Cass. Sez. III n. 539 del 11 gennaio 2023 (UP 8 nov 2022)
Pres. Sarno Est. Reynaud Ric. Sergi
Urbanistica.Attività edilizia libera in zona vincolata

Il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le previsioni indicate nell’incipit della stessa, vale a dire, nel caso di specie, con la normativa in materia di tutela del paesaggio. La pavimentazione di aree esterne in zona vincolata, dunque, non è assoggettata ad alcun titolo abilitativo urbanistico soltanto se sia per altro verso rispettata la disciplina di cui al d.lgs. 42/2004, che per tali interventi, in quanto potenzialmente incidenti sul paesaggio, richiede di regola la prevista autorizzazione dell’ente preposto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 12 luglio 2021, la Corte d’appello di Lecce, dichiarando l’intervenuta prescrizione per alcuni reati e rideterminando conseguente la pena, ha confermato la condanna di Cosimina Sergi per i reati, oggetto di contestazione suppletiva in corso di giudizio, di cui agli artt. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e  181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (capo B) e 349 cod. proc. pen. (capo C), commessi sino al 16 gennaio 2015, per aver realizzato opere abusive in zona vincolata, proseguendo i lavori dopo il sequestro con violazione di sigilli.

2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, la ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, con il primo motivo, la violazione dell’art. 546, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per essere mancante, nell’epigrafe della sentenza di primo grado, l’enunciazione del delitto di cui al capo C) d’imputazione suppletivamente contestato.

3. Con il secondo motivo, si deduce la violazione dell’art. 522 cod. proc. pen. per omessa notifica all’imputata contumace del verbale contenente le contestazioni suppletive presso il domicilio da lei dichiarato all’inizio del procedimento, in sede di identificazione da parte della polizia giudiziaria, notifica effettuata invece presso il difensore di fiducia sull’erroneo rilievo che ella avesse colà eletto domicilio nell’atto di opposizione a decreto penale di condanna.

4. Con i successivi tre motivi si lamenta la violazione della legge penale con riguardo a tutti e tre i reati ritenuti, rispettivamente:
- quanto al delitto di violazione di sigilli, perché la responsabilità era stata confermata senza valutare la dirimente questione – approfondita in una memoria difensiva depositata nel giudizio di appello – che la ricorrente era stata spogliata del possesso dei beni sottoposti a sequestro, essendo questi stati affidati alla custodia di altra persona;
- quanto al reato paesaggistico, perché il vincolo era stato ritenuto in base alle sole dichiarazioni del teste De Matteis, senza alcun accertamento fattuale ed in assenza di prova documentale;
- quanto al reato urbanistico, per insussistenza dell’obbligo di munirsi di previo permesso di costruire in relazione alle opere realizzate, posto che: i lavori esterni di pavimentazione possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo, anche in area vincolata, ai sensi dell’art. 6, comma 1-ter, d.P.R. 380/2001; la piscina e gli annessi locali tecnici costituivano mere pertinenze del preesistente edificio fatto oggetto di condono; per i muri perimetrali era mancata la prova che gli stessi fossero stati realizzati ex novo, dovendo pertanto ritenersi che si fosse trattato di opere di manutenzione non soggette a permesso di costruire.

6. Con il sesto motivo si lamenta violazione della legge penale per essere la Corte territoriale incorsa in errore nel ritenere che il provvedimento di sanatoria depositato in giudizio, più sopra già evocato, fosse stato emesso ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 380/2001, trattandosi, invece, di condono edilizio ex l. 47 del 1985.

7. Con l’ultimo motivo di ricorso si lamentano violazione degli artt. 62 bis e 133 cod. pen. per non essere state riconosciute le circostanze attenuanti generiche nonostante l’incensuratezza dell’imputata e la modesta consistenza delle opere abusive.

