Cass. Sez. III n. 47310 del 1 dicembre 2015 (Ud 24 apr 2015)
Pres. Mannino Est. Gentili Ric. D'Antonio ed altro
Urbanistica.Rapporti tra norma statale e normativa di rango inferiore
Un'attività che sia prevista come illegittima da una disposizione legislativa statale non può certamente degradare in attività consentita per effetto di una disposizione avente rango normativo inferiore alla precedente quale il regolamento edilizio; e l'attività di ristrutturazione edilizia con variazione di destinazione d'uso che comporti il cambio di categoria edilizia derivante dalla realizzazione di nuove opere edili necessita di permesso a costruire è principio derivante dalla previsione legislativa contenuta nell'art.10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 12 maggio 2014, ha parzialmente riformato la sentenza con la quale il Tribunale di Firenze, Sezione distaccata di Pontassieve, aveva dichiarato la penale responsabilità di B.L., D.A. e D.E., questi due figli della prima, in ordine ai reati di cui al n. 2 del capo a) della rubrica elevata nei loro confronti, condannandoli, pertanto, alla pena di giustizia.
Con la sentenza della Corte territoriale mentre la B. era stata assolta dalla predetta imputazione, per non avere commesso il fatto, era stata, invece, confermata la penale responsabilità degli altri due imputati, nonchè la pena loro inflitta.
Va precisato che ai due predetti era stata contestata, in concorso fra loro, la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), in relazione all'art. 10, comma 1, lett. a), dello stesso D.P.R., per avere realizzato su di un terreno di loro proprietà, in assenza del titolo abilitativo, la ristrutturazione di un immobile preesistente con il suo ampliamento e la variazione di destinazione d'uso da rurale ad abitativo.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i due prevenuti deducendo la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
In particolare i ricorrenti hanno lamentato il fatto che, mentre la B. era stata assolta dal reato a lei originariamente contestato, essi erano stati, invece, condannati senza che fossero emersi elementi che potessero attribuire loro la paternità delle opere intraprese; ciò anche in considerazione che fatto che le stesse, secondo la comune tesi difensiva, erano state eseguite dal genitore dei ricorrenti, cui i medesimi erano succeduti solo da pochi mesi jure hereditatis.
Anche con riferimento al tempus commissi delicti la sentenza della Corte fiorentina era stata censurata dai ricorrenti in quanto in essa non si era tenuto conto del fatto che le opere erano state realizzate già da lungo tempo ed al momento in cui era stato effettuato il sopralluogo da parte degli agenti del Corpo forestale dello Stato, il (OMISSIS), esse già non erano più in corso; ribadito che ad eseguirle era stata il loro padre negli anni fra il (OMISSIS), insistevano sulla prescrizione del reato.
Quale secondo motivo di impugnazione i ricorrenti avevano allegato la violazione o falsa applicazione della legge penale; essi, in particolare, avevano rilevato che in data 26 febbraio 2011 avevano depositato presso il Comune di San Pietro a Sieve istanza volta ad ottenere l'attestazione di conformità in sanatoria ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45.
Sebbene richiesto di sospendere il giudizio in attesa della definizione del procedimento per la sanatoria, il giudice rigettava la istanza procedendo alla assunzione del testi del Pm e solo successivamente concedeva termine per il deposito del provvedimento in sanatoria che, rilasciato in data 23 marzo 2012, era depositato agli atti del giudizio alla udienza del 29 novembre 2012.
Ciononostante, il Tribunale, ritenuta l'illegittimità di tale provvedimento, in quanto il mutamento della destinazione d'uso non rientrava tra gli interventi soggetti sanatoria, aveva condannato gli imputati e la relativa condanna era stata confermata dalla Corte di appello.
L'erroneità di tale decisione, secondo i ricorrenti, derivava dalla mancanza agli atti di alcun elemento che potesse fare ritenere intervenuto il mutamento di destinazione d'uso; infatti nell'immobile in questione non vi erano nè pavimenti, nè rivestimenti, nè intonaci alle pareti o porte e finestre e gli ambienti si presentavano ancora allo stato grezzo; non c'erano servizi, se non una piccola vaschetta per l'acqua compatibile con la destinazione agricola; non c'era riscaldamento nè la corrente elettrica; non vi erano, pertanto, opere che potessero evidenziare l'avvenuto mutamento della destinazione d'uso.
