Cass. Sez. III n. 19439 del 23 maggio 2012 (Ud. 17 gen. 2012)
Pres. Teresi Est. Fiale Ric. Miotti
Rifiuti. Terre e rocce da scavo
In tema di terre e rocce da scavo non si rinviene una normativa più favorevole nel D.Lgs. 3.12.2010, n. 205, in seguito al quale viene definito sottoprodotto “qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all'art. 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all'art. 184-bis, comma 2" e ciò per la mancanza della certezza dell'utilizzo e per la mancata ottemperanza alle prescrizioni poste dai commi 3 e 4 del modificato art. 186 del D.Lgs. n. 152/2006. Di tale articolo, infatti, il D.Lgs. n. 205/2010 ha soltanto previsto la futura abrogazione ad opera di un decreto ministeriale (non ancora emanato) che dovrà definire i criteri qualitativi e quantitativi dei sottoprodotti e, una volta adottato tale decreto, troverà applicazione solo l'art. 184-bis dello stesso d.lgs. 152\06 disciplinante i sottoprodotti in generale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. TERESI Alfredo - Presidente - del 17/01/2012
Dott. LOMBARDI Alfredo - Consigliere - SENTENZA
Dott. FIALE Aldo - rel. Consigliere - N. 127
Dott. RAMACCI Luca - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. ANDRONIO Alessandro M. - Consigliere - N. 46850/2011
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) MIOTTI GIOVANNI N. IL 02/07/1958;
avverso la sentenza n. 1107/2008 TRIBUNALE di VICENZA, del 09/02/2011;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/01/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALDO FIALE;
udito il P.G. in persona del Dott. VOLPE Giuseppe che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per la parte civile, l'avv. Del Vescovo Matteo, quale sost. processuale dell'avv. Rizzato Andrea, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. Bisazza Oreste quale sost. processuale dell'avv. Furin Novelio, il quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.2.2011, ha affermato la responsabilità penale di Miotti Giovanni in ordine alla contravvenzione di cui:
- al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256 (per avere - quale legale rappresentante della s.r.l. "Miotti" - realizzato un deposito incontrollato di rifiuti, in assenza di ogni autorizzazione, collocando su un'area di mt. 40 x io un cumulo di materiale roccioso da escavazione - in Sandrigo, fino al 20.11.2006) e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, lo ha condannato afta pena di Euro 2.000,00 di ammenda ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile "Legambiente Volontariato Veneto - Onlus", liquidato in Euro 600,00.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del Miotti, il quale - sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione.
- ha eccepito:
- la erroneità della riconosciuta legittimazione a costituirsi parte civite della Onlus "LegamDiente Volontariato Veneto" e la illegittimità della intervenuta condanna al risarcimento del danno non patrimoniale che la stessa avrebbe subito.
Secondo la prospettazione del ricorrente, le associazioni di protezione ambientale, dopo la modificazione alla L. n. 349 del 1986, art. 18 operata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 318, possono intervenire nel processo penale soltanto ai sensi degli artt. 91 e segg. cod. proc. pen., mentre ne sarebbe preclusa la costituzione di parte civile, difettando in capo alle stesse la titolarità di un diritto soggettivo che le legittimi all'esercizio dell'azione risarcitoria. Nella specie, inoltre, non sarebbe ravvisa bile alcun pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, concretizzatosi in danno di Legambiente;
- la inconfigurabilità del reato contestato, perché l'imputato non avrebbe utilizzato te terre e le rocce da scavo in maniera difforme a quanto previsto in un progetto approvato dalla P.A., ma avrebbe semplicemente omesso di comunicare all'amministrazione le modalità di riutilizzo del materiale;
- la violazione del principio di offensività, che deve, comunque e in ogni caso, ispirare il giudice del merito nell'interpretazione della norma incriminatrice.
Il materiale oggetto di contestazione era, secondo le argomentazioni del consulente tecnico della difesa, "ferra pulitissima, sicuramente terreno vergine su cui non c'è stata mai alcuna forma di contaminazione nemmeno a tracce", sicché è evidente che il bene ambiente non è stato in alcun modo lesionato ne' messo in pericolo. Il difensore poi - con "motivi aggiunti" depositati il 2.1.2012 - ha ulteriormente prospettato l'insussistenza del reato anche alla stregua delle previsioni del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, u.c., nel testo in vigore dal 5 ottobre 2011, con riferimento agli artt. 184-bis e 184-ter di nuova introduzione.
