 13/06/1990, Di Felice, Rv. 185527) sia, soprattutto, quanto all’equiparazione della concessione illecita all’ipotesi di assenza del titolo (Sez. 3, 20/09/1988, Dalla Negra; Sez. 6, n. 3392 del 08/11/1988, dep. 1989, Borgogno, Rv. 180693). La decisione delle sezioni unite non apparve invece convincente, e suscitò le immediate reazioni della dottrina e della giurisprudenza, con riguardo all’individuazione dell’oggetto della tutela penale delle disposizioni che prevedono i reati urbanistici, ricostruito nella sentenza Giordano come meramente “formale”. Nella motivazione si era affermato, di fatti, che l’interesse tutelato dall’incriminazione di costruzione abusiva «è quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo della pubblica amministrazione, con conseguente imposizione, a chi voglia edificare, dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione amministrativa» (Sez. U., n. 3 del 31/01/1987, Giordano).
Nell’economia del ragionamento svolto dalla Corte il rilievo era importante – e lo è anche ai fini della decisione del presente ricorso, tenendo conto delle osservazioni contenute nel’ordinanza impugnata – perché le sezioni unite rilevarono che, pur non potendo ricorrere alla disapplicazione, in determinati casi il giudice penale potrebbe comunque conoscere della legittimità dell’atto amministrativo che costituisca oggetto della fattispecie incriminatrice se tale potere trovi «fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa (come, ad esempio, avviene con il disposto dell’art. 650 c.p.), ovvero, nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora la illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Ne deriva, pertanto, che nel caso in esame, in tanto potrebbe ritenersi valida la (effettuata) equiparazione tra “mancanza di concessione” e “concessione illegittimamente rilasciata”, in quanto fosse possibile ritenere la disposizione di cui al citato art. 17, lett. b), l. 28.1.1977 n. 10 (ora art. 20, lett. b l. 28.2.1985 n. 47) sia funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività edilizia. Ma una simile opinione certamente non può essere condivisa» (Sez. U., n. 3 del 31/01/1987, Giordano, in motivazione).
Quest’ultima, radicale, negazione, apparve subito insostenibile, in particolare, alla luce del nuovo quadro normativo delineato dalla l. n. 47 del 1985 e il suggello alla c.d. “concezione sostanziale” dell’interesse protetto dai reati urbanistici fu poi posto da una successiva decisione delle sezioni unite, che, pur esaminando la fattispecie di cui all’art. 20, primo comma, lett. a, l. 47/1985, spese argomentazioni – e raggiunse conclusioni – valide per tutte le ipotesi di reato contenute nella disposizione incriminatrice e che conservano tutt’oggi la loro indubbia attualità. In particolare, in quell’occasione si osservò che se l’impianto risultante dalla legge urbanistica fondamentale, la l. 17 agosto 1942, n. 1150, consentiva d’individuare l’oggetto della tutela penale nel “bene strumentale” del controllo e della disciplina degli usi del territorio, la configurazione normativa dell’interesse tutelato era venuta a mutare nel tempo e aveva segnato una vera e propria svolta con la c.d. legge sul condono edilizio n. 47 del 1985. L’analisi dell’evoluzione normativa – conclusero le sezioni unite, facendo un’affermazione che ancora oggi costituisce un imprescindibile principio-guida per l’interprete del diritto penale urbanistico – rende «evidente che, se l’urbanistica disciplina l’attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, lo stesso territorio costituisce il bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente» (Cass. Sez. U., n. 11635 del 12/11/1993, Borgia, in motivazione).
4. A seguito della sentenza Borgia può oggi dirsi comunemente accettato – e va qui certamente ribadito - che il bene tutelato dalle norme incriminatrici è la salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga e aa., Rv. 273218; Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Tantillo e a., Rv. 234469). Questa considerazione – unita alla premessa contenuta nella sentenza Giordano circa l’interpretazione teleologica che deve sorreggere le norme penali tra i cui elementi costitutivi figuri la mancanza di un provvedimento amministrativo idoneo a rendere lecita un’attività – ha quindi mosso larga parte della successiva giurisprudenza a ritenere sussistente il reato di cui all’art. 20, primo comma, lett. b, l. 47/1985 (oggi art. 44, comma 1, lett. b, d.P.R. 380/2001) quando l’atto abilitativo sia (non solo inesistente o frutto di conclamata attività illecita, ma) anche soltanto macroscopicamente illegittimo.
