La classificazione dei rifiuti con codici a specchio e la “probatio diabolica”

di W. FORMENTON M. FARINA, G. SALGHINI, L. TONELLO1, F. ALBRIZIO

W. Formenton, M. Farina, G. Salghini, L. Tonello 1, F. Albrizio2

Un recente “parere pro veritate” dell’ordine interregionale dei chimici del Lazio, Umbria, Abruzzo e Molise 3, pesantemente censurato da Amendola 4, ha riportato di attualità la controversia sulla classificazione dei rifiuti con codici a specchio, dovuta, probabilmente, a una normativa italiana in parte confusa e contraddittoria e non sempre aggiornata tempestivamente.

Il “parere” non è condiviso dagli autori della presente nota, alcuni dei quali hanno espresso la loro opinione in merito in varie occasioni e in una guida5 e tuttavia, al contempo, esprimono la propria perplessità tecnica sulla sentenza della Corte di Cassazione 6, contestata dal “parere”.

In sintesi, la controversia riguarda se per la classificazione dei rifiuti con codici a specchio, si debbano considerare solo le caratteristiche di pericolo per le quali siano stati espressi limiti in concentrazione (nel parere denominati soglie di cut-off) e in tal caso, se fare la verifica, mediante controllo analitico quantitativo delle concentrazioni, solo per le sostanze pericolose ragionevolmente presenti (in base delle informazioni fornite dal produttore e dall’analisi del ciclo produttivo di origine del rifiuto) o se estendere la ricerca anche a tutte le altre sostanze pericolose, probabilmente non presenti ma che non possono con certezza assoluta essere escluse, come sembra affermare la sentenza della Corte di Cassazione.

Il “parere” sostiene la tesi che, per la classificazione dei rifiuti pericolosi con codice a specchio, le caratteristiche di pericolo da considerare sono solamente quelle con limiti espressi in concentrazione, prendendo in considerazione le sostanze pericolose presumibilmente presenti a giudizio del chimico in “scienza e coscienza”. A sostegno si richiama il punto 5 dell’allegato D alla parte IV del D. Lgs. 152/2006 s.m.i. che riporta testualmente:

5. Se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio, percentuale in peso) , tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all'allegato I. Per le caratteristiche da H3 a H8, H10 e H11, di cui all'allegato I, si applica quanto previsto al punto 3.4 del presente allegato. Per le caratteristiche H1, H2, H9, H12, H13 e H14, di cui all'allegato I, la decisione 2000/532/CE non prevede al momento alcuna specifica. Nelle more dell'adozione, da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di uno specifico decreto che stabilisca la procedura tecnica per l'attribuzione della caratteristica H14, sentito il parere dell'ISPRA, tale caratteristica viene attribuita ai rifiuti secondo le modalità dell'accordo ADR per la classe 9 - M6 e M7 7 .

Il “parere” fornisce una lettura parziale dell’allegato D, estrapolando una frase dal contesto. L’allegato riporta anche:

3.4. I rifiuti contrassegnati nell'elenco con un asterisco «*» sono rifiuti pericolosi ai sensi della direttiva 2008/98/CE e ad essi si applicano le disposizioni della medesima direttiva, a condizione che non trovi applicazione l'articolo 20. Si ritiene che tali rifiuti presentino una o più caratteristiche indicate nell'Allegato III della direttiva 2008/98/CE e, in riferimento ai codici da H3 a H8, H10 e H11 del medesimo allegato, una o più delle seguenti caratteristiche:

- punto di infiammabilità < o = 55 °C,

- una o più sostanze classificate come molto tossiche in concentrazione totale > o = 0,1% [….]

Si nota una contraddizione fra i due testi citati: il punto 5 fa riferimento, per la classificazione di pericolosità, solo alle concentrazioni ma per la caratteristica H3 rimanda al punto 3.4 nel quale il limite per H3 non è espresso in concentrazione ma in gradi centigradi. Se ne deduce che non sempre i pericoli sono espressi con limiti in concentrazione. In caso contrario si dovrebbe trarre la conclusione che la caratteristica di pericolo “infiammabilità” di un rifiuto (H3), pur essendo espressamente richiamata al punto 5, non va accertata, sempre ai sensi dello stesso punto, poiché il limite non è espresso in concentrazione.

Non solo, il parere estrapola una frase critica del punto 5 dell’allegato D, ignorando che alla premessa all’allegato stesso 8, si riporta:

4. Se un rifiuto è classificato con codici CER speculari, uno pericoloso ed uno non pericoloso, per stabilire se il rifiuto è pericoloso o non pericoloso debbono essere determinate le proprietà di pericolo che esso possiede. Le indagini da svolgere per determinare le proprietà di pericolo che un rifiuto possiede sono le seguenti:

a) individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso: la scheda informativa del produttore; la conoscenza del processo chimico; il campionamento e l’analisi del rifiuto;
b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso: la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi; le fonti informative europee ed internazionali; la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto;
c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all’analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti,
ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo .

Dal contesto è chiaro, in accordo con Amendola, che la classificazione si esegue sia mediante analisi chimiche quantitative per comparazione delle concentrazioni con i valori limite sia mediante metodi di prova (test). E’ fuorviante pretendere che la classificazione di pericolosità dei rifiuti si possa compiere solo mediante misure di concentrazioni, per la semplice ragione che non tutte le quindici caratteristiche di pericolo da considerare per i rifiuti sono determinate da limiti espressi in concentrazione, ma diverse di queste dipendono solo dall’esito di prove codificate, fisiche o chimico-fisiche.

Ciò era palese anche prima del 18 dicembre 2014 a una lettura non parziale della norma, alla luce sia dei punti 3.4 e 5 sia delle norme sui rifiuti sia dalla prassi europea. Si veda anche, in proposito, la nostra precedente guida9.