CONSIDERATO IN DIRITTO
    
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
Come già correttamente ritenuto nella pronuncia impugnata, questa Corte ha ripetutamente affermato che tra gli elementi essenziali la cui mancanza o incompletezza determina la nullità della sentenza a norma dell'art. 546,  comma 3, cod. proc. pen., non è previsto il capo di imputazione, posto che l'enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritte all'imputato ben possono desumersi dal complessivo contenuto della decisione (Sez. 3, n. 48348 del 29/09/2017, Cappello e a., Rv. 271882), integrata, ove necessario, dall’atto processuale di contestazione dell’accusa (cfr. Sez. 3, n. 39894 del 28/05/2014, Bollini, Rv. 260385), che nel caso di specie è rappresentato dal verbale contenente la nuova contestazione, addirittura allegato al ricorso. A questo proposito non rilevano, pertanto, le argomentazioni spese dalla ricorrente sulla nullità assoluta concernente la mancanza della vocatio in iudicium, trattandosi di questione che semmai concerne la rituale conoscenza della contestazione suppletiva, affrontata nel secondo motivo di ricorso e di cui subito si dirà.

2. La doglianza proposta con tale secondo motivo è parimenti inammissibile, posto che la Corte territoriale – con valutazione di merito non illogicamente argomentata ed in questa sede pertanto non rivisitabile – ha interpretato l’atto di opposizione a decreto penale di condanna come contenente una nuova elezione di domicilio presso il difensore di fiducia, ove il verbale relativo alla nuova contestazione è stato notificato.