Secondo questa linea interpretativa, si legge nella motivazione di alcune decisioni che richiamano testualmente un passaggio della sentenza Borgia, «nell’ipotesi in cui si edifichi con concessione edilizia illegittima, non si discute più di disapplicazione di un atto amministrativo illegittimo e dei relativi poteri del giudice penale, ma di potere accertativo di detto magistrato dinanzi ad un atto amministrativo che costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato. In tale ipotesi l’esame deve riguardare non l’esistenza ontologica dello stesso, ma l’integrazione o meno della fattispecie penale “in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie l’interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extrapenale…convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo” (Sez. un., 21 dicembre 1993)» (Sez. 3, n. 1756 del 12/05/1995, Di Pasquale, Rv. 202077; Sez. 6, n. 3396 del 02/03/1998, Calisse e aa., Rv. 210325).
Anche a seguito della parziale declaratoria d’illegittimità costituzionale che, con la sent. Corte cost. n. 364 del 1988, ha interessato l’art. 5 cod. pen., è sul terreno della verifica della colpevolezza che l’interpretazione in parola può trovare un ragionevole contemperamento con i principi costituzionali in materia penale, sicché, come si precisa nella motivazione di altra pronuncia, «la concessione integra un elemento normativo materiale e deve essere sottoposta ad accertamento di legalità, pur se nell’ambito della rilevanza psicologica, che limita alla sola macroscopicità dell’illecito la sua punibilità. In parole povere il giudice può eseguire la verifica della legittimità dell’atto, restringendo il magistero repressivo al solo caso in cui questa illegittimità risulti in modo eclatante e sia tale da non sfuggire ad un soggetto normalmente informato a livelli minimi di conoscenza normativa» (Sez. 3, n. 11988 del 28/10/1997, Controzzi e aa., Rv. 209194; in termini, Sez. 3, n. 2906 del 28/11/1997, dep. 1998, Bortoluzzi, Rv. 210460).
5. Dopo la sentenza Borgia, l’orientamento di cui si è dato conto si è certamente affermato come maggioritario nella giurisprudenza di questa Corte, ma è stato talvolta contrastato da pronunce di opposto segno, che, da un lato, hanno rilevato come la tesi che esclude rilevanza ad un atto amministrativo macroscopicamente illegittimo desti forti perplessità - «considerata la indeterminatezza del concetto di macroscopicità, che confligge col principio di legalità e tassatività dei reati» (Sez. 3, n. 54 del 11/01/1996, Ciaburri, Rv. 204622, non massimata sul punto) – e, d’altro lato, in maniera ancor più radicale, hanno osservato che «resta tuttora non apprezzabilmente contraddetto, e va pertanto seguito, il principio affermato dalle Sezioni unite con sentenza 31 gennaio 1987, ric. Giordano, secondo cui il reato di costruzione in assenza di concessione non è configurabile quando, come nella specie ritenuto, la concessione rilasciata prima dell’inizio dei lavori sia soltanto illegittima e, beninteso, non illecita» (Sez. 3, n. 3459 del 23/12/1994, dep. 1995, De Nobili, Rv. 201225; nello stesso senso, sia pure in relazione a meri vizi del procedimento, Sez. 6, n. 2378 del 27/06/1995, Barillaro, Rv. 202581).