Si deve tuttavia ricordare che i testi, riportati ai punti 3.4 e 5 dell’allegato D, sono stati superati dal regolamento U.E. 1357/2014 10 (citato espressamente nel “parere”) poiché, come noto, i regolamenti hanno validità cogente in tutti gli stati dell’U.E. I testi si dovrebbero leggere e interpretare (correggere) alla luce del regolamento, ad esempio ridefinendo i pericoli e aggiornando i limiti (la tabella del punto 3.4 dell’allegato D riporta valori non congrui con quelli del regolamento), ma meglio avrebbe fatto il nostro solerte legislatore a sopprimere i testi in contrasto con il regolamento, rimandando allo stesso.

Le caratteristiche di pericolo non sono identificate dalla lettera H ma da HP e numerate da 1 a 15; inoltre H ed HP non sempre sono fra loro coincidenti.

Sono stabiliti limiti in concentrazione per otto caratteristiche di pericolo:

  • HP 4 Irritante-irritazione cutanea e lesioni oculari;

  • HP5 Tossicità specifica per organi bersaglio (STOT)/Tossicità in caso di aspirazione;

  • HP6, Tossicità acuta;

  • HP7 Cancerogeno;

  • HP8 Corrosivo;

  • HP10 Tossico per la riproduzione;

  • HP11 Mutageno;

  • HP 13 Sensibilizzante.

Per le caratteristiche di pericolo: HP1 (esplosivo) , HP2 (Comburente), HP3 (Infiammabile), HP12 (liberazione di gas a tossicità acuta) e HP15 (Rifiuto che non possiede una delle caratteristiche di pericolo summenzionate ma può manifestarla successivamente) 11 non sono stabiliti limiti in concentrazione ma si fa esplicito riferimento ai metodi di prova riportati nel regolamento 440/2008 12 ai fini della classificazione di pericolo per le sostanze ai sensi del CLP 13 e in altre pertinenti note del CEN oppure in altri metodi di prova e linee guida riconosciuti a livello internazionale.

Per la caratteristica di pericolo HP14 (ecotossico) il regolamento rimanda ai criteri stabiliti nell'allegato VI della direttiva 67/548/CEE del Consiglio 14 .

Per la caratteristica di pericolo HP9 (infettivo) il regolamento rimanda alle normative nazionali. Per l’Italia al DPR 15 luglio 2003, n. 254, "Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell'articolo 24 della legge 31 luglio 2002, n. 179", che basa la classificazione sulla provenienza (rifiuti sanitari) 15 e sulla presenza nel rifiuto di materiali o sostanze elencati specificatamente in dettaglio senza riferimento a limiti in concentrazione e senza rinvio a metodi prova.

Il problema pertanto non si pone, per classificare un rifiuto si deve applicare il regolamento 1357/2014 che prevede sia analisi quantitative delle sostanze pericolose presenti nel rifiuto, per determinare il superamento dei limiti espressi in concentrazione, sia l’esecuzione di prove medianti i test del regolamento 440/2008 16, nei casi nei quali non sono stati fissati limiti in concentrazione e addirittura, nel caso della caratteristica di pericolo HP9 (infettivo), solo sulla base della provenienza del rifiuto e della sua composizione merceologica.

La caratterizzazione del rifiuto

Alcuni sostengono che, essendo il valore più basso dei limiti in concentrazione 0,1% allora la caratterizzazione del rifiuto deve arrivare a determinare il 99,9% del contenuto di un rifiuto per avere la certezza di rintracciare tutte le sostanze pericolose presenti, determinando quindi anche tutte le sostanze non pericolose. La tesi, pur se astrattamente valida dal punto di vista logico, è priva di qualsiasi fondamento scientifico perché inattuabile a causa dell’incertezza dei metodi di analisi quantitativa, tanto che in chimica analitica l’analisi quantitativa consegue a quella qualitativa e non viceversa.

Dall’ultimo articolo citato di Amendola, sembra e si spera che tale posizione sia stata pacificamente abbandonata.

Tuttavia è criticabile anche la tesi che afferma: dal momento che le sostanze pericolose sono state valutate in almeno 8.000 ma potrebbero diventare anche 20.000, è impossibile, in pratica, rispondere alla domanda posta dall’analisi qualitativa: “è presente la sostanza X?”, dove X sono le 8.0000 sostanze pericolose possibilmente presenti, perché presupporrebbe di eseguire 8.0000 specifici controlli analitici qualitativi volendo avere la certezza che nessuna delle sostanze sia presente.

Le tesi è criticabile perché non esclude la possibilità che si possa con certezza identificare tutte le sostanze pericolose presenti in un rifiuto ma evidenzia che farlo, con il presupposto di eseguire un numero elevatissimo di controlli specifici, è estremamente complicato e molto costoso e inoltre riduce la classificazione al solo utilizzo dei metodi analitici, come puntualmente osservato da Amendola.

Tuttavia, anche potendo applicare la complicata operazione di ricerca delle 8.000 sostanze ed anche eseguendo tutte le prove possibili, la caratterizzazione non sarebbe comunque certa poiché il campione del rifiuto analizzato non rappresenta con certezza l’intera partita del rifiuto a causa degli errori di campionamento 17.

Nel caso dell’applicazione pratica dei metodi analitici è necessario fare una scelta e assumersi la responsabilità di escludere la presenza di certe sostanze, confidando sul fatto che la probabilità della loro presenza, in concentrazioni maggiori di 0,1%, sia molto bassa e inferiore agli errori di campionamento. Questa responsabilità la norma non la pone in capo al chimico ma al produttore del rifiuto che deve ricercare non la certezza assoluta, impossibile da raggiungere ma la certezza scientifica 18 che sia ragionevole e proporzionale per la corretta applicazione del principio di precauzione.

