Fuori dal nichilismo con l’EoW?
di Alberto PIEROBON
La nota direttoriale del Ministero dell’ambiente- Direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento prot. 0010045 del 1° luglio 2016 avente per oggetto «Disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto - Applicazione dell’articolo 184 ter del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152» interviene nella famosa questione (appunto) dell’End of Waste (EoW).
In attesa dei previsti regolamenti comunitari e decreti ministeriali, molte attività e impianti italiani sono rimasti al palo, altresì bloccando le potenzialità nazionali del recupero di rifiuti, almeno per come riferibili alle sole autorizzazioni ordinarie, visto che il riferimento del d.m. 5 febbraio 1998 riguarda le autorizzazioni semplificate (art. 206 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, cosiddetto «codice ambientale») ed è ancora utilizzato/utilizzabile (quantomeno come base di riferimento, per la «discrezionalità tecnica») anche per quelle ordinarie (artt. 208, 209 e 211 codice ambientale).
La nota – che sembra essere pensata a mo’ di una «circolare» – precisa che le Regioni ben possono intervenire – appunto in assenza delle predette fonti europee e ministeriali – sull’EoW, adottando il criterio del caso per caso.
Volendo usare argomenti paradossali: alla religiosità (talvolta fondamentalista) del «tutto rifiuto» sta subentrando una sorta di secolarizzazione, che si traduce nella laicità del concetto di un materiale che, pur se «incarnato» in un «rifiuto», può cambiare sorte e identità, a certe condizioni (non come resurrezione astratta e generale) venendo utilizzato come se fosse un nuovo (sostituto del) materiale vergine, uscendo così da una sorta di nichilismo che condannava al nulla – al seppellimento, al bruciare, all’allontanare – molti materiali (rifiuti).
È l’attuale contingenza economico-storica che rende percorribile questa – che è una nostra consapevolezza di sempre – attuale «conversione», il che forse porterà a una nuova sacralità dove si riconciliano possibilità e realtà.
Non si tratta, si capisce bene, però di dono o carità religiosa, bensì di una necessità connessa alla penuria e ai costi delle fonti (materie prime), soprattutto con riferimento alla loro dipendenza e approvvigionamento, i quali elementi vieppiù evidenziano questioni geopolitiche di grande rilievo (come lo è per l’energia, per l’acqua, etc.).
La tecnica, com’è noto, amplia e inventa nuove possibilità di produrre e quindi di utilizzare anche diversi materiali. Finora le logiche di mercato hanno portato a una produzione che sfrutta il mondo come materiale, non come risorsa, donde il rischio dell’implodere del sistema-mondo. Qui pur perdurando lo sfruttamento (ed altre esigenze) si cambia ora registro.
È forse la dissoluzione del concetto forte di rifiuto nel moltiplicarsi delle differenze, delle metamorfosi? Si sta, sempre paradossalmente, tratteggiando una indifferenziazione delle differenze tramite il «caso per caso», introdotto (ora) con la procedura autorizzativa e tramite le volontà regionali? Si tralascia di notare che in questa dissoluzione si apre uno spazio importante ai protocolli dell’agenzia chimica europea, al Reach e agli altri strumenti che sembrano tutti convergere nel sostituire le «vecchie» procedure codificate dei rifiuti (ad esempio, ciò è avvenuto per la cellulosa, gli ammendanti, la fibra, etc.).
Sono – lo sappiamo tutti – la tecnica e il mercato che dettano le regole del gioco, spostando il sapere e i princìpi ambientali in una prassi dove l’inculturazione tecnica prevale sulla cultura lato sensu, in particolare quella giuridica che cerca (con sempre più difficoltà e «settarismo») di tenere fermi taluni valori e regole, se non una specie di «religiosità» (con sacerdoti, riti, cerimonie, etc.).
Del resto il mondo va da un’altra parte, lo si vede sempre più. E i privati nel loro agire, ognun se ne avvede, seguono sensi e fini che sono mondani.
Vero è (andando al dato giuridico) che la direttiva rifiuti n. 2008/9/CE e il d.l. 8 novembre 2008, n. 172 convertito, con modificazioni dalla l. 30 dicembre 2008, n. 210 sono orientati alla cosiddetta «società del riciclaggio».
Anche l’art. 184 ter del codice ambientale indica le fonti dell’EoW nei regolamenti comunitari e nei decreti nazionali da emanarsi per specifici rifiuti.
Invero, finora è uscito il solo decreto per i rifiuti da combustibile (CSS).
Per colmare questo vuoto, l’art. 9 del cit. d.l. n. 172/2008 rimette al sacramento delle autorizzazioni ordinarie e alle Regioni, il battesimo degli EoW «caso per caso».
Ci saranno forse Regioni a diverse velocità? Si avvererà un federalismo autorizzativo dove le Regioni, di fronte alle richieste dei privati, diversamente si approcceranno e decideranno?
Se, ad esempio, la Provincia autonoma di Bolzano, stabilirà – interpretando specifiche norme tecniche, magari in voga in altro stato UE, es. Austria o Germania – che un certo rifiuto possa diventare EoW, che succederà nella limitrofa Provincia di Trento? Si giungerà forse (contro i princìpi della libera circolazione di merci e del mercato) a stabilire che l’utilizzo dell’EoW possa avvenire confinata nella realtà provinciale? Oppure, si avrà un EoW casistico, cioè valevole per tutti?
Come abbiamo scritto altrove (Leggi d’Italia - Quotidiano PA del 12 luglio 2016) «questa strategia complessiva travolge le distinzioni selettive, come pure le preoccupazioni sui presupposti definitori di rifiuto. Insomma, la riscoperta del sostituto (delle materie prime) non può arrestarsi alla difficoltà del sostituito (rifiuto). Si superano i distinti nell’emporio di un mercato europeo e globalizzato che sostituisce i timori della piazza domestica, nell’aspettativa di un EoW che muoverà non solo il mercato, ma pure un diverso “potere”, abbisognante però di mediatori tecnici».
In questo cammino di per così dire... «desacralizzazione» del rifiuto, non legato a moduli né a saperi standardizzati, bensì alle tante e nuove possibilità del recupero e dell’utilizzo, il privato deve incontrarsi con la pubblica amministrazione (al di là del contraddittorio procedurale) per «confessare» all’ente autorizzante, i propri «segreti» e convincerla della propria bontà.
Si vuole infatti ottenere, una assoluzione-autorizzazione, quasi una «santificazione» del proprio buon agire, nella riconversione (o miracolo?) che va dal rifiuto al non più rifiuto.
Giammai si potranno però trascurare le conseguenze di questo agire e scelte (anche interpretative), in particolare il senso del rischio, il probabilismo, gli inediti rapporti causa-effetto, i nuovi pericoli, etc.
Concludendo: gli strumenti possono certamente (eccome!) revisionarsi, ma rimane fermo che l’obiettivo EoW non può sostituire le premesse da rispettare.
In questo senso la nota direttoriale ben poteva ricordare che, per autolimitare la discrezionalità e per rendere le decisioni più ponderate, servono dei minimi punti fermi nella istruttoria da svolgersi da parte degli organi autorizzativi.
Sicuramente le Regioni interverranno anche su questi aspetti.
pubblicato su www.osservatorioagromafie.it