L’unica conclusione che non ha più formato oggetto di controversia e che può dirsi da tempo unanimemente accettata è quella secondo cui sono punibili ai sensi dell’ipotesi di cui all’art. 20, primo comma, lett. b, l. 47/1985 (ora art. 44, comma 1, lett. b, TUE) – ovvero ai sensi della lettera c della fattispecie incriminatrice, qualora l’abuso ricada in zona vincolata - le condotte di edificazione in presenza di titolo giuridicamente inesistente o illecito (Sez. 3, n. 1708 del 13/11/2002, dep. 2003, Pezzella, Rv. 223475; Sez. 3, n. 23230 del 22/04/2004, Verdelocco, Rv. 229438; Sez. 3, 20/09/2004, Scacchi; Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269345; Sez. 4, n. 38610 del 20/07/2017, Comune di Sperlonga e a., Rv. 270931). Secondo un orientamento – che sembra tuttavia voler ricondurre l’ipotesi del provvedimento illegittimo per vizio macroscopico a quella, più tranquillizzante, del provvedimento illecito - non sarebbe neppure necessario accertare la sussistenza di un reato lato sensu collusivo tra privato che richiede il permesso e funzionario pubblico che lo rilascia, potendo l’illiceità desumersi dal grave contrasto tra l’atto adottato e la sua disciplina di riferimento: in materia edilizia deve ritenersi inesistente la concessione edilizia non riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, in quanto frutto dell'attività criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la ottiene, e per la sua disapplicazione non è necessaria la prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o l'accertamento dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli amministratori, sempre che risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente grave da determinare non la mera illegittimità dell'atto, ma la illiceità del medesimo e la sua nullità» (Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter e aa., Rv. 226576).
6. L’analisi della giurisprudenza di legittimità mostra peraltro come tra le due opposte tesi emerse negli anni ’90 di cui si è dato conto ne sia stata elaborata una in qualche modo “intermedia”, nel senso che, per un verso, mira ad escludere qualsivoglia perplessità circa il rispetto del principio di tassatività nell’applicazione del reato di costruzione in assenza di titolo e, per altro verso, realizza comunque l’obiettivo di interpretare le fattispecie incriminatrici urbanistiche nell’ottica della tutela dell’interesse sostanziale protetto: salva la valutazione della sussistenza, in concreto, dell’elemento soggettivo, anche in relazione alla “macroscopicità” del vizio, nel caso di lavori effettuati in forza di un provvedimento affetto da mera illegittimità per contrasto con la normativa urbanistica s’incorrerebbe nel reato previsto dalla lett. a della citata disposizione incriminatrice. L’orientamento - inaugurato da Sez. 3, n. 5089 del 15/03/1982, Basso, Rv. 153741 e poi ribadito, in particolare, da Sez. 3, n. 2168 del 10/01/1984, Tortorella, Rv. 163040, pur non del tutto correttamente massimata - è stato particolarmente approfondito da Sez. 3, 24/06/1992, Palmieri, n.m., e ha trovato nuova linfa nella decisione presa dalle sezioni unite nel caso Borgia, la quale, pur non approfondendo ex professo il tema della fattispecie incriminatrice applicabile, ha tuttavia legittimato, nel giudizio sottoposto al suo esame, la configurabilità dell’ipotesi prevista nell’art. 20, primo comma, lett. a, l. 47/1985. Non a caso tale autorevole decisione è richiamata come precedente in successive pronunce che, in situazioni simili, hanno ritenuto la sussistenza della meno grave ipotesi di reato (v. Sez. 3, n. 7310 del 12/06/1996, Venè e aa., Rv. 206028; Sez. 3, n. 2906 del 28/11/1997, dep. 1998, Bortoluzzi, Rv. 210460), mentre altre decisioni, pur affermando l’illiceità della costruzione avvenuta con permesso illegittimo, non hanno preso posizione sulla fattispecie di reato integrata (v., in materia cautelare, Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Tantillo e a., Rv. 234469).