Molte sostanze pericolose impiegate per usi particolari limitati e specifici è molto improbabile che possano essere presenti in rifiuti comuni. Ad esempio, si può ragionevolmente ipotizzare che i composti usati come intermedi nella sintesi di prodotti chimici organici non siano presenti nei rifiuti di fusione dei metalli ferrosi o non ferrosi 19. Un’applicazione sconsiderata del principio di precauzione propenderebbe per cercare anche queste sostanze in tali rifiuti, invece un’applicazione ragionevole e proporzionata considererebbe che queste sostanze siano assenti poiché la certezza scientifica della loro presenza, tenuto conto degli errori e della probabilità dell’accadimento, è prossima a zero.

Tuttavia, nel caso del pericolo infettivo è il legislatore che, applicando il principio di precauzione in modo ragionevole e proporzionato, ha definito il campo di esistenza: basta solo la constatazione che siano presenti determinate sostanze (come tracce di sangue) o materiali (siringhe, aghi ecc.) e il pericolo è accertato inequivocabilmente senza valutare la quantità presente. basta quindi un segnale che il rifiuto sia venuto in contatto con materiali, anche solo potenzialmente infettivi, per giudicare il rifiuto pericoloso.

Per gli altri pericoli il legislatore si è espresso attraverso la premessa all’allegato D disciplinando l’individuazione delle sostanze presenti mediante la caratterizzazione del rifiuto basata su tre pilastri :

  • la scheda informativa del produttore ;

  • la conoscenza del processo chimico ;

  • il campionamento e l’analisi del rifiuto ;

Il primo pilastro è un’indagine atta a reperire il maggior numero d’ informazioni sul rifiuto e sulle sostanze in esso presenti sulla base di quanto noto allo stesso produttore.

Il secondo pilastro è costituito dalla conoscenza del processo chimico che ha prodotto il rifiuto, che fornisce ulteriori informazioni sulle sostanze presenti.

I primi due pilastri individuano le sostanze pericolose presenti con certezza20 ma non esauriscono tutte le sostanze pericolose potenzialmente presenti. Infatti, sono possibili molti casi d’inquinamento, dei quali la conoscenza può essere modesta o nulla, quali, ad esempio, la contaminazione delle materie prime oppure la contaminazione incrociata fra residui di reparti diversi oppure ancora la disattenzione o l’inosservanza di regole interne.

Le sostanze pericolose presenti con incertezza nel rifiuto si dividono in due categorie, quelle per le quali la presenza è sospetta in base a deduzioni logiche razionali cautelative (sostanze incerte note), e quelle che potrebbero essere presenti irragionevolmente, senza una spiegazione apparente plausibile (sostanze incerte incognite).

In questi due ultimi casi soccorre l’analisi chimica qualitativa considerata nel terzo pilastro. Le sostanze presenti con incertezza ma ipotizzabili ragionevolmente (sostanze incerte note), possono essere confermate mediante l’analisi chimica qualitativa.

Per le sostanze presenti irragionevolmente non è possibile confermare la loro presenza mediante saggi analitici specifici poiché non sono note per definizione 21. Nella prassi attuale, di norma, queste sostanze non son prese in considerazione giudicando la probabilità della loro presenza inferiore agli errori di campionamento.

Il classificatore che voglia spingere l’alea di incertezza a valori molto bassi, esplorando quindi anche le zona d’ombra non prevedibili razionalmente (come nel caso di un rifiuto sconosciuto), ha comunque la possibilità di utilizzare vari metodi generali di analisi chimica qualitativa per identificare ampie classi di sostanze. Ad esempio l’identificazione qualitativa dei metalli presenti può avvalersi di varie tecniche spettrofotometriche come: spettrofotometria di emissione, ICP-massa, XRF e altre, le quali potranno dare indicazioni non solo sui metalli presenti già assodati ma anche di quelli neppure ipotizzabili. La presenza di sostanze organiche, come solventi, può essere valutata con gascromatografia, GC-massa, HPLC-massa, quella di anioni con cromatografia ionica. Specifici saggi possono essere effettuati per classi di sostanze come ad esempio: ammine, fenoli, ecc. Tuttavia i metodi analitici praticabili, per quanto numerosi, non potranno esaurire tutte le classi di sostanze pericolose esistenti.

Un’ampia serie di tecniche analitiche moderne è ora in grado di fornire indicazioni sulla presenza o meno di determinate classi di sostanze, ma si tratta pur sempre dell’applicazione di un ampio spettro di tecniche analitiche che comportano elevati costi per la caratterizzazione e che, comunque, non potranno mai fornire la certezza assoluta ma solo un grado di certezza più o meno elevata a seconda della varietà di tecniche analitiche dispiegate e quindi del costo della classificazione e nonostante ciò, alcune sostanze potrebbero non essere identificate a causa degli errori di campionamento.

Nel caso di rifiuti dei quali si hanno scarse informazioni o mancano del tutto, l’esecuzione dei primi due pilastri è di poco aiuto, il rintracciamento delle sostanze ricade allora, quasi interamente, sul terzo pilastro e per tale ragione le indagini analitiche qualitative di caratterizzazione dovranno essere svolte con il più ampio dispiego dei mezzi analitici resi disponibili dalle moderne tecnologie e il più ampio set di prove. Per un set di controlli analitici si veda l’articolo 22 citato nel “parere”, che deve essere integrato dai metodi di prova.

Le sostanze presenti in bassa quantità potrebbero non essere rilevate dalle tecniche analitiche, ma sicuramente la presenza in concentrazioni maggiore dello 0,1% rende facilmente identificabile qualitativamente qualsiasi sostanza e ciò è sufficiente per accertare la presenza dei pericoli, anche quelli per i quali i limiti sono bassi, con la probabilità permessa dal metodo di campionamento.

Nell’analisi qualitativa è importante il limite di rivelabilità e tutte le tecniche hanno ora limiti di rivelabilità certamente inferiori allo 0,1%. Non si deve confondere il limite di rivelabilità, molto basso e adatto all’identificazione delle sostanze, almeno nella quantità per cui possono essere pericolose, con gli errori analitici quantitativi della fase successiva, che possono essere anche del 5-10%, e rendono problematico stabilire il superamento dei limiti nel caso tale superamento sia inferiore agli errori analitici quantitativi.

