Presidente: Sensale A. Estensore: Benini S. P.M. Russo LA. (Conf.)
Sardone (Romanelli) contro Min. Beni Culturali (Avv. Gen. Stato)
(Cassa senza rinvio, App. Torino, 23 maggio 1997).
ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICO INTERESSE (O UTILITÀ) - PROCEDIMENTO - LIQUIDAZIONE DELL'INDENNITÀ - DETERMINAZIONE (STIMA) - IN GENERE - Area soggetta a vincolo archeologico - Interesse archeologico riguardante l'area nel suo complesso - Inedificabilità assoluta - Sussistenza - Conseguenze - Valutazione alla stregua di area agricola - Necessità.
Il vincolo di inedificabilità connesso alla presenza di testimonianze archeologiche non è astrattamente qualificabile come assoluto, non potendosi teoricamente escludere un'attività edificatoria che non snaturi ne' pregiudichi la conservazione ed integrità dei reperti archeologici, a meno che, secondo l'apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in cassazione se congruamente motivato, non debba ritenersi che in concreto l'interesse archeologico non rimane circoscritto ad alcuni resti presenti nell'area, ma si correla al luogo nel suo complesso, quale sede di una pluralità di reperti testimonianti uno specifico assetto storico di insediamento: ne consegue che l'inedificabilità assoluta determina il regime indennitario, per il caso di espropriazione, commisurato al valore agricolo, senza che abbia rilevanza la prevista realizzazione di strutture a servizio del sito (parco archeologico ed antiquarium), discendendo dal sistema dell'art. 5 bis legge 8.8.1992 n. 359 che la presenza di un vincolo conformativo della proprietà non ammette ai fini indennitari alcuna valutazione integrativa sulle possibilità effettive di edificazione o comunque di sfruttamento economico alternativo del fondo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Antonio SENSALE - Presidente -
Dott. Michele ANNUNZIATA - Consigliere -
Dott. Francesco FELICETTI - Consigliere -
Dott. Sergio DI AMATO - Consigliere -
Dott. Stefano BENINI - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
SARDONE RITA, FOGLIA GIANFRANCO, elettivamente domiciliati in ROMA
VIA COSSERIA 5, presso l'avvocato ROMANELLI GUIDO FRANCESCO, che li
rappresenta e difende unitamente all'avvocato LUDOGOROFF RICCARDO,
giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrenti -
contro
MINISTERO PER I BENI CULTURALI E AMBIENTALI, in persona del Ministro
pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope
legis;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 719/97 della Corte d'Appello di TORINO,
depositata il 23/05/97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
18/01/2000 dal Consigliere Dott. Stefano BENINI;
udito per il ricorrente, l'Avvocato Romanelli, che ha chiesto
l'accoglimento del ricorso; udito per il resistente, l'Avvocato dello
Stato La Porta, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Rosario RUSSO che ha concluso in via principale: per l'annullamento
della sentenza per carenza del presupposto del provvedimento
oblatorio per quanto riguarda la questione dell'indennità di
esproprio, in subordine: per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 14.12.1995, Sardone Rita e
Foglia Gianfranco convenivano in giudizio il Ministero per i beni
culturali e ambientali davanti alla Corte d'appello di Torino,
opponendosi alla stima è chiedendo la determinazione dell'indennità
di occupazione e di esproprio relativamente a terreni di loro
proprietà, dichiarati d'importante interesse archeologico con d.m.
30.11.1982, occupati a fini di ricerca archeologica, e
successivamente sottoposti a procedura espropriativa da parte
dell'amministrazione convenuta, con la dichiarazione di pubblica
utilità delle opere relative alla conservazione, tutela e
valorizzazione dell'area archeologica, e con l'occupazione d'urgenza
dell'area stessa.
Si costituiva in giudizio il Ministero per i beni culturali e
ambientali, contestando il fondamento della domanda, di cui chiedeva
il rigetto.
Con sentenza depositata il 23.5.1997, la Corte d'Appello di
Torino, ritenuto che sull'intera proprietà degli opponenti gravasse
un vincolo di inedificabilità assoluta, e che di conseguenza
l'indennità di esproprio dovesse essere liquidata secondo il
criterio del valore agricolo medio, di cui all'art. 16 l. 22.10.1971
n. 865, determinava l'indennità in L. 46.770.400 e l'indennità di
occupazione in L. 7.795.066.