Il patrono di parte civile, in data 12.1.2012, ha deposito memoria rivolta a confutare le argomentazioni svolte in difesa dell'imputato. CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi di ricorso riferiti all'affermazione della responsabilità dell'imputato devono essere rigettati, perché infondati.
2. Il Miotti è stato condannato per avere - senza autorizzazione - depositato su un fondo sito nel Comune di Sandrigo circa 650 mc. di materiale, prevalentemente costituito da pietrisco, proveniente da uno scavo effettuato, da soggetto diverso ed in località diversa (Comune di Lusiana), in occasione della realizzazione delle fondazioni di un edificio.
Secondo la prospettazione difensiva, detto materiale era destinato ad essere impiegato, come sottofondo, per la costruzione di un capannone agricolo.
3. La pronunzia di condanna si fonda essenzialmente sulla ritenuta necessità dell'autorizzazione per il deposito, essendo stata accertata la insussistenza di un progetto di riutilizzo ambientalmente compatibile del materiale depositato. 3.1 Va rilevato, in proposito, che il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 186, nella formulazione originaria (quella applicabile ratione tempore alla vicenda in esame), stabiliva che potevano ritenersi esclusi dalla categoria dei rifiuti e, quindi, dall'applicazione della Parte 4 dello stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, i materiali previsti al comma 1 (terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, anche eventualmente contaminati durante il ciclo produttivo da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione o costruzione) qualora gli stessi fossero utilizzati senza trasformazioni preliminari - secondo quanto previsto nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo il progetto approvato dall'autorità amministrativa competente e, ove espressamente previsto, previo parere dell'ARPA - e sempreché la composizione media dell'intera massa non presentasse una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti. Ai sensi del comma 4, art. 186, il rispetto dei limiti doveva essere verificato mediante la caratterizzazione iniziale, da ripetersi ogni qualvolta si verificassero variazioni del processo di produzione o della natura degli stessi, e la verifica poteva avvenire nel sito di produzione o, in alternativa, sui siti di deposito nel caso in cui non fosse possibile l'utilizzo immediato.
Il riutilizzo doveva avvenire, in ogni caso, entro 6 mesi dall'avvenuto deposito, salvo proroga su istanza motivata dell'interessato.
Tenuto conto della formulazione originaria del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 (dianzi succintamente delineata), rileva il Collegio che terre e le rocce, quando venivano portate nel sito di deposito, anteriormente alla loro caratterizzazione, erano ancora rifiuti, sicché il sito di deposito doveva essere autorizzato come messa in riserva.
Nella vicenda in esame (ove un'autorizzazione siffatta non risulta rilasciata) le modalità di utilizzo del materiale depositato, inoltre, non erano state indicate in un progetto sottoposto ad approvazione urbanistico-edilizia.
Esattamente, dunque, il Tribunale ha ritenuto carente anche la condizione dello "effettivo utilizzo" secondo la nozione fornita dalla previsione della norma applicata.
3.2 Non può considerarsi disciplina più favorevole - che, se fosse tale, sarebbe applicabile alla presente fattispecie ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4, - la normativa risultante dalle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 4 del 2008 al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, che ha subordinato la possibilità di utilizzare le terre e le rocce da scavo per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati, laddove siano state ottenute come sottoprodotti e, quindi, nella sussistenza delle seguenti condizioni:
- impiego diretto nell'ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti;
- certezza del loro integrale utilizzo fino dalla fase della produzione;
- possibilità tecnica dell'utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e, più in generale, ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sia destinata ad essere utilizzate;
- garanzia di un elevato livello di tutela ambientate;
- accertamento della mancata provenienza da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica;
- esistenza di caratteristiche chimiche e chimico-fisiche tali che il loro impiego nel sito prescelto non determini rischi per la salute e per la qualità delle matrici ambientali interessate ed avvenga nel rispetto delle norme di tutela delle acque superficiali e sotterranee, della flora, della fauna, degli habitat e delle aree naturali protette. In particolare deve essere dimostrato che il materiale da utilizzare non è contaminato con riferimento alla destinazione d'uso del medesimo, nonché la compatibilità di detto materiale con il sito di destinazione;
- dimostrazione della certezza dell'integrale utilizzo. La sussistenza delle condizioni per la utilizzazione come sottoprodotti delle terre e delle rocce da scavo deve risultare da apposito progetto (per le opere soggette a VIA ed AIA) ovvero dalla documentazione allegata agli elaborati progettuali nei casi di impiego in opere sottoposte a permesso di costruire, DIA o SCIA. Nel contesto di detta documentazione devono essere anche indicati i tempi dell'eventuale deposito in attesa dell'utilizzo.