Una volta deciso quali sostanze siano qualitativamente presenti nel rifiuto si deve determinare la loro concentrazione, almeno per le sostanze pericolose presenti. La determinazione quantitativa 23 sarà eseguita da un chimico che sarà responsabile dei risultati riportati nel certificato di analisi, che va allegato alla classificazione ma non costituisce il certificato di classificazione. Nella prassi invece è invalso l’uso di stilare certificati di analisi chimica quali-quantitativa dei rifiuti che sono anche certificati di classificazione. In tal caso il chimico si assume una responsabilità che è invece del produttore. Il certificato di classificazione dovrebbe essere firmato dal produttore e contenere come allegato i certificati di analisi firmati dal chimico.

Il produttore, sulla base dei risultati ottenuti, potrà compilare una tabella di caratterizzazione del rifiuto che riporterà specificamente le sostanze pericolose e la loro concentrazione. Si consiglia di riportare nella tabella anche la dicitura: sostanze non pericolose q.b. (quanto basta), magari enumerandole tra parentesi se si conoscono, al fine di evitare lo spiacevole inconveniente riportato nella nota 27 24.

Se sono presenti sostanze pericolose che richiedono delle prove per determinare le caratteristiche di pericolo, il produttore dovrà richiedere al laboratorio di eseguire anche tali prove. I certificati di esecuzione delle prove con i risultati: positivo o negativo, saranno allegati al certificato di classificazione.

La probatio diabolica

Le norme per la classificazione dei rifiuti, come interpretate da Amendola e dalla sentenza della Corte di Cassazione, esigono che il produttore fornisca la prova certa che il rifiuto non sia pericoloso ma ciò risulta impossibile poiché la prova può essere solo probabilistica 25.

La classificazione dei rifiuti rappresenta un caso di “ probatio diabolica” e ad essa dovrebbe applicarsi l’inversione dell’onere della prova: non è il produttore che deve dimostrare di aver correttamente classificato il rifiuto ma è l’organo di controllo che deve provare che la classificazione è errata, anche solamente contestando il fatto che non sia stata applicata la dovuta diligenza nella classificazione.

Per contestare una classificazione non potrà essere usata un’argomentazione negativa come quella di non aver controllato tutte le sostanze pericolose ma un’argomentazione positiva come quella di dimostrare la presenza di una sostanza pericolosa oltre i limiti, che il classificatore non ha considerato oppure effettuando una prova che dimostri la pericolosità di un rifiuto per una categoria di pericolo ignorata dal classificatore oppure perché sono stati trascurati parametri che avrebbero dovuto ragionevolmente essere controllati e il produttore non ha giustificato i motivi per i quali non sono stati controllati o tali motivi non sono tecnicamente convincenti.

Spetta al produttore decidere a quali prove e tecniche analitiche rinunciare 26, sulla base dei costi delle stesse e della scarsa probabilità che alcune classi di sostanze, determinabili con quelle tecniche, siano presenti. Deve mettere in conto, tuttavia, il rischio che la presenza di qualche sostanza gli possa in questo modo sfuggire e sia messa, successivamente, in risalto dagli enti di controllo i quali sicuramente non limitano la ricerca a poche analisi ma, in generale, utilizzano un ampio spettro di tecniche analitiche perché spesso la provenienza del rifiuto non è certa oppure il produttore non è affidabile o perché, in sede di controllo, la regola regia è il dubbio.

Purtroppo con ulteriore gravame per il produttore, la classificazione dei rifiuti non si effettua su tutte le partite di un rifiuto ma saltuariamente nel tempo e questo potrebbe comportare che una partita, pure correttamente classificata dal produttore, sia poi contestata da una classificazione fatta dagli organi di controllo su una partita diversa. Per tutelarsi, il produttore dovrebbe classificare ogni partita di rifiuto, operazione praticamente impossibile a causa dei costi e dovrà quindi far conto sulla buona stella che il rifiuto mantenga le sue caratteristiche di pericolosità invariate nel tempo, almeno fra una prima classificazione e la successiva.

Una prima conclusione : la caratterizzazione di un rifiuto non potrà mai essere certa in assoluto ma l’alea di incertezza adottata dal produttore deve essere quantomeno comparabile a quella degli enti di controllo.

La sentenza della Corte di Cassazione, criticata dal “parere”, si discosta dalla tesi sopra esposta poiché attribuisce l’onere della prova al produttore 27:

[…]dinanzi ad un rifiuto con codice "a specchio", il detentore sarà obbligato ad eseguire le analisi (chimiche, microbiologiche, ecc.) necessarie per accertare l'eventuale presenza di sostanze pericolose, e l'eventuale superamento delle soglie di concentrazione; solo allorquando venga accertato, in concreto , l'assenza, o il mancato superamento delle soglie, di sostanze pericolose, il rifiuto con codice "a specchio" potrà essere classificato come non pericoloso.

Aderendo alla diversa prospettiva dedotta dal ricorrente, invece, ne deriverebbe che il detentore di un rifiuto con codice "a specchio" potrebbe classificarlo come non pericoloso, e di conseguenza gestirlo come tale, in assenza di analisi adeguate; ma tale interpretazione, oltre ad essere in contrasto con gli obblighi di legge, è evidentemente eccentrica rispetto all'intero sistema normativo che disciplina la gestione del ciclo dei rifiuti, e al principio di precauzione a esso sotteso [..]

