INQUINAMENTO DEL MARE E RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI COLLETTIVI
Avv. Maurizio ARENA
Il d.d.l. “Comunitaria 2006”, attualmente
all’esame della Camera, contiene la delega per il recepimento
della Direttiva 2005/35/CE del 7 settembre 2005, relativa
all’inquinamento provocato dalle navi e
all’introduzione di sanzioni per violazioni.
La Direttiva è integrata dalla Decisione Quadro 2005/667/GAI
del 12 luglio 2005, intesa a rafforzare la cornice penale per la
repressione dell’inquinamento provocato dalle navi.
Il recepimento di questa complessa normativa europea (che in
più parti opera pure rinvio alla fondamentale Convenzione
internazionale “Marpol”), consentirà la
sanzionabilità delle persone giuridiche per gli illeciti di
inquinamento del mare da parte delle navi dalle stesse gestite.
Si tratta di un primo ed importante – seppur settoriale -
passo in avanti verso il rafforzamento della tutela sanzionatoria
dell’ambiente, in attesa dell’approvazione della
Direttiva U.E. che dovrà sostituire la Decisione quadro
2003/80/GAI.
Come è noto, infatti, in data 13 settembre 2005 la Corte di
Giustizia delle Comunità Europee, pronunciando sul ricorso
proposto dalla Commissione delle Comunità europee, ha
disposto l’annullamento della menzionata decisione, relativa
alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale.
Va peraltro aggiunto che anche nei confronti della decisione quadro
2005/667/GAI la Commissione ha deciso di adire la Corte di Giustizia,
chiedendone l’annullamento e rivendicando (alla stregua di
quanto affermato ormai della sentenza del 13 settembre 2005) la propria
competenza esclusiva di legiferare in materia ambientale ed il diritto
di intervenire con le dovute correzioni sulle disposizioni erroneamente
adottate.
Come è stato rilevato, tuttavia, la vicenda “si
presenta ora più complessa, perché è
la stessa direttiva 2005/35/CE (come si è detto) a rinviare
espressamente alla decisione quadro 2005/667/GAI, al fine di rafforzare
il quadro normativo per la repressione dell’inquinamento
delle navi” (FIALE, La tutela penale dell’ambiente
nell’ambito dell’Unione Europea e alla luce dei
principi internazionali, relazione all’incontro di studio
“La protezione comunitaria dell’ambiente attraverso
il diritto penale”, Roma, 10 – 12 aprile 2006).
1. I rapporti tra Decisione e Direttiva
Innanzitutto la Decisione quadro fa rinvio alle definizioni di cui
all’articolo 2 della Direttiva.
Ai fini della Direttiva si intende per:
1. «Sostanze inquinanti»: le sostanze inserite
nell’allegato I (idrocarburi) e nell’allegato II
(sostanze liquide nocive trasportate alla rinfusa) della convenzione
Marpol.
2. «Scarico»: ogni rigetto comunque proveniente da
una nave, quale figura all’articolo 2 della convenzione
Marpol.
3. «Nave»: un’imbarcazione marittima di
qualsiasi tipo e battente qualsiasi bandiera, che operi
nell’ambiente marino; sono inclusi gli aliscafi, i veicoli su
cuscino d’aria, i sommergibili e i natanti.
La Convenzione Marpol (Marine Pollution Convention) del 1973
è stata ampiamente aggiornata con un Protocollo adottato a
Londra nel 1978 adottato a seguito della Conferenza T.S.P.P. (Tanker
Safety Pollution Prevention), dedicata alla sicurezza delle navi
cisterna ed alla prevenzione dell’inquinamento del mare; per
l’importanza rivestita dalle modifiche apportate da tale
Protocollo, nella pratica marittima si suole parlare di
“Marpol 73/78” (su questo argomento e, in generale
sul progetto di Direttiva 2005/35/CE, v. Salamone, La direttiva (ce) n.
2005/c 25e/03 sull’armonizzazione del sistema sanzionatorio
previsto al fine di aumentare la sicurezza marittima e migliorare la
protezione dell’ambiente marino dall’inquinamento
provocato dalle navi, www.diritto.it).