Le autorità preposte ai procedimenti di formazione dei titoli abilitativi edilizi devono verificare la sussistenza delle condizioni per la riutilizzazione come sottoprodotti e, ove tali condizioni non siano verificate nelle forme prescritte, le terre e te rocce da scavo devono essere gestite come rifiuti.
Anche in relazione a tale disciplina ciò che manca - nella fattispecie in esame - è la certezza del riutilizzo integrale nell'ambito di un'opera previamente individuata e definita, nonché la presenza di esauriente documentazione allegata ad elaborati presentati per il conseguimento di un titolo abitativo edilizio con indicazione dei tempi previsti per il deposito in attesa dell'utilizzo.
3.3 Una normativa più favorevole neppure si rinviene nel D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, in seguito ai quale viene definito sottoprodotto "qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all'art. 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all'art. 184-bis, comma 2" e ciò sempre per la mancanza della certezza dell'utilizzo e per la mancata ottemperanza alle prescrizioni poste dal D.Lgs. n. 152 del 2006, modificato art. 186, commi 3 e 4. Di tale articolo, infatti, il D.Lgs. n. 205 del 2010 ha soltanto previsto la futura abrogazione ad opera di un decreto ministeriale (non ancora emanato) che dovrà definire i criteri qualitativi e quantitativi dei sottoprodotti e, una volta adottato tale decreto, troverà applicazione solo lo stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184-bis, disciplinante i sottoprodotti in generale.
Non trova invece applicazione, nella specie, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, che disciplina il riutilizzo del materiale escavato nel corso di attività di costruzione nel medesimo cantiere di produzione, cioè nello stesso sito in cui è stato escavato. 4. Quanto alla lamentata violazione del principio di necessaria offensività della condotta, il Collegio - tenuto conto dei criteri affermati dalla Corte Costituzionale nelle sentenze 24.7.1995, n. 370, 11.7.2000, n. 263, 21.11.2000, n. 519 e 7.7.2005, n. 265 - rileva che, nella specie, non viene posto in discussione il parametro dell'offensività in astratto, riconduciate al 2 comma dell'art. 25 Cost. (intesa come necessità che la condotta penalmente perseguita sia suscettibile di ledere o porre in pericolo un bene o interesse di rilievo costituzionale), bensì quello dell'offensività in concreto, da ravvisarsi almeno in grado minimo nella condotta tenuta dall'agente, che costituisce un criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice del merito, tenuto ad accertare, specialmente nell'interpretazione dei reati formali e di pericolo presunto, che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice. Nei reati di pericolo l'offesa al bene giuridico protetto consiste in un nocumento potenziale dello stesso, che viene soltanto minacciato, e - come evidenziato da autorevole dottrina - può parlarsi di "pericolo" quando, secondo un giudizio ex ante e secondo la migliore scienza ed esperienza, appare probabile che dalla condotta consegua l'evento lesivo.
In conformità alla funzione preventiva dei reati di pericolo, è pertanto essenziale che la valutazione debba essere retrocessa al momento della condotta (giudizio prognostico ex ante). Alla stregua di tali principi, non può ritenersi che, nella specie, la sanzione penale sia stata inflitta per una condotta inosservante totalmente inoffensiva, in quanto nelle omissioni riscontrate in concreto deve ritenersi contenuto un disvalore tale da potere sicuramente integrare la messa in pericolo dell'ambiente (oltre che della gestione in mano pubblica della risorsa ambientale) quale bene finale tutelato.
Non può parlarsi, infatti, di infrazioni aventi natura esclusivamente formale, poiché sicuramente la carenza del prescritto controllo amministrativo preventivo sullo svolgimento dell'attività ha connotazioni intrinseche di rischio, in quanto è in grado di mettere in pericolo la salubrità dell'ambiente.
Anche la Corte di Giustizia - con la sentenza 18.12.2007, causa C- 194/05 - ha avuto occasione di rilevare che le operazioni di deposito delle terre e delle rocce da scavo in vista di un successivo riutilizzo effettivo sono "atte a configurare un onere per il detentore e sono potenzialmente fonte di quei danni per l'ambiente" che la disciplina comunitaria sui rifiuti "mira specificamente a limitare".