Ricorrono per Cassazione Sardone Rita e Foglia Gianfranco
affidandosi ad un solo motivo, al cui accoglimento si oppone con
controricorso l'Avvocatura generale dello Stato, per conto del
Ministero per i beni culturali e ambientali.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo di ricorso, Sardone Rita e Foglia Gianfranco,
denunciando errore di fatto, violazione dell'art. 5 bis l. 8.8.1992
n. 359, della legge 1^.6.1939 n. 1089, carenza e contraddittorietà
di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto la
natura inedificabile del terreno, e dunque l'indennizzabilità a
valore agricolo dei terreni, mentre la presenza del vincolo
archeologico non è di per sè idonea ad escludere l'edificazione dei
terreni nella loro integrale estensione, anche per il fatto che gli
scavi hanno riguardato la proprietà solo in parte, e le aree
assoggettate a procedura ablatoria sono caratterizzate da
possibilità sia legali che effettive di edificazione.
Pregiudizialmente, si rileva dalle deduzioni dell'Avvocatura
generale, che è pendente davanti a questa Suprema Corte, ed in fase
di fissazione della data dell'udienza, il ricorso proposto dal
Ministero contro la sentenza di rigetto della propria domanda di
revocazione, proposta avverso la sentenza oggetto dell'impugnazione
all'odierno esame. Ciò tuttavia non impedisce, a parere del
collegio, la trattazione del ricorso per cassazione contro la
sentenza di merito, poiché alla luce dell'art. 398 c.p.c., come
modificato dall'art. 68 l. 26.11.1990 n. 353, vi è completa
autonomia tra il giudizio di cassazione e quello per revocazione,
almeno finché il giudice investito di quest'ultima non ritenga di
sospendere i termini per la proposizione del primo o il procedimento
di cassazione stesso. Tanto più qualora tra le due cause non
sussista interferenza di questioni. Nel presente processo si dibatte
sul criterio di indennizzo adottabile, se quello proprio delle aree
edificabili o quello delle aree inedificabili. Il giudizio di
revocazione attiene, diversamente, alla concreta determinazione del
valore agricolo, ove sia applicabile il secondo criterio. Che anzi,
se una pregiudizialità è ravvisabile, essa sussiste a favore del
presente giudizio, all'esito del quale, in ipotesi, potrebbe cessare
la materia del contendere del giudizio di revocazione, qualora si
ritenessero applicabili le regole di indennizzo per i suoli
edificabili. Diversamente, se nell'odierna sede si ritenga di
confermare la sentenza di merito, che ha ritenuto l'applicabilità
del criterio dei suoli inedificabili, la pendenza del giudizio di
cassazione avverso la sentenza che ha deciso sulla revocazione
impedirebbe comunque il passaggio in giudicato della sentenza di
merito (art. 324 c.p.c.) . In sede di revocazione, in tal caso, si
approderebbe alla definizione concreta di uno degli elementi di
determinazione del quantum, sul presupposto dell'applicabilità del
criterio generale delle aree inedificabili.
Il giudizio ha per oggetto sia l'indennità di esproprio che
l'indennità di occupazione: pur se il ricorso contiene costante
riferimento alla dedotta erroneità dell'indennità di
espropriazione, dal tenore generale dell'impugnazione, della memoria
depositata per l'udienza, e della stessa discussione orale del
difensore, tenuto conto del fatto che la liquidazione del compenso
per il mancato godimento dell'immobile è del tutto consequenziale al
calcolo dell'indennità espropriativa, va ritenuto che i ricorrenti
si dolgano della determinazione, operata dal giudice di merito, di
entrambe le indennità espropriative.
Le azioni per la determinazione delle indennità espropriative
possono essere iniziate indipendentemente dalla stima amministrativa:
ma se il compenso per l'occupazione può in teoria essere determinato
via via che il bene resti sottratto al godimento del proprietario,
anche se i frutti maturano alla scadenza di ogni annualità o
frazione di annualità (Cass. 5.2.1999, n. 27/SU), non appena sia
avvenuta l'apprensione del bene da parte dell'occupante (Cass.
21.11.1998, n. 11773), la determinazione dell'indennità di esproprio
è condizionata alla rituale conclusione del procedimento ablatorio.
Con riguardo alla fattispecie, lo stesso giudice di merito dà
atto (e le parti non hanno smentito nel corso della discussione
orale), che la procedura ablatoria non si è conclusa con un decreto
di esproprio. L'occupazione, prima disposta a fini di ricerca
archeologica, e successivamente (dal 1990) anche per la sistemazione
dei resti e delle strutture, e dunque in anticipazione
dell'esproprio, non è stata seguita da provvedimento ablatorio, pur
se l'amministrazione ha provveduto alla determinazione
dell'indennità, alla quale i proprietari si sono opposti, dando
luogo alla presente causa.