7. In tempi più recenti, questa Corte ha affrontato diffusamente il tema nell’ambito di una pronuncia resa in materia di giudizio sulla contestata legittimità del sequestro preventivo dell’immobile costruito in forza di un permesso ritenuto illegittimo (in questo caso perché rilasciato senza nulla osta idrogeologico e autorizzazione paesaggistica in area ritenuta boscata). La pronuncia - citata come precedente dall’ordinanza qui impugnata ed alla quale quest’ultima ha dichiarato di aderire - ha incidentalmente disatteso, dichiarandola manifestamente infondata, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 d.P.R. 380/2001 interpretato nel senso dell’equiparazione tra costruzione senza permesso e costruzione in forza di permesso illegittimo (era stata dedotta la violazione degli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, primo comma, Cost. per irrazionale equiparazione di situazioni diverse, violazione del principio di stretta legalità penale, violazione del principio di necessaria colpevolezza per l’applicazione di sanzioni penali). Ripercorrendo le principali tappe giurisprudenziali della dibattuta questione, la decisione afferma alcuni principi da cui è stata tratta la massima che segue: «ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nelle lettere b) e c) dell'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non possono ritenersi realizzate in "assenza" di permesso di costruire le opere eseguite sulla base di un provvedimento abilitativo meramente illegittimo, ma non illecito o viziato da illegittimità macrocospica tale da potersi ritenere sostanzialmente mancante. (In motivazione la Corte ha evidenziato che tale soluzione esclude sia una irragionevole equiparazione interpretativa "in malam partem" tra mancanza "ab origine" dell'atto concessorio e illegittimità dello stesso accertata "ex post", sia la violazione del principio della responsabilità penale per fatto proprio colpevole)» (Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e aa ., Rv. 263916).
L’articolata motivazione, richiamando i precedenti della giurisprudenza di legittimità in materia e muovendo dai rilievi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata, li disattende nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata e contiene diverse affermazioni di principio che possono essere così sintetizzate:
a) i dubbi di legittimità costituzionale sollevati con riguardo alla tesi interpretativa che, ai fini di cui si discute, equipara il provvedimento illegittimo a quello mancante sono in particolare fugati dalla necessità di verificare in concreto la sussistenza del reato anche con riguardo all’elemento soggettivo;
b) le contravvenzioni urbanistiche tutelano il bene del territorio in conformità alla pianificazione urbanistica e il giudice penale, pur non potendo procedere alla disapplicazione del provvedimento amministrativo, può effettuarne lo scrutinio di legittimità quando esso costituisce elemento oggettivo della norma incriminatrice;
c) il provvedimento va ritenuto mancante (e cioè nullo o inesistente e non solo illegittimo) quando provenga da soggetto in assoluto non titolare del potere di emetterlo, ovvero sia privo dei requisiti essenziali di forma e contenuto;
d) il provvedimento illecito, perché frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del privato che lo ottiene, è sempre tamquam non esset e va parificato al provvedimento mancante;
e) pur quando non vi è prova della collusione, tanto che non viene neppure iniziata l’azione penale per altri reati, la macroscopica illegittimità del provvedimento può peraltro indurre a qualificare l’atto in termini di illiceità;
f) il provvedimento non è mai mancante e non origina responsabilità penale quando sia illegittimo perché affetto soltanto da un vizio procedurale;
g) nel caso di contrasto con le previsioni urbanistiche potrebbe anche ravvisarsi l’illecito di cui alla lett. a) della norma incriminatrice, purché la difformità sia grossolana.
Come si vede, da un lato, la decisione riafferma e puntualizza principi già emersi dall’elaborazione giurisprudenziale di cui più sopra si è dato conto e, d’altro lato – sul piano della individuazione del reato applicabile – lascia uno spazio residuale alla tesi che più sopra si è definita “intermedia”, secondo cui, in caso di difformità del permesso dalla previsioni urbanistiche e regolamentari, potrebbe ravvisarsi anche la meno grave contravvenzione di cui alla lett. a) della norma incriminatrice, mentre le più gravi ipotesi di cui alle lettt. b) e c) dovrebbero ritenersi soltanto in caso di radicale inesistenza o illiceità del permesso. Il più marcato profilo di novità della decisione – che non a caso ha orientato i redattori nel ricavare la massima sopra riportata e che non è tuttavia inedito nel panorama giurisprudenziale (il riferimento è a Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter e aa., Rv. 226576) – appare essere quello secondo cui, ai fini in parola, sarebbe tuttavia possibile ritenere l’illiceità, in via, per così dire, “presuntiva”, dalla macroscopicità del profilo di illegittimità.
