Giampaolo Sechi - Avvocato Sulla nozione di produttore del rifiuto e sulle responsabilità penali connesse, con particolare riferimento all’attività di demolizioni edilizie. Nota a Corte di Cassazione, sezione terza penale 21/04/00 n. 4957(Rigotti + altri). LE PRINCIPALI FONTI DI INQUINAMENTO

 

La disciplina in materia di rifiuti è caratterizzata da un gran numero di disposizioni, alcune delle quali forniscono la nozione delle varie fasi di gestione dei rifiuti prodotti e contemplano la posizione di tutti i soggetti coinvolti in essa gestione. A ciascuno di questi soggetti le norme del decreto legislativo 05/02/97 n. 22 e successive modifiche ed integrazioni attribuiscono compiti specifici al cui mancato assolvimento sono riconnesse precise responsabilità amministrative e penali.

In particolare, l’art. 6 del decreto in questione alle lettere b) e c) del primo comma prende in considerazione il momento genetico del rifiuto laddove stabilisce che produttore è la persona (evidentemente fisica o giuridica) la cui attività ha prodotto rifiuti, e la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento o di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione dei rifiuti, aggiungendo che il detentore è il produttore dei rifiuti, o la persona fisica o giuridica che li detiene. Il successivo art. 10 completa il quadro prevedendo un catalogo degli obblighi imposti al produttore e al detentore.

In considerazione degli obblighi connessi alla figura e all’attività del produttore, si è posto in giurisprudenza il problema della corretta individuazione della persona del produttore nel caso in cui un certo soggetto, solitamente un imprenditore, compia l’attività di demolizione di uno stabile o di un edificio di proprietà di altri e si trovi così in carico (cfr. art. 12 D. Lgs. 22/97) i residui della demolizione stessa. La Corte di Cassazione (con la sentenza n. 222/2000) ha deciso per l’estensione della responsabilità penale, certamente configurata dal decreto in capo al demolitore, anche al proprietario dell’immobile abbattuto, magari, come nella fattispecie decisa, titolare della concessione edilizia e committente dell’attività di demolizione e ricostruzione di una certa opera.

In altre parole, con la sentenza 222/00, la Corte ritiene di dover considerare produttore del rifiuto anche il proprietario, considerandolo un coobbligato in posizione di garanzia identica a quella del produttore c.d. materiale, condannandolo così, come il demolitore, alla pena prevista per il reato di cui all’art. 51 comma secondo.

Le ragioni della opzione ermeneutica cui il supremo collegio accede risiedono essenzialmente nella interpretazione estensiva degli articoli 2, 6 e 10 del D. Lgs. 22/97, da cui si fa scaturire la conseguenza che è attività di produzione (o almeno situazione di detenzione) anche quella del soggetto che non compia alcuna attività materiale da cui derivi un rifiuto secondo la dizione dell’art. 6, e che si trovi rispetto ad esso anche solo in una qualunque posizione giuridica contemplata dall’ordinamento; per suffragare questa impostazione la Corte ritiene di individuare un aggancio testuale nelle norme del codice civile secondo cui il proprietario di un immobile non cessa di averne la materiale disponibilità per averne pattuito in appalto la ricostruzione o la ristrutturazione, incombendogli pur sempre un obbligo di vigilanza e di controllo secondo il canone della responsabilità propria del custode ai sensi dell’art. 2051 c.c.

Il risultato cui perviene la Corte, dunque, è quello di riconoscere la responsabilità penale (per omesso impedimento dell’evento del reato di deposito incontrollato) in capo al proprietario.

L’impostazione dei giudici di legittimità appare difficilmente condivisibile, anche perché dilata le maglie della responsabilità penale in modo preoccupante, forse in contrasto con il principio della tassatività della fattispecie penale.

Invero, la formulazione verbale dell’art. 6 del D. Lgs. 22/97 è tale, anche in considerazione dell’intero quadro legislativo nazionale e comunitario, da meritare un’interpretazione restrittiva che escluda il proprietario-committente che nessun ruolo abbia svolto nell’attività materiale di produzione del rifiuto. La dottrina più autorevole, che peraltro (e almeno fino a questo momento in cui si rende necessario commentare la sentenza della Cassazione) non ha mai dedicato puntuale attenzione al problema, aveva però messo in evidenza come il produttore debba essere inteso come colui che fisicamente abbia trasformato un bene facendolo diventare rifiuto, e come tale lo debba destinare ai legittimi canali di gestione. La conferma di questa opzione è offerta proprio dall’art. 6 primo comma lett. i) laddove si definisce il luogo di produzione del rifiuto come “uno o più edifici.......in cui si svolgono le attività di produzione dalle quali originano i rifiuti”, con ciò imponendo all’interprete di individuare il momento genetico nell’attività di produzione intesa in senso tecnico, cioè imprenditoriale o artigianale, e non certo in quella di detenzione, possesso o titolarità di un diritto reale su un bene da abbattersi (che, è il caso di sottolinearlo, non diventa rifiuto per la semplice decisione di disfarsene, se a questa decisione non consegua effettivamente il disfacimento – attraverso il conferimento a fasi di gestione – o se non sia imposto per legge o per provvedimento amministrativo l’obbligo di disfacimento).