Sussiste un indissolubile collegamento tra l'indennità di
espropriazione ed il momento del trasferimento della proprietà del
bene, attraverso l'espropriazione per pubblica utilità, nel senso
che l'ammontare dell'indennità deve determinarsi con riferimento
alla data del provvedimento ablatorio. Di conseguenza non è
possibile alcuna statuizione su detto ammontare, se il provvedimento
di espropriazione non è sopravvenuto, costituendo tale
sopravvenienza presupposto indefettibile e, quindi, condizione
dell'azione di determinazione definitiva dell'indennità (Cass.
29.11.1999, n. 833; 11.10.1999, n. 11370). Tale principio, affermato
con riguardo alla procedura espropriativa regolata dalla l.
22.10.1965 n. 871, in cui è ben proponibile, in seguito alla
sentenza Corte Cost. 22.2.1990, n. 67, l'azione di determinazione
dell'indennità a prescindere dalla stima amministrativa, è a
maggior ragione alla base della procedura di cui alla legge 25.6.1865
n. 2359, in cui la determinazione dell'indennità è tutt'uno con il
decreto ablatorio, ed in cui non si dà per definizione il caso di
una liquidazione amministrativa definitiva dell'indennità,
indipendente dalla conclusione del procedimento ablatorio (art. 51 l.
2359/1865).
Poca importanza ha stabilire se la procedura applicata, nella
fattispecie all'esame, sia stata quella regolata dalla legge
fondamentale delle espropriazioni, come sarebbe stato corretto,
trattandosi di opere di interesse statale, o diversamente si sia
fatto riferimento alla legge 865/71, come sarebbe dato di desumere
dalla sentenza impugnata e dal contegno e dalle affermazioni delle
parti (circa l'avvenuta offerta di indennità provvisoria, la
determinazione da parte della Commissione provinciale, l'opposizione
alla stima davanti alla Corte d'appello).
Nè possono configurarsi deroghe di sorta in materia di
espropriazioni per fini di tutela del patrimonio storico - artistico
(artt. 54-56 l. 1^.6.1939 n. 1089), in cui sono applicabili, come
già rilevato, le norme procedurali della l. 2359/1865, cui peraltro
fa richiamo l'art. 68 r.d. 30.1.1913 n. 363 (regolamento tuttora
vigente in virtù del richiamo di cui all'art. 73 della legge
1^.6.1939 n. 1089). Diversamente, in materia di determinazione
dell'indennità, la norma fondamentale è ora l'art. 5 bis l.
8.8.1992 n. 359, che a seconda della edificabilità o meno dell'area
espropriata, adotta il criterio della semisomma dettato dal primo
comma, o rinvia al titolo II della l. 22.10.1971 n. 865.
In mancanza di decreto di esproprio entro la scadenza del
termine di occupazione legittima, dunque, non sussiste il presupposto
idoneo a trasformare il diritto di proprietà in diritto
all'indennizzo, e ciò comporta che il giudice debba porsi d'ufficio
la relativa questione (Cass. 4.9.1999, n. 9382), anche in sede di
legittimità (Cass. 7.4.1998, n. 3559; 19.5.1989, n. 2397).
La sentenza deve essere cassata senza rinvio, sul punto
concernente la determinazione dell'indennità di esproprio,
ravvisandosi un'ipotesi nella quale il processo non poteva essere
proseguito.
Lo svolgimento della vicenda suggerisce che alla scadenza
dell'occupazione i proprietari avrebbero dovuto optare per la tutela
risarcitoria: non sembra configurabile, infatti, una possibilità di
restituzione del bene, in primo luogo per la presenza, all'interno di
esso, di emergenze archeologiche che, dal momento della scoperta,
sono da ritenere appartenenti al demanio (art. 822, secondo comma,
c.c., in relazione all'art. 44 l. 1089/39; vedi ora l'art. 88 d.lgs.
29 ottobre 1999, n. 490). Per la parte di suolo ancora da
assoggettare a scavi per riportare in luce le testimonianze
archeologiche nel suo complesso, sembra configurabile un'ipotesi di
occupazione appropriativa. L'acquisizione del bene alla proprietà
pubblica, conformemente alla dilatazione che tale istituto ha
ricevuto nell'applicazione giurisprudenziale, sembra dipendere
nell'ipotesi non tanto dall'irreversibilità delle trasformazioni
materiali apportate durante l'occupazione (che pure ricorrono
nell'ipotesi di occupazione a fini di ricerca archeologica), quanto
dalla preponderanza del publicum sulla proprietà privata in seguito
all'emergere delle testimonianze storico-culturali, con la nascita di
esigenze di conservazione, tutela, valorizzazione. La nozione di
"opera pubblica" è andata via via espandendosi, fino a ricomprendere
ogni intervento dei pubblici poteri diretto ad ottenere
nell'interesse della collettività, una durevole modificazione del
mondo fisico, a prescindere da iniziative edificatorie in senso
stretto (Cass. 3.4.1997, n. 2897; 15.7.1999, n. 394), tanto più che
anche la procedura espropriativa ritualmente condotta al fine di
tutela di beni archeologici, è di per sè satisfattiva del pubblico
interesse indipendentemente dalla realizzazione di opere (Cass.