Pertanto, compete al detentore del rifiuto dimostrare in concreto che, tra due codici "a specchio", il rifiuto vada classificato come non pericoloso, previa caratterizzazione dello stesso; in mancanza, il rifiuto va classificato come pericoloso (art 1, comma 6, Alleg. D).” 28

La sentenza sembra non tenere in considerazione il fatto che si tratta di fornire la “probatio diabolica” e quindi è impossibile che il produttore possa fornirla. Ciò crea un vulnus difficilmente sanabile poiché non potendo provare la non pericolosità di un rifiuto per l’impossibilità di farlo mediante i metodi analitici, tutti i rifiuti con codici a specchio dovrebbero essere considerati pericolosi. La sentenza ha, di fatto, abrogato i codici a specchio non pericolosi.

L’unico modo per provare che un rifiuto non è pericoloso sarebbe quello di applicare i metodi di prova, come prospettato da Amendola. Purtroppo per alcuni pericoli non esistono metodi di prova e la classificazione si deve fare, almeno per questi pericoli, solo con i metodi analitici ricadendo comunque nella trappola della “probatio diabolica”.

Speriamo che con altre sentenze la Corte di Cassazione possa sanare questo vulnus. In caso contrario è necessario un intervento del legislatore.

La classificazione del rifiuto

Una volta deciso quali sostanze pericolose si reputa siano presenti nel rifiuto e in quale concentrazione, si procede secondo i punti b) e c) del punto 4 della premessa all’allegato D:

b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso: la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi; le fonti informative europee ed internazionali; la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto;
c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all’analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti, ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo
.

Le norme per la classificazione dei rifiuti non fanno riferimento solo alle concentrazioni ma anche a prove per determinare i pericoli non denotati da limiti in concentrazione. Se si sospetta che il rifiuto possa presentare qualcuno di questi pericoli o contenga sostanze denotate da tali pericoli, si debbono eseguire le prove specifiche. Ad esempio, se si nota che il rifiuto tende a incendiarsi oppure nella caratterizzazione si è registrata la presenza di sostanze infiammabili, è necessario eseguire il test d’infiammabilità per escludere il pericolo HP3. Se il test non si esegue, il rifiuto deve essere classificato pericoloso per HP3.

Ovviamente se fra le sostanze decise come presenti non ci sono le sostanze pericolose alle quali alcuni pericoli sono attribuibili, le prove per tali pericoli possono essere ragionevolmente omesse ma il produttore si assume la responsabilità di tale scelta.

Nella prassi raramente sono eseguite le prove anche per i pericoli per i quali solo le prove possono decidere se un rifiuto sia pericoloso, contando sul fatto che la presenza del pericolo è poco probabile. Ad esempio per la classificazione di quasi tutti i rifiuti non si valuta quasi mai il pericolo HP1 poiché si considera che gli esplosivi non siano comunemente presenti nei rifiuti 29.

Per l’identificazione dei pericoli, anche nel caso dei limiti in concentrazione, il produttore, specialmente se ha una grande incertezza sulle sostanze presenti, può evitare le analisi di caratterizzazione e adottare direttamente i metodi di prova per gli specifici pericoli ipotizzati. Anzi, in caso di difformità tra i responsi di una prova e la valutazione del pericolo con la concentrazione, prevale il metodo di prova 30. Da questo punto di vista sembrerebbe sia più sicuro e preferibile adottare prioritariamente i metodi di prova, quando disponibili.

Va considerato tuttavia che i metodi di prova sono più complessi rispetto alle metodiche analitiche e perciò poco diffusi. Inoltre per alcuni pericoli, come HP5, HP6, HP7, HP10, HP11, HP13 non esistono metodi di prova. Non è da escludere tuttavia che una classificazione possa adottare un sistema misto di prove e misure analitiche che potrebbe conferire maggiore certezza alla classificazione di rifiuti, specialmente di quelli che sono poco conosciuti. La prassi attuale, incentrata quasi esclusivamente sui metodi analitici, con i quali i chimici sono più confidenti, è ormai quella consolidata anche se non è scevra da critiche, come quelle riportate da Amendola.

A differenza del metodo analitico, la classificazione dei pericoli mediante metodi di prova non ricade nella trappola della “probatio diabolica” poiché l’esecuzione di un limitato numero di test non è impossibile. L’esecuzione del metodo di prova dà la certezza 31 di poter escludere un pericolo, indipendentemente dalla presenza o meno delle sostanze e dalla loro concentrazione. Ciò potrebbe comportare che, almeno per i pericoli per i quali siano disponibili metodi di prova, non sia possibile invocare l’inversione dell’onere della prova. In tal caso è il produttore che deve dimostrare che i pericoli in questione non sono presenti e tale fatto potrebbe essergli contestato se non sono stati eseguiti i test per dimostrare l’assenza di tali pericoli. Quest’aspetto sembra sia stato, almeno sino ad ora, sottovalutato.

Ad esempio per decidere se un rifiuto è infiammabile si ha a disposizione solo una possibilità, indipendentemente dall’aver verificato la presenza di sostanze infiammabili, eseguire direttamente sul rifiuto il test di infiammabilità, di facile applicazione, il cui risultato permette di stabilire senza ombra di dubbio se il rifiuto sia pericoloso per quella caratteristica di pericolo. Se non si effettua il test perché dai risultati di caratterizzazione non sono probabilmente presenti sostanze infiammabili non è invocabile l’inversione dell’onere della prova perché il produttore ha a disposizione un test scientificamente certo per determinare il pericolo. Per fornire la dimostrazione che il pericolo HP3 non è presente, il produttore deve necessariamente far eseguire la prova e se non lo fa deve classificare il rifiuto come pericoloso per HP3.

Se decidesse di dimostrarlo con l’assenza delle sostanze infiammabili deve necessariamente far verificare che tutte le sostanze infiammabili, presenti con certezza scientifica, siano assenti.

Bisognerebbe valutare se, prima di eseguire un ampio spettro di analisi chimiche, non convenga eseguire prioritariamente una serie di prove, almeno quelle di più semplici applicazione, che quantomeno ridurrebbero il rischio che determinati pericoli siano scartati per insufficienza delle prove analitiche. Tuttavia tale prassi non si è diffusa e andrebbe quantomeno approfondita la possibilità della sua applicazione in modo più diffuso di quanto lo sia attualmente.