Peraltro, chiariscono i ricorrenti, il regolamento edilizio del Comune di San Pietro a Sieve consente il cambiamento della destinazione ad uso residenziale degli annessi con destinazione non agricola e nel caso in esame il manufatto preesistente non poteva considerarsi rurale in quanto mai destinato a tale scopo, poichè servente un altro immobile ove gli odierni imputati avevano, oltre che le residenze, la sede della loro impresa edile, il che, peraltro, giustificava la presenza sul posto di attrezzi e macchinari destinati a tale impresa, senza che ciò implichi la attualità dello svolgimento dei lavori edili.
I ricorrenti hanno ancora dedotto la illegittimità della sentenza impugnata per essere stati condannati, pur essendo stata loro contestata la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), ad una pena detentiva, prevista per le diverse fattispecie di cui alle lett. b) e c) della medesima disposizione, prevedendo la norma violata la sola sanzione pecuniaria.
La sentenza sarebbe altresì illegittima in quanto non è stato chiarito il procedimento logico che ha condotto alla quantificazione della pena nonchè al rigetto della concessione delle attenuanti generiche.
Infine, hanno osservato i ricorrenti, il giudice di prime cure aveva illegittimamente dichiarato sospeso il corso della prescrizione, nonostante abbia rigettato la richiesta di sospensione del procedimento per il tempo necessario alla valutazione della ricordata istanza di sanatoria, disponendo, anzi, la prosecuzione della istruttoria dibattimentale, non potendo disporsi la sospensione della prescrizione ove il processo si sia comunque celebrato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi presentati dai due prevenuti, risultati infondati, debbono, pertanto, essere rigettati.
Con riferimento al primo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la attribuibilità delle opere eseguite ai due prevenuti, va premessa la correttezza della affermazione (d'altra parte insindacabile in questa sede in quanto riferita ad un apprezzamento di fatto non suscettibile di essere riesaminato nel corso del giudizio di legittimità) della perdurante flagranza del reato alla data in cui è stato eseguito il sopralluogo da parte degli agenti del Corpo forestale dello Stato, come desumibile dalla circostanza, segnalata nella impugnata sentenza, che sul luogo era stata riscontrata, al momento dell'intervento degli agenti operanti, la presenza della l'attrezzatura necessaria per il cantiere.
Ciò considerato, osserva il Collegio che in più occasioni questa Corte ha rilevato che l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi aventi natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, di costui alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale esistente fra i coniugi (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 15 dicembre 29014, n. 52040; idem Sezione 3 penale, 3 luglio 2012, n. 25669).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha correttamente desunto dalla circostanza che i due ricorrenti vivono nella zona ove le opere abusive sono state realizzate ed ivi svolgono l'attività di imprenditori edili, nonchè dal dato che gli stessi hanno presentato la domanda di sanatoria edilizia, la conclusione che essi erano certamente consapevoli sia della realizzazione delle opere che della necessità del conseguimento del permesso a costruire per la loro edificazione, risultando così corroborato, ai fini della prova della loro responsabilità penale, quanto meno a livello di compartecipazione morale alla realizzazione dei lavori, l'indubbio elemento della titolarità in capo ai due ricorrenti della proprietà del fondo ove le opere insistono.
Riguardo al secondo motivo di impugnazione, onde rilevarne la sua infondatezza è sufficiente rilevare come esso si fondi sulla pretesa validità della ora citata attestazione di conformità in sanatoria rilasciata dal Comune di San Piero a Sieve in data 23 marzo 2012.
Tale documento è, però, stato incidentalmente ritenuto dai giudici del merito illegittimo e quindi irrilevante ai fini della degradazione del fatto contestato ai due prevenuti posto che, come ampiamente chiarito nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado, la predetta attestazione si fondava su di un dato, cioè la mancata variazione della destinazione d'uso, che è stato invece, argomentatamente smentito in sede di merito, laddove si è evidenziato che le opere realizzate erano logicamente incompatibili con il mantenimento della originaria destinazione agricola del preesistente manufatto ed erano invece inconfutabilmente destinate ad un suo utilizzo abitativo.
D'altra parte la stessa difesa dei ricorrenti, allorchè postula la possibile legittimità dei lavori realizzati in quanto l'art. 6 del regolamento edilizio del Comune di San Piero a Sieve consente il cambiamento di destinazione d'uso degli annessi con precedente destinazione non agricola, finisce coll'ammettere che siffatta destinazione sia intervenuta.