8. I profili problematici in esame non risultano essere stati maggiormente approfonditi in recenti decisioni di legittimità, che pure si sono decisamente orientate nel senso che non scrimina dal reato urbanistico il solo fatto di aver realizzato l’opera in forza di un titolo abilitativo illegittimo per contrasto con la normativa urbanistico-edilizia sostanziale: in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, Torzini, Rv. 266291, relativa ad una sopraelevazione eseguita in forza di una denuncia d’inizio attività incompatibile con le previsioni regolamentari sulle distanze rispetto al fabbricato insistente sul fondo limitrofo; Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sorini, Rv. 256971). La conclusione circa l’irrilevanza di un provvedimento amministrativo illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-normativa al fine di escludere il reato, peraltro, è di regola affermata, correttamente, anche in relazione alla distinta fattispecie di lottizzazione abusiva (v. Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e a., Rv. 270644; Sez. 3, n. 40425 del 28/09/2006, Consiglio, Rv. 237038), ma con riguardo ad essa non si pone il problema di legalità qui discusso, poiché la descrizione normativa della lottizzazione c.d. materiale – che delinea un reato a consumazione alternativa (v., per tutte, Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini, Rv. 220708) – considera ugualmente illecite l’inizio dell’esecuzione di «opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali» e quelle «senza autorizzazione» (art. 30, comma 1, prima parte, d.P.R. 380 del 2001; non considera il dettato normativo in parola, e non può dunque condividersi, il diverso orientamento di recente seguito da Sez. 4, n. 38610 del 20/07/2017, Comune di Sperlonga e a., Rv. 270931). Allo stesso modo, è consolidato l’orientamento secondo cui, al fine di escludere gli effetti estintivi del reato urbanistico previsti dall’art. 45, comma 3, d.P.R. 380/2001, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la sua conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l'eventuale "disapplicazione" dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga e aa., Rv. 273218; Sez. 3, n. 12389 del 21/02/2017, Minosi, Rv. 271170; Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015, Faiola, Rv. 265034). Anche queste ultime fattispecie afferiscono, tuttavia, ad una situazione indubbiamente differente rispetto a quello di cui si è sin qui discusso, non venendo in rilievo il tema del rispetto dei principi costituzionali sulla responsabilità penale, come esattamente si osserva nell’ordinanza impugnata.
Tra le decisioni in parola va comunque qui richiamata la citata sent. Minosi, n. 12389/2017, che – ripercorrendo le tappe fondamentali dei percorsi seguiti in materia da questa Corte e, pur senza soffermarsi ex professo sul reato ravvisabile (che sembra comunque individuare in quello di costruzione sine titulo) - ha chiaramente riaffermato il principio del potere-dovere del giudice penale di sindacare la legittimità del permesso di costruire rilasciato ai fini di verificare la sussistenza dell’illecito urbanistico, espressamente rilevando come la citata sentenza Cervino non si fosse discostata dal consolidato orientamento giurisprudenziale, di cui si dà conto con ampi richiami. Nella motivazione della decisione emessa nel caso Minosi – che sostanzialmente esclude un contrasto nella giurisprudenza di legittimità - si legge che nella sentenza Cervino «si è voluto escludere ogni automatismo tra mera illegittimità del titolo abilitativo e sussistenza del reato urbanistico», sembrando in particolare alludersi all’irrilevanza, ai fini di cui si discute, da un lato, dei meri vizi procedurali che non ridondino in violazione sostanziale e, d’altro lato, a condotte non sorrette dal necessario elemento psicologico quantomeno colposo, ribadendosi invece che, «nell’individuare quelle situazioni di illegittimità che rendono l’atto abilitativo improduttivo di validi effetti, non può che farsi riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, che l’art. 12 del D.P.R. 380/01 individua, tra l’altro, nella conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Ne consegue che, in disparte l’ipotesi dell’illiceità del provvedimento, la illegittimità rilevante per il giudice penale non può che essere quella derivante dalla non conformità del titolo abilitativo alla normativa che ne regola l’emanazione o alle disposizioni normative di settore, dovendosi, al contrario, radicalmente escludere la possibilità che il mero dato formale dell’esistenza del permesso di costruire possa precludere al giudice penale ogni valutazione in ordine alla sussistenza del reato» (Sez. 3, n. 12389 del 21/02/2017, Minosi, in motivazione).