In linea di principio i pericoli HP1, HP2, HP3, HP4, HP8, HP12, HP14 e HP15 potrebbero essere esplorati con maggior successo mediante l’applicazione dei metodi di prova rispetto all’utilizzo dei metodi analitici, tenuto conto anche della superiorità dei metodi di prova rispetto a quelli analitici. Tuttavia, specie in alcuni casi, l’applicazione dei metodi proposti non è facilmente eseguibile e questa sembra la ragione per la quale i metodi di prova non si sono affermati rispetto al metodo delle concentrazioni 32, non solo presso i laboratori privati di analisi ma anche presso gli enti di controllo. Resta fermo comunque che i pericoli HP1, HP2, HP3, HP12 e HP15 vanno esplorati solo con metodi di prova la cui applicazione non è eccessivamente complicata e quindi dovrebbero essere di routine applicati per fornire la prova certa dell’assenza di tali pericoli.

Il pericolo HP9, come già detto in precedenza, è quello più facile da riscontrare perché non richiede né prove né analisi quali-quantitative ma semplicemente un’ analisi merceologica visiva del rifiuto.

A tal proposito, per restare nell’ambito della polemica e della sentenza criticata dal “parere”, se un rifiuto proveniente dal settore sanitario contiene tracce di sangue visibili, queste sono sufficienti a rendere il rifiuto pericoloso, anche se le poche gocce di sangue sono contenute in tonnellate di rifiuto. Infatti, se il rifiuto è in grande quantità e solo una piccola parte è contaminata, significa che un rifiuto non pericoloso è stato miscelato con un rifiuto pericoloso contenente sangue, operazione vietata e che ha reso tutto il rifiuto infettivo. Pretendere, in questo caso, che il rifiuto sia non pericoloso perché le sostanze contenute sono entro i limiti di concentrazione è un ragionamento fuorviante perché significa applicare al pericolo infettivo una metodologia di classificazione (comparazione con i valori limite) che non è applicabile per legge alla determinazione di tale pericolo.

La sentenza della Corte di Cassazione è criticabile sotto l’aspetto tecnico poiché ha trattato la questione della classificazione dei rifiuti con codice a specchio mediante metodi analitici proprio in un caso in cui questa metodica non è applicabile, fuorviata in ciò dal parere tecnico di parte e comunque per contrastare nello specifico lo stesso. Si deve riconoscere che nell’ultima parte, la sentenza tiene conto anche di questo fatto, il quale sarebbe stato sufficiente per rendere inammissibile il ricorso senza inoltrarsi in un campo minato come quello della classificazione mediante metodi analitici che non c’entrava per niente. A una tesi difensiva errata si è risposto con una conclusione altrettanto infelice. Il ricorso era inammissibile non tanto per la questione delle concentrazioni quanto ai sensi del DPR 15 luglio 2003, n. 254.

Critiche al principio di precauzione

Nel “parere pro veritate” citato si critica la sentenza della Corte di Cassazione per applicazione distorta del principio di precauzione, semplicemente perché questa sentenza riporta una frase ripresa dall’allegato D:

5. Se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche solo in modo aspecifico, e non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento i composti peggiori, in applicazione 33 del principio di precauzione .

Fermo restando quanto riportato da Amendola, la sentenza cita un testo di legge e pertanto è la norma che dovrebbe essere criticata e non la sentenza. Tuttavia non si ravvisa la ragionevolezza di tale critica, specialmente com’è posta. Il parere confonde il punto 5 della premessa all’allegato D, citato dalla sentenza, con il punto 5 dell’introduzione all’allegato D, che sono due punti distinti e si riferiscono a casi diversi : nel primo caso ci si riferisce alla situazione in cui non si conosca qual è la sostanza pericolosa presente mentre nel secondo al caso in cui la sostanza pericolosa sia nota. Si scambiano situazioni di conoscenza incerta con situazioni di conoscenza certa e la critica è pertanto infondata.

Se le sostanze specifiche che costituiscono il rifiuto non sono note significa che c’è un’incertezza scientifica pronunciata sulla presenza dei pericoli connessi a tali sostanze, e nel caso dell’incertezza scientifica si applica correttamente il principio di precauzione. Al contrario, se le sostanze sono note il principio di precauzione non trova applicazione e il rifiuto è pericoloso per superamento dei limiti.

Tuttavia si deve rilevare che nel testo citato si ravvisa la presenza della fallacia logica nota come negazione dell’antecedente 34, come già fatto notare 35, poiché non è vero che se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche in modo aspecifico, non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono poiché i composti possono essere noti anche da altre informazioni oltre a quelle aspecifiche analitiche. Dai componenti noti in modo aspecifico si delimita una gamma di composti presenti e tale gamma, sulla base di altre informazioni, può ragionevolmente essere ristretta e quindi escludere il composto più pericoloso in assoluto.

Ad esempio se dall’analisi aspecifica è presente zinco allora il composto da scegliere è il più pericoloso fra tutti i composti pericolosi dello zinco, vale a dire il cloruro di zinco (corrosivo) ma se dall’analisi aspecifica non sono presenti cloruri, è chiaro che si può scartare il cloruro di zinco e scegliere il composto più pericoloso compatibile con le altre informazioni.

La composizione elementare del rifiuto potrà dare utili indicazioni e, in base anche alla provenienza e alla stechiometria, identificare la gamma ristretta di composti fra i quali scegliere il più pericoloso, non il più pericoloso in assoluto, secondo la corretta applicazione del principio di precauzione che è una procedura giustificata solo quando riunisce le tre condizioni di base ossia l'identificazione degli effetti potenzialmente negativi, la valutazione dei dati scientifici disponibili e l'ampiezza dell'incertezza scientifica e si applica ove predomina l’incertezza scientifica e non quando la certezza sia ragionevole e proporzionale.

