Cass. Sez. III n. 6887 del 14 febbraio 2017 (Ud 24 nov 2016)
Presidente: Carcano Estensore: Di Stasi Imputato: Calabrese ed altro
Urbanistica.Continuazione dei lavori su immobile non ultimato
La sentenza di condanna - ove l'immobile non risulti ultimato - determina la cessazione della permanenza dell'illecito urbanistico in quanto la condanna medesima va considerata, al pari del sequestro, evento impeditivo della prosecuzione dei lavori. La continuazione dei lavori stessi su immobile non ultimato (e restituito a seguito della decisione di condanna in vista della demolizione) non può che sostanziarsi, dunque, in altro se non nella prosecuzione di un'attività vietata. E per tale ragione la condotta successiva alla restituzione in vista dell'ultimazione dei lavori configura di per sé illecito penale a prescindere dall'entità dell'intervento realizzato che non può che considerarsi come la prosecuzione dell'immobile illecitamente realizzato, del quale si qualifica essenzialmente come attività di rifinitura e rientra nel regime cui è soggetto l'immobile rifinito, del quale rappresenta l'illecita prosecuzione
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 7.12.2010 il Tribunale di Torre Annunziata, sez. dist. di Gragano, dichiarava Calabrese Francesco e Rosanova Santa responsabili dei reati acrittili- capo a) con riferimento al proc. n. 13201/07 RGNR e capi a) e b) con riferimento al proc. n. 12253/09 RGNR per il Calabrese e capi a) e b) con riferimento al proc. per la Rosanova- per aver eseguito lavori di prosecuzione in assenza di titoli abilitativi in relazione ad un manufatto abusivo oggetto di sequestro (in Sant'Antonio Abate il 10.12.2007 ed il 19.11.2009), e condannava Calabrese Francesco alla pena anni uno mesi quattro di reclusione ed euro 300 di multa (in continuazione con i fatti già giudicati con la sentenza emessa in data 27.3.2009 dalla Corte di appello di Napoli , irrevocabile il 17.5.2009) e Rosanova Santa alla pena di anni uno mesi uno di reclusione; ordinava, quindi, la demolizione dell'opera abusiva e la rimessione in pristino dei luoghi e disponeva il dissequestro e la restituzione all'avente diritto alla data di irrevocabilità della sentenza.
Con sentenza del 17.4.2014, la Corte di appello di Napoli, in riforma della predetta sentenza, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Calabrese Francesco in ordine al capo a) di cui al proc. n. 13201/07 RGNR per essere il reato estinto per prescrizione e rideterminava la pena complessiva in anni uno mesi tre di reclusione ed euro 275,00 di multa, confermando nel resto.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Calabrese Francesco e Rosanova Santa, per il tramite del difensore di fiducia, articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
Con il primo motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità.
Argomentano che la Corte territoriale confermava la dichiarazione di responsabilità aderendo genericamente alle argomentazioni del primo giudice senza rispondere agli specifici rilievi ed autonomi rilievi sulla erroneità e carenza di valutazione degli elementi probatori, che evidenziavano come i lavori realizzati non rientravano nelle opere soggette a permesso di costruire.
Con il secondo motivo, riferito alla posizione di Rosanova Santa, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 192 cod.proc.pen.
Si argomenta che le risultanze istruttorie davano atto che la Rosanova era solo la proprietaria del terreno interessato dalla realizzazione delle contestate e che i lavori erano stati effettuati personalmente da Calabrese Francesco.
Con il terzo motivo, riferito alla posizione di Rosanova Santa, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio.
Si argomenta che la Corte territoriale non adeguava la pena alla concreta entità del fatto e denegava la concessione della sospensione condizionale della pena, omettendo di considerare che la Rosanova era gravata da un solo precedente risalente nel tempo.
Con il quarto motivo si deduce l'omessa motivazione in relazione alla richiesta di dissequestro dell'opera e, quindi, sulle ragioni giustificatrici della permanenza della misura cautelare reale. Chiedono, quindi, l'annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Va evidenziato che ci si trova di fronte ad una "doppia conforme" affermazione di responsabilità e che, legittimamente, in tale caso, è pienamente ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.
E', infatti, giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 1, 22/11/1993- 4/2/1994, n. 1309, Albergamo, riv. 197250; Sez. 3, 14/2- 23/4/1994, n. 4700, Scauri, riv. 197497; Sez. 2, 2/3- 4/5/1994, n. 5112, Palazzotto, riv. 198487; Sez. 2, 13/11-5/12/1997, n. 11220, Ambrosino, riv. 209145; Sez. 6, 20/11-3/3/2003, n. 224079). Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest'ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall'appellante. In questo caso il controllo del giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette censure.
Nella specie, La Corte di Appello di Napoli non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha risposto punto per punto alle doglianze oggi riproposte.
Le motivazioni delle due sentenze, quindi, si saldano fornendo un'unica e complessa trama argomentativa, non scalfita dalle censure mosse dai ricorrenti che ripropongono gli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado.