9. Quest’ultima, chiara, affermazione – reputa il Collegio – va certamente condivisa, poiché risponde all’ineludibile compito interpretativo che nelle citate sentenze Giordano e Borgia le sezioni unite hanno affidato al giudice penale, vale a dire di interpretare ed applicare la disposizione incriminatrice in funzione della tutela dell’interesse penalmente protetto, non potendosi ravvisare violazione del principio di tassatività laddove il provvedimento amministrativo, pur formalmente rilasciato, sia irrimediabilmente viziato per contrasto con il modello legale, tale da risolversi in una mera apparenza.
In particolare, i confini dell’indagine sulla legittimità dell’atto amministrativo nell’ottica di quell’interpretazione teleologica delle fattispecie incriminatrici in materia urbanistica di cui si è detto sono delineati dal fondamentale principio contenuto nella disposizione generale secondo cui il permesso di costruire deve essere rilasciato «in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente» (art. 12, comma 1, d.P.R. 380/2001), ribadito in termini ancor più estesi – quanto alla doverosa osservanza della disciplina normativa di fonte primaria e secondaria – dall’articolo successivo («il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici»: art. 13, comma 1, d.P.R. 380/2001). Allo stesso modo, pure gli interventi eseguiti con s.c.i.a., quelli assoggettati a c.i.l.a. e quelli riconducibili alle attività di edilizia libera postulano la conformità delle opere alla pianificazione urbanistica ed alla disciplina normativa (v. artt. 22, comma 1, e 23, comma 1, 6 bis, comma 1, 6, comma 1, d.P.R. 380/2001). La conformità degli interventi di trasformazione del territorio alla disciplina urbanistico-sostanziale, dunque, è il leitmotiv che permea – e caratterizza – la legislazione urbanistica, sicché da essa non può prescindere il giudice penale nel doveroso compito di interpretare ed applicare le fattispecie incriminatrici.
Deve ritenersi, pertanto, che è sul presupposto della conformità del titolo edilizio al modello legale di riferimento che si giustifica la previsione incriminatrice di costruzione sine titulo (od in totale diforrmità) contenuta nell’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001 (richiamate dal comma 2 bis della disposizione quanto agli interventi realizzati in assenza di s.c.i.a. alternativa al permesso). Sarebbe, di fatti, manifestamene irragionevole – e contrastante con la complessiva ratio del sistema – sanzionare chi, pur non avendo richiesto il necessario permesso di costruire, edifichi in conformità alla disciplina urbanistico-edilizia sostanziale e considerare invece penalmente irrilevante la condotta di chi, pur munito di titolo illegittimamente rilasciato, quella disciplina violi con condotta dolosa o gravemente colposa, realizzando interventi non consentiti dalle previsioni normative o contenute negli strumenti urbanistici. Se la prima conseguenza può essere evitata dal soggetto agente che, pur avendo modificato il territorio sottraendosi al controllo dell’amministrazione, sani la violazione formale ottenendo, con il pagamento della prevista oblazione, l’accertamento di conformità secondo il modello legale contenuto nell’art. 36 d.P.R. 380/2001, che comporta l’estinzione del reato a norma del successivo art. 45, comma 3, la seconda – paradossale – conseguenza può essere scongiurata dall’interpretazione che impedisce di attribuire rilevanza ad un provvedimento adottato in spregio alla legge (per questa argomentazione, e per ulteriori, del tutto condivisibili, approfondimenti, v., di recente, Sez. 3, n. 49687 del 07/06/2018, Bruno e a., ad oggi non massimata, che afferma nitidamente le medesime conclusioni qui raggiunte).