31.7.1969, n. 2908).
Il ricorso va ora esaminato sotto il solo profilo di riscontrata
procedibilità, ovvero con riguardo all'indennità di occupazione.
Il legame funzionale ravvisabile tra il procedimento di
occupazione e la successiva ablazione del bene, nel senso che il
primo è fase preliminare e quasi indefettibile dell'espropriazione,
fa si che l'indennità di occupazione è determinabile sulla base di
una percentuale dell'indennità di esproprio, avendo la funzione di
ricostituire il patrimonio del soggetto espropriato nella parte in
cui viene depauperato della somma corrispondente ai frutti civili che
avrebbe percepito se gli fosse stata corrisposta l'indennità di
esproprio al momento dello spossessamento (Cass. 29.8.1998, n. 8596).
Ove il procedimento ablatorio non abbia avuto rituale
conclusione, o per essere avvenuta la restituzione del bene, o per
l'irreversibile trasformazione del fondo quale modo d'acquisto della
proprietà alla mano pubblica a titolo originario, l'indennità di
occupazione è determinabile in base ad un calcolo fondato su un dato
virtuale, costituito dall'indennità di espropriazione che sarebbe
spettata ove il procedimento si fosse concluso. La regola vale sia
nell'ipotesi di aree edificabili (Cass. 20.1.1998, n. 493; da ultimo:
Cass. 7.6.1999, n. 5551), che per le aree soggette alla disciplina
indennitaria delle aree agricole (art. 5 bis l. 8.8.1992 n. 359, il
cui quarto comma richiama il titolo II della l. 22.10.1971 n. 865),
per le quali l'indennità di occupazione corrisponde ad una somma
pari, per ciascun anno di occupazione, ad un dodicesimo
dell'indennità che darebbe dovuta per l'espropriazione (art. 20,
terzo comma, l. 865/71).
Dovendosi allora verificare il calcolo dell'indennità di
esproprio (che tuttavia non è dovuta per la mancanza, sopra
rilevata, del decreto di esproprio), debbono esaminarsi le censure
mosse con il ricorso ai criteri adottati dal giudice di merito per la
determinazione dell'indennità: i ricorrenti si dolgono, in sostanza,
che i terreni siano stati considerati alla stregua di suoli agricoli,
con l'adozione dei meno favorevoli criteri indennitari dell'art. 16
l. 865/71, piuttosto che di quelli dettati dal primo comma dell'art.
5 bis l. 359/92, per le aree edificabili.
Il ricorso è infondato.
Le doglianze dei ricorrenti attengono a contestazioni
sostanzialmente in punto di fatto, come del resto riconoscono nella
stessa intestazione del motivo di censura, che denuncia "errore di
fatto". Essi lamentano infatti che il giudice di merito abbia
ritenuto che la situazione di inedificabilità, determinante
l'opzione indennitaria per i criteri indicati dalla l. 865/71,
interessasse l'intero compendio soggetto a procedura ablatoria.
Diversamente, la Corte d'appello ha dato congrua e logica
motivazione sul punto che le aree, a suo tempo dichiarate
d'importante interesse archeologico nella loro estensione integrale,
debbono essere considerate assolutamente inedificabili, senza
esclusione di porzioni di terreno. Il ragionamento è in parte
condotto secondo presunzioni, senza che peraltro ne risulti
compromessa la logicità dello sviluppo argomentativo e la
condivisibilità dei risultati: l'evidenza delle testimonianze
archeologiche messe in evidenza dagli scavi va posta in relazione con
l'estensione topografica delle strutture, desumibile dalla tipologia
delle ville romane rustiche dei primi secoli dell'impero, e induce a
ritenere che la proprietà dei ricorrenti nella sua integrale
estensione sia interessata dai resti, in modo tale da non tollerare
la trasformazione edilizia delle aree, pur se le testimonianze
murarie non siano state ancora interamente riportate alla luce.