Secondo la Decisione (art 2), ciascuno Stato membro adotta le misure
necessarie affinché un’infrazione ai sensi degli
articoli 4 e 5 della Direttiva sia considerata reato.
Ebbene la Direttiva stabilisce – all’art 4
– che gli Stati membri provvedono affinché
“gli scarichi di sostanze inquinanti effettuati dalle navi in
una delle aree di cui all’articolo 3, paragrafo 1 (che
rappresentano il campo d’applicazione della Direttiva e che
sono elencate infra nel paragrafo 3, n.d.r.), siano considerati
violazioni se effettuati intenzionalmente, temerariamente o per
negligenza grave”.
Il successivo art 5 contiene, peraltro, alcune deroghe, laddove esclude
la rilevanza penale degli scarichi se rispondenti a specifiche
disposizioni degli allegati I e II della convenzione Marpol.
Sempre secondo la Decisione (art 3), rilevano anche il favoreggiamento,
la complicità e l’istigazione alla commissione dei
reati sopra indicati.
2. La responsabilità delle persone giuridiche
Secondo la formulazione ormai invalsa negli strumenti europei ed
internazionali, si stabilisce nella decisione (art 5) quanto segue:
“1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie
affinché le persone giuridiche possano essere ritenute
responsabili dei reati di cui agli articoli 2 e 3 commessi a loro
vantaggio da persone che agiscano a titolo individuale o in quanto
membri di un organismo della persona giuridica, che detengano una
posizione preminente in seno alla persona giuridica, basata:
a) sul potere di rappresentanza di detta persona giuridica;
o b) sul potere di prendere decisioni per conto della persona
giuridica;
o c) sull’esercizio del controllo in seno a tale persona
giuridica.
2. Oltre ai casi previsti al paragrafo 1, ciascuno Stato membro adotta
le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano
essere ritenute responsabili, qualora la mancata sorveglianza o il
mancato controllo da parte di un soggetto tra quelli descritti al
paragrafo 1 abbiano reso possibile la commissione, a vantaggio della
persona giuridica, del reato di cui all’articolo 2 da parte
di una persona sottoposta all’autorità di tale
soggetto”.
More solito, la responsabilità delle persone giuridiche non
esclude l’avvio di procedimenti penali contro le persone
fisiche che abbiano commesso un reato di cui agli articoli 2 e 3,
abbiano istigato qualcuno a commetterlo o vi abbiano concorso.
L’art 6 si occupa delle sanzioni applicabili alle persone
giuridiche, le quali:
“a) includono sanzioni pecuniarie penali o non penali che,
almeno per i casi in cui la persona giuridica è considerata
responsabile dei reati di cui all’articolo 2, sono:
i) di un importo massimo compreso tra almeno 150 000 euro e 300 000
euro;
ii) di un importo massimo compreso tra almeno 750 000 euro e 1 500 000
euro nei casi più gravi, inclusi almeno i reati commessi
intenzionalmente di cui all’articolo 4, paragrafi 4 e 5;
b) possono, per tutti i casi, comprendere altre sanzioni diverse dalle
sanzioni pecuniarie, tra cui:
i) l’esclusione dal godimento di un beneficio o aiuto
pubblico;
ii) il divieto temporaneo o permanente di esercitare
un’attività commerciale;
iii) l’assoggettamento a sorveglianza giudiziaria;
iv) un provvedimento giudiziario di liquidazione;
v) l’obbligo di adottare misure specifiche volte ad eliminare
le conseguenze del reato che hanno dato luogo alla
responsabilità della persona giuridica.”
Interessante il par. 3, secondo cui uno Stato membro può
prevedere la sanzione pecuniaria applicando un sistema in base al quale
la sanzione stessa è proporzionata alla cifra
d’affari della persona giuridica, al vantaggio finanziario
ottenuto o sperato tramite la commissione del reato o a qualsiasi altro
valore connesso alla situazione finanziaria della persona giuridica,
“purché tale sistema consenta di irrogare sanzioni
massime che siano almeno equivalenti agli importi minimi per le
sanzioni massime previsti nel paragrafo 1, lettera a)”.