Una diversa conclusione si porrebbe sostanzialmente in contrasto con l’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte quale più sopra richiamata e con la linea – faticosamente, ma chiaramente tracciata - fondata sul principio secondo il quale il reato di lavori eseguiti in assenza di permesso (o di equipollente s.c.i.a.: art. 44, comma 2-bis, d.P.R. 380/2001) tutela non già la funzione di controllo riservata alla pubblica amministrazione, ma l’esigenza di impedire trasformazioni del territorio in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia. Detto in altre parole, si punisce chi costruisce senza aver previamente ottenuto il permesso (o aver formalizzato l’equipollente s.c.i.a.) perché in questo modo non è stato consentito all’autorità pubblica preposta di effettuare i necessari controlli finalizzati ad evitare che le attività di trasformazione effettuate dai privati possano porsi in contrasto con l’ordinato sviluppo del territorio, quale definito dalle norme di legge e pianificato dall’amministrazione nel rispetto delle stesse. Se, tuttavia, quel controllo è stato sin dall’inizio impedito con condotte criminose fraudolente (si pensi alla c.d. truffa edilizia) o collusive, oppure è stato soltanto apparentemente esercitato da un soggetto non funzionalmente competente o con un atto assunto in palese violazione della disciplina urbanistico-edilizia, l’interpretazione teleologica porta a ritenere che esso sia in radice mancato e che il provvedimento rilasciato (o la segnalazione certificata presentata) sia un titolo meramente apparente ed ictu oculi improduttivo d’effetti.
10. Del resto, la tecnica utilizzata nel reato urbanistico previsto alle lettere b e c della fattispecie incriminatrice – che, come detto, risale alla legislazione del 1985 e, in parte, ancor prima a quella del 1977 – è nata in un contesto in cui il titolo abilitativo necessario per realizzare gli interventi di modificazione del territorio era sempre un provvedimento preventivo ed espresso della pubblica amministrazione. Questo sistema, com’è noto, ha subito profonde modifiche, sia per gli effetti di equipollenza rispetto al provvedimento in taluni casi riconosciuti alle mere denunce edificatorie fatte da privati a partire dagli anni ’90 del secolo scorso (prima la c.d. “super-d.i.a.”, poi la d.i.a. o s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire), sia per le “novelle” che in tempi recenti hanno interessato il procedimento per rilascio del permesso di costruire delineato dall’art. 20 d.P.R. 380 del 2001 (il cui testo originario è stato sostituito dall’art. 5, comma 2, lett. a, n. 2, d.l. 13 maggio 2001, n. 70, conv., con modiff., in l. 12 luglio 2011 n. 106, e quindi ripetutamente modificato da successivi provvedimenti normativi: d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modiff., in l. 7 agosto 2012, n. 134; d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv., con modiff., in l. 9 agosto 2013, n. 98; d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., in l. 11 novembre 2014, n. 164; l. 28 dicembre 2015, n. 221; d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127; d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222).