Per i terreni sui quali è presumibile l'esistenza di reperti,
il giudizio di inedificabilità è attribuito all'apprezzamento del
giudice di merito, ed è incensurabile in cassazione, se congruamente
motivato: se è anche vero che il vincolo di inedificabilità
connesso alla presenza di testimonianze archeologiche non è
astrattamente qualificabile come assoluto (non potendosi teoricamente
escludere un'attività edificatoria che non snaturi ne' pregiudichi
la conservazione ed integrità dei reperti archeologici), è tuttavia
da rilevare che, in concreto, tale vincolo di inedificabilità si
configura come assoluto quando l'interesse archeologico non rimanga
circoscritto ad alcuni resti presenti nell'area, ma si correli al
luogo nel suo complesso, quale sede di una pluralità di reperti
testimonianti uno specifico assetto storico di insediamento (Cass.
21.5.1998, n. 5060). Del resto, l'argomentazione condotta dalla Corte
d'appello di Torino, per cui tutta la proprietà espropriata è
interessata dalle testimonianze archeologiche, come gli scavi
condotti durante l'occupazione hanno dimostrato, tanto da imporre in
epoche successive una fascia di rispetto ad una consistente
superficie limitrofa alle particelle 280, 281, 282, del foglio 11
C.T. del Comune di Albese, di proprietà dei ricorrenti, trova
riscontri nel dibattito, sviluppato dalla giurisprudenza
amministrativa, sulla legittimità d'imposizione del vincolo, anche
in assenza di reperti affioranti. L'esistenza di reperti, che
ovviamente preclude un'attività edificatoria, può desumersi, oltre
che dal loro ritrovamento, da elementi di valutazione e ricerca
storica atti a condurre ad una ragionevole supposizione della loro
esistenza: Cons. Stato, sez. VI, 1 febbraio 1996, n. 165; o dal
reperimento di ruderi in zona limitrofa: 18 settembre 1992, n. 674;
13 aprile 1992, n. 261. L'estensione può riguardare terreni
limitrofi ai fondi nei quali tali reperti sono stati individuati, ed
anche intere aree in cui le testimonianze siano disseminate, purché
esse costituiscano complesso unitario e inscindibile (Cons. Stato,
sez. VI, 6 luglio 1994, n. 1132).
La deduzione dei ricorrenti, circa la prevista realizzazione di
un parco archeologico e di un antiquarium, e dunque di strutture a
servizio del sito, rivelerebbe di per sè l'idoneità
all'edificazione. Si tratta di elementi assolutamente privi di
significato, nel senso che, a differenza delle ipotesi in cui può
essere ammessa una valutazione integrativa sulle possibilità
effettive di un fondo a prescindere dalla disciplina urbanistica che
non preveda una destinazione edificatoria (vale comunque il principio
generale secondo cui, nella liquidazione dell'indennità, non può
tenersi conto dell'aumento di valore che derivi al fondo espropriato
dalla costruzione dell'opera pubblica), nella specie il vincolo che
discende dall'art. 3 l. 1089/39 viene a sovrapporsi alla disciplina
urbanistica, e di esso quest'ultima deve, tra l'altro, tener conto in
sede di pianificazione (art. 7, secondo comma, n. 4, l. 17 agosto
1942 n. 1150). Se nella valutazione del giudice di merito il vincolo
è tale da determinare l'inedificabilità di tutta l'area da esso
interessata, questo è l'unico dato che rileva ai fini della
regolamentazione indennitaria in caso di espropriazione, pur se in
seguito, nell'ambito della discrezionalità che compete
all'amministrazione dei beni culturali, si rendano necessarie opere
di sistemazione dell'area di scavo, e servizi idonei ad assicurare la
fruibilità del bene culturale. La realizzabilità di tali opere,
d'altro canto, non rileva ai fini della determinazione
dell'indennità di esproprio, attesa la rigida distinzione tra aree
edificabili ed aree agricole stabilita dall'art. 5 bis, quarto comma,
legge 8 agosto 1992 n. 359, che non ammette la riconoscibilità di un
tertium genus: va esclusa la rilevanza delle qualità e della
concreta utilizzabilità di un terreno non edificabile per la
presenza di vincolo archeologico, per il quale debbono applicarsi le
norme di cui al tit. II della legge 22 ottobre 1971 n. 865 (Cass.
20.1.1998, n. 483), anche agli effetti, conseguenti, dell'indennità
di occupazione.
Il ricorso, nella parte relativa all'indennità di occupazione,
va dunque rigettato. Sussistono giusti motivi per la compensazione
delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La corte cassa senza rinvio la sentenza impugnata riguardo
all'indennità di esproprio, e rigetta il ricorso nella parte
concernente l'indennità di occupazione. Compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2000.
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2000