In particolare, la Corte di merito ha adeguatamente chiarito che gli interventi edilizi per cui è processo costituiscono la prosecuzione di precedenti abusi già accertati il 4.1.2007 (e oggetto di sentenza di condanna irrevocabile) ed attraverso i quali, in totale difformità rispetto al titolo abilitativo rilasciato, era stato trasformato in abitazione un sottotetto.
La motivazione è congrua e logica ed in linea con il principio di diritto affermato in subiecta materia da questa Suprema Corte.
Si è osservato, infatti, che la sentenza di condanna - ove l'immobile non risulti ultimato - determina la cessazione della permanenza dell'illecito urbanistico in quanto la condanna medesima va considerata, al pari del sequestro, evento impeditivo della prosecuzione dei lavori (Sez. 3, n.7286 del 06/05/1994 Rv. 198200). La continuazione dei lavori stessi su immobile non ultimato (e restituito a seguito della decisione di condanna in vista della demolizione) non può che sostanziarsi, dunque, in altro se non nella prosecuzione di un'attività vietata.
E per tale ragione la condotta successiva alla restituzione in vista dell'ultimazione dei lavori configura di per sè illecito penale a prescindere dall'entità dell'intervento realizzato( Sez.3, n.41079 del 20/09/2011, Rv.251290) che non può che considerarsi come la prosecuzione dell'immobile illecitamente realizzato, del quale si qualifica essenzialmente come attività di rifinitura e rientra nel regime cui è soggetto l'immobile rifinito, del quale rappresenta l'illecita prosecuzione ( Sez.3, n.9130 del 06/07/2000, Rv.217215).
3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema si è stabilmente assestata nell'affermare che in tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno, non committente dei lavori, nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così questa sez. 3, n. 33540 del 19.6.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri rv. 253169; conforme sez. 4 n. 19714 del 3.2.2009, Izzo F., rv. 243961). Questa Corte di legittimità non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
E', dunque, pacifico che in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa ( Sez. 3, 27.9.2000, n. 10284, Cutaia; 3.5.2001, n. 17752, Zorzi; 10.8.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.4.2003, n. 18756, Capasso; 2.3.2004, n. 9536, Mancuso; 28.5.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.1.2005, n. 216, Fucciolo; 15.7.2005, n. 26121, Rosato; 2.9.2005, n. 32856, Farzone; Sez.3, n. 39400 del 21/03/2013, Rv.257676;Sez.3, n.52040 del 11/11/2014, Rv.261522).
Inoltre, la valutazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità della Suprema Corte, se congruamente e logicamente motivata, in quanto comporta un giudizio di merito (sez. 3, n. 35631 dell'11.7.2007, Leone ed altri, rv. 237391).
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame, i Giudici del merito - con motivazione adeguata ed immune da vizi logico- giuridici - hanno ricondotto all'imputata l'attività di edificazione illecita in oggetto sui rilievi che la Rosanova era "proprietaria dell'area di sedime" dell'immobile oggetto dei lavori abusivi, ne aveva la disponibilità giuridica e di fatto, era stata presente ai precedenti accertamenti degli abusi ed aveva sottoscritto il relativo processo verbale ed avesse sicuro interesse all'esecuzione delle opere.
Le censure concernenti assente carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nel caso in oggetto, da logico e coerente apparato argomentativo e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.
4. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
4.1. Costituisce principio consolidato che la motivazione in ordine alla determinazione della pena base ( ed alla diminuzione o agli aumenti operati per le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti) è necessaria solo quando la pena inflitta- caso che non ricorre nella specie- sia di gran lunga superiore alla misura media edittale. Fuori di questo caso anche l'uso di espressioni come "pena congrua", "pena equa", "congrua riduzione", "congruo aumento" o il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell'imputato sono sufficienti a far ritenere che il giudice abbia tenuto presente, sia pure globalmente, i criteri dettati dall'art. 133 c.p. per il corretto esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla norma in ordine al "quantum" della pena (Sez.2,n.36245 del 26/06/2009 Rv. 245596; Sez.4, n.21294 del 20/03/2013, Rv.256197;Sez.2, n.28852 del 08/05/2013, Rv.256464;).
Nella specie, la Corte territoriale nel determinare la pena ha richiamato un criterio di adeguatezza della stessa rispetto al fatto, sufficiente per far ritenere che abbia considerato globalmente gli elementi di cui all'art. 133 cod.pen.
4.2. Il Collegio condivide l'orientamento secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il Giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l'obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell'art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez. 2, n. 19298 del 15/04/2015, Rv. 263534, Sez. 3 n. 6641 del 17/11/2009, Rv. 246184; Sez. 3, n. 30562 del 19/03/2014, Rv. 260136).
Nella specie, la Corte territoriale, con motivazione congrua ed esente da vizi logici, ha dato rilievo ostativo ai precedenti penali dell'imputata.
5. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Come si rileva dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata, il dissequestro è stato già disposto dal Tribunale ed è stato subordinato al passaggio in giudicato della sentenza.