Le argomentazioni svolte sul punto in ricorso evocano, invece, un giudizio ex post (per l'assenza, successivamente riscontrata, di qualsiasi forma di contaminazione nel materiale oggetto di contestazione), che priva il reato di pericolo della sua funzione di tutela anticipata, facendo dipendere la presenza o assenza del pericolo stesso dalla presenza o dall'assenza della lesione in un momento in cui l'evento lesivo non è più probabile ma si è verificato o non verificato.
5. Fondate sono, invece, le doglianze rivolte a contestare la legittimità della condanna al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile "Legambiente Volontariato Veneto - Onlus". 5.1 La L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18 (istitutiva del Ministero dell'ambiente) ha introdotto nel nostro ordinamento, quale forma particolare di tutela, l'obbligo di risarcire il danno cagionato all'ambiente (alterazione, deterioramento o distruzione anche parziale) a seguito di una qualsiasi attività, dolosa o colposa, compiuta in violazione di un dispositivo di legge o di un provvedimento adottato in base a legge.
È stata così prevista una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale (aquiliana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno "ingiusto" all'ambiente, dove l'ingiustizia è stata correlata alla violazione di una disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento è stato individuato nello Stato.
Il citato art. 18 prescriveva che l'azione di risarcimento dei danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, potesse essere promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo (comma 3). La strada risarcitoria restava aperta ai privati solo ove essi lamentassero la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale, sia esso la salute che il diritto di proprietà o altro diritto reale.
5.2 Il D.Lgs. n. 152 del 2006 (art. 318) ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale) la L. n. 349 del 1986, art. 18 e, nell'art. 300 (commi 1 e 2), ha definito la nozione di "danno ambientale" con riferimento a quella posta, in ambito comunitario, dalla direttiva 2004/35/CE. Lo stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311 riserva allo Stato, ed in particolare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale.
Ai sensi del successivo art. 313, comma 7, comunque, "resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella foro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti dei responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi".
5.3 La normativa speciale dal "danno ambientale" dianzi descritta si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, sicché le associazioni ambientaliste - pure dopo l'abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9, comma 3, abrogato dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 318) - sono legittimate alla costituzione di parte civile "ture proprio", nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all'ambiente, per il risarcimento non del danno all'ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell'ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale (vedi Cass., sez. 3: 3.10.2006, n. 36514, Censi; 11.2.2010, n. 14828, De Flammineis).
Le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l'interesse all'ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato (vedi Cass., sez. 3: 25.1.2011, Pelioni; 21.6.2011, Memmo).
Ritiene il Collegio al riguardo (confermando l'orientamento espresso da questa 3 Sezione nella sentenza 21.6.2011, Memmo e nella consapevolezza delle non convergenti posizioni enunciate nelle sentenze n. 14828/20010 e n. 41015/2010, contenente quest'ultima il riferimento ai solo "danni patrimoniali") che il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica possa configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all'attività concretamente svolta dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela.
La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 cod. civ., poiché l'art. 185 c.p., comma 2, - che costituisce l'ipotesi più importante "determinata dalla legge" per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. - dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale" obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi "danneggiato" per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.
5.4 Tanto premesso, va rilevato che la Corte di merito - nella vicenda in esame - ha ravvisato l'esistenza di un pregiudizio per la parte civile "Legambiente Volontariato Veneto - Onlus", testualmente argomentando che "La violazione dell'obbligo di conformare il proprio operato alla normativa sulla gestione dei rifiuti costituisce una fonte di danno per le associazioni ambientali che fanno della tutela dell'ambiente il proprio obiettivo. La condotta di imprenditori che non osservano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge e dagli atti amministrativi autorizzativi pone, per ciò solo, a repentaglio l'efficienza del sistema previsto per la prevenzione e la riduzione dell'inquinamento ed in tal modo danneggia l'attività dei corpi sociali che si propongono di sostenere e rendere quanto più possibile efficace il detto sistema. Per queste ragioni spetta a Legambiente Volontariato Veneto il risarcimento del danno non patrimoniale riportato, anche se dalla trasgressione in esame non risulta siano derivati in concreto fenomeni permanenti di inquinamento".
Tali enunciazioni, però, non si conformano ai principi dianzi enunciati, in quanto omettono di individuare quali siano i danni direttamente subiti dalla parte civile (pur legittimamente costituita): danni che, come si è detto dianzi, devono essere diretti e specifici, nonché ulteriori e diversi rispetto a quello della lesione dell'ambiente come bene pubblico.
6. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata limitatamente alle statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente in grado di appello, mentre devono essere rigettati tutti gli altri motivi di ricorso.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente in grado di appello. Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2012.
Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2012