1 Chimici, Ordine interprovinciale dei chimici del Veneto.

2 Chimico, Ordine dei chimici di Treviso.

3 F. Martinelli, Parere pro veritate, Ordine Interprovinciale dei chimici del Lazio, Umbria, Abruzzo e Molise, prot. n. 161/FM/as/17, 12/02/2017.

4 G. Amendola, Voci a specchio: l’ordine dei chimici critica la cassazione per distorta interpretazione della legge , IndustrieAmbiente.it, 2017.

5 W. Formenton, M. Farina La nuova classificazione dei rifiuti pericolosi, Lexambiente.it, 20/3/2015.

W. Formenton, La nuova classificazione dei rifiuti pericolosi, Ecochem, 2015. Guida scaricabile dal sito www.ecochemgroup.it.

6 Corte di Cassazione Penale Sez. 3, 09/11/2016 (Ud. 03/05/2016). Sentenza n.46897.

7 Punto così modificato dall'art. 3, comma 6, legge n. 28 del 2012.

9 W. Formenton Guida tecnica alla classificazione dei rifiuti pericolosi, Ecochem 2014.

10 Regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione del 18 dicembre 2014 che sostituisce l'allegato III della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, GUUE L365/89 del 19/12/2014.

11 Il regolamento 1357 rimanda solo ai pericolo per esplosione, tuttavia gli stati membri possono attribuire la caratteristica anche in base ad altri criteri quali la valutazione del prodotto di lisciviazione. A oggi l’Italia non ha legiferato in merito e pertanto la caratteristica di pericolo HP15 si riferisce solo ai rifiuti che pur non essendo esplosivi di per sé possono diventarlo in seguito.

12 Regolamento 440/2008/CE della Commissione del 30 maggio 2008 che istituisce dei metodi di prova ai sensi del regolamento 1907/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l'autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH). GUCE L 142 del 31.5.2008. Aggiornato successivamente più volte.

13 Regolamento 1272/2008/CE relativo alla classificazione, all'etichettatura e all'imballaggio delle sostanze e delle miscele in GUUE L 353/1 del 31/12/2008.Più volte aggiornato.

14 In Italia si applica, ai sensi del punto 5 dell’allegato D, il metodo definito da ADR che risulta dieci volte meno cautelativo rispetto a quello specificato dal regolamento 1357/2014. Si tratta di un aspetto molto critico poiché il punto 5 dell’allegato D fa riferimento al fatto che la decisione 2000/532/CE non prevedeva al tempo alcuna specifica, ma la decisione è stata successivamente superata dal regolamento che ha definito il metodo per HP14. C’è un evidente contrasto fra la normativa italiana e quella europea che richiede un rapido intervento da parte del nostro legislatore sul punto 5 dell’allegato D che risulta pieno di contraddizioni, oltre che con sé stesso, come dimostrato in precedenza, anche con la normativa europea.

15 Il riferimento obbligatorio al DPR n. 254/2003 chiude qualunque discussione su questa particolare categoria di rifiuti, nonostante sia evidente che moltissimi altri tipi di rifiuti potrebbero essere a elevato rischio infettivo, secondo la definizione di “infettivo” riportata nel Regolamento 1357/2014: rifiuto contenente microrganismi vitali o loro tossine che sono cause note o a ragion veduta ritenuti tali di malattie nell’uomo o in altri organismi viventi .

16 O altri metodi di prova e linee guida riconosciuti a livello internazionale, tenendo conto dell'articolo 7 del regolamento (CE) n. 1272/2008 per quanto riguarda la sperimentazione animale e umana.

17 Il campionamento preleva una piccola parte di una partita di rifiuto e, per essere rappresentativo, è effettuato con metodi statistici e quindi c’è una probabilità calcolata e accettata che alcune sostanze non siano campionate e quindi siano assenti nel campione, anche se presenti nel rifiuto.

Il fatto che la norma preveda il campionamento implica che non è richiesta la certezza assoluta nella caratterizzazione del rifiuto ma solo una conoscenza probabilistica (certezza scientifica).

18 La certezza scientifica è una certezza probabilistica sottoposta al principio di falsificazione (Popper) ed è una rappresentazione approssimativa e provvisoria della certezza assoluta (verità). La falsificazione della certezza scientifica richiede l’inversione dell’onere della prova.

19 In linea di principio non si può escludere. Un dipendente dell’industria chimica potrebbe portare a casa la sostanza per darla a suo cugino, dipendente della fonderia che gliela chiesta pensando di usarla. Poi non la usa, se la porta in fabbrica e la butta sui rifiuti della fonderia. La probabilità dell’accadimento di tale sequenza di fatti è praticamente zero ma non zero, quindi c’è una probabilità, sia pure bassissima, che la sostanza possa essere presente nei rifiuti della fonderia.

20 Per queste sostanze non è necessaria l’analisi qualitativa in quanto già identificate.

21 Ricordiamo che l’analisi chimica qualitativa fornisce una risposta alla domanda: ”È presente la sostanza X?”. Non esiste una macchina analitica che risponda alla domanda: “Quale sostanza è presente?” e anche se in futuro esistesse, alcune sostanze potrebbero non essere rilevate a causa degli errori di campionamento.

22 C. Gramellini, L. Billi, A. Botti, La criticità nell’analisi dei rifiuti, Ecoscienza 5/6-2011

23 L’analisi quantitativa richiede la calibrazione con standard noti e per questo motivo la determinazione quantitativa è fatta dopo l’analisi qualitativa. Tuttavia alcuni strumenti utilizzati per l’analisi qualitativa possono essere già standardizzati per una serie di sostanze usualmente ricercate e in tali casi la determinazione qualitativa e quella quantitativa sono eseguite contemporaneamente.