Sul punto va ricordato che, a tutt’oggi, il d.lg. 231/2001
consente al giudice di considerare la “cifra
d’affari” dell’ente in sede di
quantificazione del valore della singola quota di sanzione; la sanzione
pecuniaria può essere commisurata al profitto (rilevante)
solo per gli abusi di mercato ex art 25 sexies (potendo arrivare fino a
dieci volte l’ammontare del profitto).
Nelle altre ipotesi - ex artt 24 e 25 ter - si stabilisce in via
autonoma l’entità della sanzione per i casi in cui
l’ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante
entità.
3. La “competenza giurisdizionale”
Secondo l’art 7 della Decisione, ciascuno Stato membro adotta
le misure necessarie per stabilire la propria giurisdizione, nella
misura consentita dal diritto internazionale, in relazione ai reati di
cui agli articoli 2 e 3, qualora il reato sia stato commesso:
a) del tutto o in parte nel suo territorio;
b) nella sua zona economica esclusiva o in una zona equivalente
definita in base al diritto internazionale;
c) a bordo di una nave battente bandiera di tale Stato;
d) da uno dei cittadini di tale Stato, se il reato è
punibile in base al diritto penale dello Stato nel cui territorio
è stato commesso o se il luogo in cui è stato
commesso il reato non rientra in nessuna giurisdizione territoriale;
e) a vantaggio di una persona giuridica avente la sede sociale nel suo
territorio (sottolineatura dello scrivente, n.d.r.);
f) fuori del suo territorio, ma abbia causato o rischi di causare
inquinamento nel suo territorio o nella sua zona economica esclusiva, e
la nave si trovi volontariamente nel porto o in un terminale off-shore
dello Stato membro;
oppure g) in alto mare e la nave si trovi volontariamente nel porto o
in un terminale off-shore dello Stato membro.
Quando un reato rientra nella giurisdizione di più di uno
Stato membro, gli Stati interessati si adoperano in modo da coordinare
adeguatamente le loro azioni, specialmente riguardo ai termini
dell’azione penale e alle modalità di mutua
assistenza.
Devono essere presi in considerazione i seguenti “elementi di
collegamento”:
a) lo Stato membro nel cui territorio, zona economica esclusiva o zona
equivalente è stato commesso il reato;
b) lo Stato membro nel cui territorio, zona economica esclusiva o zona
equivalente si manifestano le conseguenze del reato;
c) lo Stato membro nel cui territorio, zona economica esclusiva o zona
equivalente transita la nave dalla quale è stato commesso il
reato;
d) lo Stato membro di cui l’autore del reato è
cittadino o residente;
e) lo Stato membro nel cui territorio ha la sede sociale la persona
giuridica per conto della quale il reato è stato commesso
(sottolineatura dello scrivente, n.d.r.);
f) lo Stato membro di bandiera della nave dalla quale è
stato commesso il reato.
Infine, la Decisione chiarisce (articolo 10) che il suo campo
d’applicazione territoriale è il medesimo della
Direttiva.
Quest’ultima (art 3) è applicabile, conformemente
al diritto internazionale, agli scarichi di sostanze inquinanti:
a) nelle acque interne, compresi i porti, di uno Stato membro, nella
misura in cui è applicabile il regime Marpol;
b) nelle acque territoriali di uno Stato membro;
c) negli stretti utilizzati per la navigazione internazionale e
soggetti al regime di passaggio di transito (come specificato nella
parte III, sezione 2 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul
diritto del mare), nella misura in cui uno Stato membro abbia
giurisdizione su tali stretti;
d) nella zona economica esclusiva o in una zona equivalente di uno
Stato membro, istituita ai sensi del diritto internazionale;
e) in alto mare.
La Direttiva si applica agli scarichi di sostanze inquinanti di tutte
le navi, a prescindere dalla bandiera, ad esclusione delle navi
militari da guerra o ausiliarie o di altre navi possedute o gestite da
uno Stato e impiegate, al momento, solo per servizi statali a fini non
commerciali.
4. Le misure di controllo sulle navi
Un breve sguardo anche alle misure di controllo
dell’applicazione della normativa.
L’art 6 della Direttiva si occupa delle navi che si trovano
nei porti di uno Stato membro.