Va ricordato, che, in tema di misure cautelari reali, mentre l'irrevocabilità della sentenza di condanna determina la perdita di efficacia del provvedimento di sequestro preventivo di un manufatto edilizio abusivo, diversamente la non definitività della sentenza ne impedisce la restituzione, salvo che le esigenze cautelari giustificative del vincolo siano cessate (Sez.6, n.40388 del 26/05/2009, Rv.245473; Sez.3,n.6462 del 14/12/2007,dep.11/02/2008,Rv.239289).
Si è osservato sul punto che I' art. 323, comma 1 cod.proc.pen. dispone che con la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, ancorché soggetta ad impugnazione, le cose sequestrate devono essere restituite a chi ne abbia diritto, quando non deve essere disposta la confisca a norma dell'art. 240 c.p.. Il provvedimento è immediatamente esecutivo. Il legislatore ha fissato quindi l'immediata esecutività per le sole sentenze di proscioglimento. Per quelle di condanna ha stabilito che il sequestro deve essere mantenuto quando è disposta la confisca (art. 323, comma 3, cod.proc.pen.). Da tale norma, argomentando a contrario, non si può però trarre la convinzione che, quando non sia ,disposta la confisca, il bene debba essere comunque restituito anche se la sentenza di condanna non è ancora definitiva, giacché, nelle ipotesi di non definitiva della pronuncia di condanna, subentra la regola generale di cui all'art.321, comma 3, cod.proc.pen. Questa norma dispone, infatti, che le cose sequestrate per finalità cautelari debbano essere restituite allorché siano venute meno le esigenze che hanno determinato l'imposizione del vincolo. Quindi con la sentenza di condanna non definitiva il bene sequestrato per esigenze cautelari può essere restituito solo se alla data della pronuncia della sentenza di condanna non definitiva siano venute meno le esigenze cautelari, altrimenti il vincolo deve essere mantenuto fino alla sentenza definitiva. La cessazione della permanenza non fa venir meno di per sè il pericolo che possa essere reiterato l'abuso edilizio, giacché il sequestro cautelare può essere disposto non solo per evitare l'aggravamento del medesimo reato ma anche l'agevolazione di altri reati anche se della stessa specie. Pertanto la cessazione della permanenza con la sentenza di primo grado non costituisce elemento di per sè idoneo a fare ritenere cessate le esigenze cautelari (in termini Sez.3, n.6462 del 14/12/2007,dep.11/02/2008,Rv.239289, cit).
6. La sentenza impugnata, però, deve essere annullata d'ufficio sulla base delle considerazioni che seguono.
6.1. Va evidenziato che l'inammissibilità originaria dell'impugnazione, per la genericità o la manifesta infondatezza dei motivi, consente il rilievo della aboliti° criminís o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice oggetto dell'imputazione, ipotesi quest'ultima che ricorre nella specie (Sez.4, n.25644 del 21/05/2008, Rv.240848).
6.2.Rileva, infatti, il Collegio che, successivamente all'emissione della sentenza impugnata, la Corte costituzionale, con sentenza n. 56 del 11- 23/03/2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed».
Per effetto di tale pronuncia, la sussistenza del delitto di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, è limitata ai soli casi in cui i lavori abusivamente realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico hanno comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora hanno comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi.
6.3 Nel caso in esame appare evidente, dalla lettura stessa delle sentenze di merito, che le opere oggetto di imputazione non hanno la consistenza necessaria a inquadrarle nella fattispecie delittuosa, sicchè il reato originariamente contestato come delitto deve ora essere qualificato quale violazione di natura contravvenzionale (art. 181, comma 1 d.lgs. 42\2004).
Residua, dunque, l'ipotesi contravvenzionale di cui al comma primo in relazione alla quale il termine quinquennale di prescrizione, ai sensi degli artt. 157 e 161 cod.pen, è maturato alla data del 19.11.2014.
6.4. Ne consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio in relazione alla imputazione di cui al capo b), previa qualificazione del fatto come contravvenzione di cui all'art. 181 comma 1 d.lgs n. 42/2004, per essere il reato estinto per prescrizione, non emergendo dal testo del provvedimento impugnato elementi che possano giustificare l'applicazione dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (Sez.6,n.48461 del 28/11/2013,Rv.258169; Sez.6,n.27944 del 12/06/2008, Rv.240955).
6.5. Va, conseguentemente, revocato l'ordine di rimessione in pristino.
In tema di tutela del paesaggio, infatti, l'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato, previsto dall'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, può essere impartito dal giudice con la sola sentenza di condanna e, pertanto, in caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, tale statuizione va revocata dal giudice dell'impugnazione, fermo restando l'autonomo potere-dovere dell'autorità amministrativa (Sez.3, n.51010 del 24/10/2013,Rv.257916).
7. Il ricorso va, invece, dichiarato inammissibile per la residua imputazione e disposto il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli al fine della necessaria rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b), riqualificato come contravvenzione di cui all'art. 181, comma 1, d. Igs.n. 42/2004, con revoca della rimessione in pristino; rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per la rideterminazione della pena. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 24/11/2016