Gli artt. 2 e 10 cui la Corte si richiama per sostenere un generale obbligo di cooperazione e posizione di responsabilizzazione nella gestione del rifiuto sono dettate al solo scopo di garantire, nei limiti del possibile, che ciascun rifiuto segua i canali che il legislatore ha ritenuto di dover tracciare per una gestione legittima secondo i principi e le finalità del decreto (cfr. art. 2 D. Lgs. 22/97). È agevole riscontrare, peraltro, che il terzo comma dell’art. 2 contempla espressamente i principi della responsabilizzazione e della cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella sola produzione, e dunque non nella titolarità di beni che rifiuti non sono se non (nel caso di specie) dopo l’effettivo e materiale abbattimento.

Anche la norma del codice civile (art. 2051) richiamata e applicata dalla Corte non sembra pertinente rispetto al caso concreto perché dettata per diversi fini: le cose in custodia vengono affidate ad un soggetto che assume in modo esclusivo la responsabilità, e ciò perché questi ne assume il controllo pieno, tale da consentirgli agevolmente di impedire che dette cose cagionino un danno. Intanto può ritenersi sussistente un obbligo di vigilanza in capo al custode in quanto questi abbia sottoposto la cosa al suo effettivo e non occasionale controllo fisico (così la stessa Corte di Cassazione in sentenze n. 1332 del 09/02/94 (sez. III civ.) e n. 3129 del 01/04/87 (ancora sez. III). In realtà nel caso di affidamento dei lavori all’impresa Alfa da parte del proprietario dell’opera da abbattere sembra arduo poter individuare anche in quest’ultimo una posizione di garanzia perché il proprietario-committente perde il potere di fatto sulla cosa, o, quanto meno, questo potere risulta essere molto più sfumato perdendo i caratteri della concretezza e dell’attualità.

Ma, a parte le perplessità che, per le suddette ragioni, suscita l’interpretazione delle norme ritenute applicabili, vi sono degli aspetti che la Corte, pur richiamandosi al quadro normativo nel suo complesso, non ha preso in considerazione: se si ritiene che anche il proprietario di un bene che diviene rifiuto per effetto dell’attività posta in essere da altri sia tenuto all’osservanza degli obblighi incombenti al produttore si giunge a conseguenze paradossali e obbiettivamente non volute dall’ordinamento. In primo luogo dovrebbe sostenersi che è produttore non solo il committente dell’opera di demolizione ma anche il proprietario dell’autoveicolo che richieda alla sua officina di fiducia la sostituzione di un elemento meccanico dello stesso (altrettanto e a maggior ragione per l’olio del motore periodicamente sostituito in relazione al quale il proprietario dell’auto dovrebbe ritenersi tenuto come il titolare dell’officina a dotarsi di autorizzazione allo stoccaggio, nonché alla rigorosa osservanza delle condizioni imposte per il deposito temporaneo). Logica e giuridica conseguenza di quella impostazione sarebbe quella di ritenere obbligati all’adesione ai consorzi obbligatori (es.: C.O.O.U., C.O.B.A., ecc.) anche i cittadini proprietari di qualunque veicolo.

In realtà, dall’analisi delle disposizioni in materia di rifiuti non sembra essere concepibile che vi sia più d’un produttore, ma, al contrario, sembra più agevole ed intuitivo che un solo soggetto possa ritenersi tale in relazione agli effetti dell’attività materiale che ha posto in essere e che pertanto uno solo sia obbligato a tenere un certo comportamento ai sensi dell’art. 10.

In secondo luogo la sentenza della Corte porta inevitabilmente (e irragionevolmente) alla duplicazione e moltiplicazione non solo della figura del produttore ma anche, per questa via, delle responsabilità amministrative e penali che l’ordinamento prevede: se, essendovi tenuto, adempia agli obblighi del produttore il (produttore)-proprietario non dovrà (e non potrà più) adempiere il demolitore (o comunque il soggetto che compia una attività materiale da cui ha origine un rifiuto) con ciò vanificando l’applicazione di quelle norme che solo al produttore (e dunque solo ad un soggetto) sono rivolte. Ciò comporterebbe un esonero automatico dall’obbligo di cui il produttore-imprenditore è certamente gravato.

Difficilmente applicabile risulterebbe poi l’art. 11 del D. Lgs. 22/97: il Modello Unico di Dichiarazione dovrebbe essere compilato e presentato anche (o solo?) dal proprietario, e non potrebbe fare altrettanto l’imprenditore che è certamente tenuto a comunicare annualmente con le modalità previste dalla legge 25 gennaio 1994 n. 70 le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto delle predette attività (portata alle estreme conseguenze, l’opzione della Corte ricomprenderebbe anche il proprietario della materia prima trasformata in un processo di lavorazione industriale). Inoltre ciascun individuo dovrebbe tenere anche il registro di carico e scarico numerato e vidimato dall’Ufficio del registro.

Un ultimo dubbio riguarda il formulario di identificazione dei rifiuti : se esso, dovendo accompagnare il rifiuto durante il trasporto, deve indicare il nome e l’indirizzo del produttore e del detentore, quale soggetto dovrà essere indicato sul primo dei quattro originali a ricalco?

Insomma, la sentenza della Corte si espone a più di una critica, e soprattutto non convince per le conseguenze in punto di fatto cui giocoforza conduce, rendendo di fatto concretamente inapplicabili alcune disposizioni e dilatando pericolosamente talune fattispecie incriminatrici