Se ci sono sospetti che tale nave “abbia proceduto o stia
procedendo allo scarico di sostanze inquinanti in una delle aree di cui
all’articolo 3, paragrafo 1, lo Stato membro in questione
garantisce che si proceda ad un’adeguata ispezione a norma
del diritto nazionale, tenendo presenti gli orientamenti adottati in
materia dall’Organizzazione marittima internazionale
(IMO)”.
Se dall’ispezione emergono elementi che potrebbero far
pensare a una violazione ai sensi dell’articolo 4, vengono
informate le autorità competenti dello Stato membro in
questione e dello Stato di bandiera.
Più complesse le disposizioni previste dall’art 7
per le navi in transito.
Se il presunto scarico di sostanze inquinanti avviene nelle aree di cui
all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b), c), d) o e), e se la
nave sospettata di aver effettuato lo scarico non approda in un porto
dello Stato membro che detiene le informazioni riguardo al presunto
scarico, si applicano le seguenti disposizioni:
“a) se il successivo porto di approdo della nave è
situato in un altro Stato membro, gli Stati membri interessati
collaborano strettamente tra di loro nell’ispezione di cui
all’articolo 6, paragrafo 1 e per decidere gli opportuni
provvedimenti da adottare riguardo allo scarico;
b) se il successivo porto di approdo della nave è situato in
uno Stato terzo, lo Stato membro interessato adotta tutti i
provvedimenti necessari per garantire che il successivo porto di
approdo della nave venga informato del presunto scarico e invita lo
Stato in cui è situato tale porto ad adottare le iniziative
adeguate rispetto allo scarico in questione.”
Se esistono elementi di prova chiari e obiettivi che una nave che
naviga nelle aree di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere
b) o d), abbia commesso, nell’area di cui
all’articolo 3, paragrafo 1, lettera d), una violazione
consistente in uno scarico che provoca o minaccia di provocare un grave
danno al litorale o agli interessi collegati dello Stato membro colpito
o alle risorse delle aree di cui all’articolo 3, paragrafo 1,
lettere b) o d), il suddetto Stato membro provvede (quando gli elementi
di prova lo giustificano e fatta salva la parte XII, sezione 7, della
Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare), a
sottoporre la questione alle autorità competenti per avviare
un procedimento, compreso il procedimento per il fermo della nave, a
norma del proprio diritto nazionale.
In ogni caso vengono informate le autorità dello Stato di
bandiera.
5. Considerazioni conclusive
Qualche breve cenno conclusivo, con doverosa riserva di ulteriori
approfondimenti.
L’introduzione di una responsabilità
dell’ente per delitti colposi (già prevista dalla
legge di delega n. 300/2000) pone alcune questioni di rilievo.
Innanzitutto è da considerare la stessa
ipotizzabilità di un delitto colposo
nell’interesse dell’ente.
Anche se l’interesse è requisito esterno al fatto
di reato, rilevando quale criterio di ascrizione dello stesso ad un
soggetto diverso (l’ente collettivo), esso deve pur sempre
consistere in una direzione finalistica della condotta criminosa.
Valorizzando questo assunto sembra difficile ipotizzare una
“colpa teleologicamente orientata” ad avvantaggiare
l’ente.
L’altra soluzione, ovviamente già prospettata in
giurisprudenza – ma, ad avviso di chi scrive, meno rispettosa
della ratio normativa – è quella che configura una
natura oggettiva dell’interesse.
Tuttavia orientamenti di tal fatta rischiano di far approdare (per
restare in tema di navigazione marittima) definitivamente il sistema
delineato dal d.lg. 231/2001 nel porto del mero versari in re illicita.
Inoltre, se, a monte, viene commesso un delitto colposo, appare
problematica l’imputazione all’ente anche sotto il
profilo soggettivo ex art 6, per quanto riguarda l’elusione
“fraudolenta” del Modello.
La questione è stata già sollevata da attenta
dottrina (Galletti): come si può parlare di colpa se il
soggetto apicale, per commettere il reato, ha eluso il modello con
artifizi e raggiri?
Avv. Maurizio Arena
www.reatisocietari.it