Nè può svolgere una qualche efficacia scriminante l'asserita conformità della operazione rispetto a quanto previsto dal ricordato art. 6 del citato Regolamento edilizio; non va, infatti, dimenticato, che un'attività che sia prevista come illegittima da una disposizione legislativa statale non può certamente degradare in attività consentita per effetto di una disposizione avente rango normativo inferiore alla precedente; e che la attività di ristrutturazione edilizia con variazione di destinazione d'uso che comporti il cambio di categoria edilizia derivante dalla realizzazione di nuove opere edili necessiti di permesso a costruire è principio derivante dalla previsione legislativa contenuta nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), (ex multis: Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 28 gennaio 2015, n. 3953; idem Sezione 3 penale, 26 settembre 2014, n. 39897).
Col terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la nullità della sentenza impugnata per violazione di legge, allegando profili di illegittimità riferiti ora alla determinazione della pena ora alla mancata concessione delle attenuanti generiche ora alla circostanza che il giudice di prime cure avrebbe ritenuto sospeso il termine prescrizionale sebbene abbia rigettato la richiesta di sospensione del processo durante la pendenza del procedimento per il rilascio della attestazione di conformità in sanatoria, dando anzi corso alla istruttoria dibattimentale.
Riguardo all'ultima censura illustrata osserva la Corte che, quand'anche, rettificando l'operato del giudice di prime cure, si escludesse dal computo dei periodi nel corso dei quali il termine prescrizionale è stato sospeso quello che va dal 9 maggio 2011, data in cui i difensori degli imputati hanno chiesto invano di rinviare il processo per consentire loro il deposito del provvedimento in sanatoria, al 6 dicembre 2011, dovrebbe pur tuttavia rilevarsi, tenuto conto dell'ulteriore periodo di sospensione della prescrizione, dovuto ad una astensione dalle udienze degli avvocati penalisti, che va dal 22 marzo 2012 al 29 novembre 2012, che il termine prescrizionale del reato in questione (pari 5 anni decorrenti dalla data del 22 agosto 2009 in cui è stato eseguito il sequestro preventivo delle opere in questione, dovendosi ritenere da allora cessata la flagranza del reato), fisiologicamente fissato al 22 agosto 2014, è stato prorogato di 8 mesi e 12 giorni, essendo, pertanto, destinato a scadere solo il 4 maggio 2015, quindi dopo la pronunzia della presente sentenza.
Con riferimento alla doglianza avente ad oggetto l'avvenuta condanna dei prevenuti alla pena detentiva in luogo della sola pena pecuniaria - con la quale è sanzionata la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a) - non vi è dubbio che, ad onta della indicazione formale contenuta nel capo di imputazione (ove è effettivamente richiamata del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44), la lett. a), ai predetti è stata contestata in fatto, nella puntuale descrizione della condotta loro attribuita, la violazione dell'art. 44, lett. b) del medesimo D.P.R. (violazione cui è invece ricollegata anche la sanzione detentiva) ed è, indubbiamente, in relazione a tale contestazione che i prevenuti si sono difesi, come è evidenziato dal fatto che gli stessi abbiano chiesto in sede di gravame la conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, richiesta questa che presuppone logicamente la possibilità in capo al giudicante di irrogare la pena detentiva; in applicazione, pertanto del consolidato principio rinvenibile nella giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, in tema di contestazione dell'accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all'indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell'esercizio del diritto di difesa (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 4 febbraio 2014, n. 5469), la doglianza dei ricorrenti deve essere disattesa.
Quanto alla censura avente ad oggetto la determinazione della pena, rileva la Corte che, essendo la stessa sia stata quantificata in misura prossima al minimo edittale, è adeguato sotto il profilo motivazionale il mero richiamo al criterio della sua congruità (Corte di cassazione, Sezione 2 penale, 8 luglio 2013, n. 28852), mentre per ciò che attiene al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche in favore dei prevenuti in ragione della loro incensuratezza, per come espressamente richiesto nell'atto impugnatorio dai medesimi presentato, è sufficiente ricordare che, per effetto della entrata in vigore della L. n. 125 del 2008, che ha introdotto nell'art. 62-bis cod. pen. un ulteriore comma terzo, è espressamente inibita la concessione della attenuanti generiche se esclusivamente fondata sulla incensuratezza del richiedente.
Peraltro non va trascurato che nel caso di specie, avendo la Corte fiorentina ritenuto di escludere costoro dal predetto beneficio in ragione della gravità dei fatti loro ascritti, i ricorrenti non hanno segnalato l'esistenza di alcuna ragione, non valorizzata dai giudici del merito, che avrebbe invece legittimato detto riconoscimento, ove si eccettui l'irrilevante stato di illibatezza penale.
I ricorsi debbono, pertanto essere rigettati ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24 aprile 2015.