In un sistema, come quello attuale, che, da un lato, consente di iniziare i lavori dopo 30 giorni dalla presentazione dalla s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire se non intervenga un ordine motivato di non effettuare l’intervento (cfr. art. 23, comma 6, d.P.R. 380/2001) e che, d’altro lato, codifica il principio secondo cui (salvo che nelle zone vincolate) l’inerzia degli uffici comunali sull’istanza di rilascio del permesso di costruire – inerzia magari giustificata dall’inefficienza, dovuta anche all’endemica carenza di personale – equivale a rilascio del provvedimento “tacito” per silenzio-assenso (v., in particolare, art. 20, comma 8, d.P.R. 380/2001), il perfezionamento dell’iter amministrativo che conduce alla formazione del titolo non assicura che vi sia effettivamente stata quell’attività di controllo funzionale alla tutela dell’interesse sostanziale protetto che aveva evidentemente a suo tempo ispirato la formulazione della norma incriminatrice. E’ ben vero che – in conformità a quanto previsto per la s.c.i.a. (v. artt. 23, comma 1, e 29, comma 3, d.P.R. 380/2001) e diversamente dall’originaria disciplina dell’iter procedurale del permesso di costruire - è stata rafforzata, con la previsione del nuovo delitto di falso ideologico di cui all’art. 20, comma 13, d.P.R. 380/2001, l’autoresponsabilità del privato, sanzionandosi la falsa attestazione, da parte di un soggetto professionalmente abilitato, di conformità del progetto (tra l’altro) «agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie» (art. 20, comma 1, TUE). Tenendo anche conto del fatto che il delitto è punito soltanto a titolo di dolo e che l’interpretazione della disciplina urbanistica non è sempre agevole, ciò tuttavia non basta ad inficiare la più generale conclusione secondo cui il perfezionamento tacito del necessario titolo giuridico non garantisce che sia stata ragionevolmente accertata la conformità dell’opera alla normativa urbanistico-edilizia sostanziale.
Valorizzando, dunque, la necessità di dare alle norme incriminatrici un’interpretazione teleologicamente orientata in funzione del bene penalmente protetto e quella di giungere a conclusioni uniformi e razionali a prescindere dall’iter amministrativo prescelto e/o in concreto perfezionatosi, s’impone – oggi più che in passato – la delineata lettura della norma incriminatrice, dovendosi riconoscere al giudice penale il potere-dovere di valutare la conformità al modello legale del titolo edilizio (apparentemente) formatosi in relazione ad un’attività di trasformazione del suolo per poter affermare che questa si sia svolta in forza del necessario presupposto di legalità sostanziale.
11. La macroscopicità del vizio che connota il titolo apparentemente formatosi, come si è visto spesso richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte per poter ritenere la penale responsabilità per la contravvenzione della costruzione in assenza di permesso (o di equipollente s.c.i.a.) – e di recente riaffermata nei termini indicati dalla sentenza Cervino, applicata dall’ordinanza qui impugnata – va dunque rettamente intesa, a parere del Collegio, come suscettibile d’incidere esclusivamente sul piano della valutazione dell’elemento soggettivo di fattispecie, come affermato con cristallina chiarezza da una non recente decisione assunta in materia cautelare reale che già si è avuto occasione di richiamare (v. in motivazione, Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Tantillo e a., Rv. 234469). Le conclusioni di tale ultima pronuncia possono dunque essere qui sostanzialmente ribadite, salvo che con riguardo ai limiti dell’accertamento che nel procedimento cautelare reale è possibile fare con riguardo alla sussistenza del fumus di reato sul piano soggettivo, questione rispetto alla quale debbono invece riproporsi i più recenti orientamenti espressi da questa Corte (Sez. 6, n. 10446 del 10/01/2018, Aufiero e a., Rv. 272336; Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016, Iommi e a., Rv. 266896).
Debbono essere affermati, pertanto, i seguenti principi di diritto:
ai fini dell’integrazione dei reati di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001, fatta salva la necessità di ravvisare in capo all’agente il necessario elemento soggettivo quantomeno colposo, la contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste anche quando il titolo, pur apparentemente formato, sia (oltre che inefficace, inesistente o illecito) illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia sostanziale di fonte normativa o risultante dalla pianificazione;
in tali casi, la "macroscopica illegittimità" del permesso di costruire non è condizione essenziale per la oggettiva configurabilità del reato, ma l'accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un significativo indice di riscontro dell'elemento soggettivo anche riguardo all'apprezzamento della colpa;
nel procedimento di riesame di provvedimenti cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al "fumus" del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, sicché può rilevarsi anche il difetto dell'elemento soggettivo del reato, qualora esso emerga "ictu oculi".
12. L’ordinanza impugnata deve quindi essere annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Savona in diversa composizione, che si atterrà ai principi sopra enunciati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Savona per nuovo esame.
Così deciso il 21 settembre 2018.