24 La quantificazione delle sostanze non pericolose non è necessaria poiché non serve ai fini della classificazione. Ovviamente il produttore potrà far quantificare dal laboratorio anche queste con un aggravio dei costi e, in tal caso riporterà specificatamente anche la quantità delle sostanze non pericolose determinate.

25 La caratterizzazione dei rifiuti applica il metodo scientifico e pertanto la conclusione è una tesi sulla reale composizione del rifiuto che tuttavia rimane valida sino a che qualcuno non la falsifichi, ad esempio ripetendola o anche più semplicemente riscontrando delle contraddizioni nei ragionamenti logico-deduttivi utilizzati per indurre dai dati sperimentali la tesi.

26 La norma mette in capo al produttore e non al chimico la responsabilità della classificazione ed è chiaramente una scelta politica. Se la norma avesse responsabilizzato il chimico si sarebbe originata la cosiddetta “chimica protettiva”, analoga alla “medicina protettiva”, poiché l’interesse del chimico sarebbe stato quello di estendere il campo analitico il più possibile con costi elevati per il produttore che non ne avrebbe ricevuto vantaggi proporzionali, dovendo sostenere costi anche per rischi bassi o praticamente assenti.

27 Non è perciò onere del Pubblico Ministero il dimostrare la natura pericolosa del rifiuto in caso di contestazione di un illecito penale, né, a questo punto, per conseguenza, non dovrebbe essere onere neanche dell’Autorità Amministrativa come l’ARPA, ma solo ed esclusivamente del produttore. Questa non applicazione dell’inversione dell’onere della prova in un caso di “probatio diabolica”, desta non poche perplessità. Vediamo un caso concreto, riportando, in sunto, il resoconto stenografico del dialogo realmente avvenuto tempo fa fra un P.M. e il suo consulente.

P. M: Poi le chiederei e poi non la interrompo più... le chiederei di esporre le medesime considerazioni sui conferimenti nella discarica di cui ci occupiamo dal mese di dicembre del 2006.

C.T.P.M. Ho verificato se le caratterizzazioni dei rifiuti presenti in atti fossero esaustive. Mi sono subito accorto che i rifiuti erano caratterizzati dal 15% al 48%. Mi spiego. Cioè, se io ho un chilo di rifiuto o un litro di rifiuto, come vogliamo... e di questo rifiuto caratterizzo soltanto un etto e mezzo è chiaro che i restanti 8 etti e mezzo mi rimangono del tutto sconosciuti, quindi io non ho nessun modo di sapere che cosa c'è negli altri otto etti e mezzo. In pratica, se io voglio andare ad escludere una per una tutte le classi di pericolo perché voglio dimostrare che il rifiuto non è pericoloso, è chiaro che devo avere un'analisi totale e esaustiva al 100%.

P.M. – Quindi in un chilo del campione di rifiuto, il 15% era caratterizzato e l'85% no.

C.T.P.M. - Esatto e il resto no.

La domanda che qualsiasi chimico si pone di fronte a questa deposizione è: chi sostiene l’accusa, ha chiesto al suo consulente tecnico se avesse verificato cosa fosse il restante 85%? Evidentemente no! Siamo sicuri che, per esempio, se il rifiuto fosse stato costituito da segatura di puro legno vergine imbevuta di olio minerale, il 15% fosse l’olio ed il restante 85% non fosse altro che la segatura di legno vergine? E se il rifiuto fosse stato un liquido acquoso, il restante 85% non avrebbe potuto essere semplicemente l’acqua?

Per inciso, le affermazioni del C.T. del PM sono state decisive per la condanna.(Riportato da F. Albrizio).

28 Si ripropone ancora una volta la vexata quaestio fra l’approccio scientifico ad un problema e le regole del diritto. Il metodo scientifico è concettualmente diverso dal metodo giuridico anche se ambedue, ovviamente, vogliono accertare i fatti con la massima correttezza.

Se in giurisprudenza vi è certamente un atteggiamento di accettazione praticamente unanime nei confronti dei fenomeni regolati da leggi universali (la temperatura di fusione di un solido, il tempo di dimezzamento di un nuclide radioattivo o l’alternarsi delle maree …), resta molto più controversa l’accettazione delle leggi probabilistiche che invece sono diffusissime in campo scientifico e medico. Ciò è imputabile al fatto che il ragionamento scientifico, basato sul metodo induttivo, è probabilistico e deve essere falsificabile, per cui l’inversione dell’onere della prova fa parte del metodo, il ragionamento giuridico, basato invece sui metodi deduttivi della logica, richiede la prova diretta di un’affermazione, salvo nel caso della “probatio diabolica”, inventata per superare l’impasse del ragionamento logico che non può dimostrare che “il diavolo non esiste”. Nel metodo scientifico non esiste la “probatio diabolica”, anzi se esistesse, il metodo non sarebbe scientifico poiché non falsificabile. Questa è la ragione per la quale l’inversione dell’onere della prova è connaturale per gli scienziati ed è invece accettata con riluttanza dai giuristi.

29 In realtà diversi rifiuti potrebbero contenere Nitrato d’Ammonio e ciò dovrebbe far sospettare che il rifiuto possa essere esplosivo. Se il test non è eseguito ci sarebbe una ragione sufficiente per classificare il rifiuto HP1.

30 Decisione della Commissione del 18 dicembre 2014 che modifica la decisione 2000/532/CE relativa all'elenco dei rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, GUUE L365/89 del 19/12/2014.

31 Certezza scientifica poiché rimangono gli errori intrinseci al campionamento e ai metodi di prova.

32 Questa è anche la ragione per la quale il legislatore ha fissato limiti in concentrazione per determinati pericoli, anche se esistono i metodi di prova.

33 Si aggiunge (ndr distorta)

34 Un’altra ragione, oltre a quelle citate precedentemente, per la modica dell’allegato D.

35 W.Formenton, M. Farina Rifiuti. Classificazione dei rifiuti. Osservazione sulla premessa all’allegato D. Lexambiente.it, 10/3/2015