3. I tre motivi con cui si deduce la violazione della legge penale per essere stata ritenuta la sussistenza dei reati sono in parte inammissibili e in parte, comunque, infondati.
3.1. Quanto al delitto, la sentenza impugnata richiama quella di primo grado e la censura difensiva proposta dall’appellante, argomentata con successiva memoria di cui in questa sede si lamenta la mancata disamina, è tutt’altro che dirimente ed appare, invece, assolutamente generica, essendo noto che la violazione di sigilli prevista dall’art. 349, primo comma, cod. pen. è reato che può essere commesso da chiunque, integrandosi la circostanza aggravante di cui al capoverso – all’imputata non contestata – laddove l’autore sia (anche) il custode (nella specie, attesta la sentenza di primo grado, si trattava del marito dell’imputata). I giudici di merito, con accertamento in fatto in questa sede non sindacabile, hanno ritenuto che la prova del delitto si ricavasse dalla addebitabilità alla stessa della prosecuzione delle opere abusive e la conclusione, in diritto, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, non essendo rilevante accertare chi abbia materialmente rotto i sigilli, essendo il reato configurabile anche con qualsiasi condotta idonea a frustrare il vincolo di immodificabilità imposto sul bene per disposizione di legge o per ordine dell'autorità (Sez. 3, n. 3545 del 13/01/2016, Du, Rv. 266139), né, addirittura, se vi sia stata lesione della materiale integrità degli stessi (Sez. 3, n. 38198 del 27/04/2017, Agnelli, Rv. 270800).
3.2. Quanto alla contravvenzione paesaggistica, i giudici di merito – con accertamento in fatto in questa sede non sindacabile – hanno accertato che l’area sulla quale sono stati eseguiti i lavori abusivi è soggetta a vincolo paesaggistico e la sentenza di primo grado, richiamata da quella qui impugnata, ha precisato (pag. 4) che l’area è ubicata nella fascia di rispetto di trecento metri dal mare (con conseguente sussistenza del vincolo paesaggistico ex art. 142, comma 1, lett. a, d.lgs. 42/2004) e attestato (pag. 9) che l’imputata ebbe a presentare una richiesta di compatibilità paesaggistica postuma delle opere sino a quel momento eseguite, richiesta che non ebbe esito favorevole. A fronte di questo accertamento di fatto, la doglianza proposta è ictu oculi inammissibile, anche per manifesta infondatezza, posto che – diversamente da quanto opina la ricorrente – la prova della sussistenza del vincolo ben può ricavarsi dalle dichiarazioni rese da un testimone qualificato, non essendo certo indispensabile che la circostanza sia altrimenti provata per tabulas.
3.3. Quanto al reato urbanistico, alcune doglianze sono mera riproposizione di quelle già sollevate con l’appello e correttamente esaminate e decise dalla Corte territoriale senza che il generico ricorso si confronti seriamente con le argomentazioni spese  e altre sono comunque infondate.
Con riguardo alla piscina (e locali tecnici annessi), la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che questo tipo di manufatto non è automaticamente qualificabile come pertinenza - come tale non soggetta a permesso di costruire – anche se non supera il 20% del volume dell'edificio principale, essendo pur sempre necessario che abbia dimensioni oggettivamente ridotte (Sez. 3, n. 342 del 25/10/2018, dep. 2019, Montanari, Rv. 275385), ciò che il giudice di merito, con valutazione di fatto contestata in modo del tutto generico in ricorso, ha nella specie escluso. In modo assorbente, il giudice di merito ha inoltre escluso che la piscina accedesse ad un manufatto preesistente e legittimamente edificato e pure questa valutazione non viene efficacemente contestata con deduzione del vizio di travisamento della prova, posto che il generico ricorso, limitandosi a richiamare un provvedimento di condono che sarebbe stato prodotto all’udienza del 15 maggio 2015 (salvo poi, a pag. 9, indicare contraddittoriamente nell’8 febbraio 2018 la data dell’intervenuta sanatoria), non precisa che le condotte oggetto di contestazione siano iniziate successivamente alla regolarizzazione urbanistica del manufatto a cui la piscina abusiva accederebbe.
Quanto ai muri perimetrali, la sentenza, con giudizio di merito non sindacabile, attesta che si trattasse di opere ex novo e la contestazione mossa in ricorso è al proposito del tutto generica e sottende una ipotetica, alternativa, valutazione di fatto circa la loro preesistenza.
Quanto, da ultimo, alla pavimentazione delle aree esterne, dovendo il Collegio esaminare la doglianza specificamente devoluta, vale a dire la dedotta violazione dell’art. 6 d.P.R. 380/2001, si osserva come la stessa non sussista, poiché – lo ha correttamente rilevato la stessa sentenza impugnata – tale disposizione consente la realizzazione in regime di attività edilizia libera delle opere ivi indicate, tra l’altro e per quanto qui interessa, «nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare…delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio» di cui al d.lgs. 42 del 2004. Come questa Corte ha già ritenuto decidendo analoga questione (cfr. Sez. 3, n. 19316 del 27/04/2011, Ferraro, Rv. 250018, relativa alla realizzazione di piazzali adibiti a parcheggio in zona agricola in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici), ciò significa che il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le previsioni indicate nell’incipit della stessa, vale a dire, per quanto qui interessa, con la normativa in materia di tutela del paesaggio. La pavimentazione di aree esterne in zona vincolata, dunque, non è assoggettata ad alcun titolo abilitativo urbanistico soltanto se sia per altro verso rispettata la disciplina di cui al d.lgs. 42/2004, che per tali interventi, in quanto potenzialmente incidenti sul paesaggio, richiede di regola la prevista autorizzazione dell’ente preposto (cfr. Sez. 3, n. 18460 del 09/01/2020, Onori Rv. 279427). Il ricorso – limitandosi a ritenere non provata la sussistenza del vincolo, con deduzione inammissibile giusta quanto più sopra osservato – non argomenta che, sul piano paesaggistico, dette opere di pavimentazione non sarebbero state assoggettate ad autorizzazione, sicché questa Corte non è stata chiamata a svolgere sul punto alcun ulteriore approfondimento.

4. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile per genericità e difetto di interesse: la ricorrente non spiega quale effetto favorevole le sarebbe derivato qualora il provvedimento di sanatoria nella specie rilasciato per il diverso manufatto definito principale a cui le opere abusive in contestazione accederebbero – provvedimento la cui legittimità la sentenza non contesta – fosse stato qualificato come di condono edilizio piuttosto che di sanatoria ordinaria ex art. 36 d.P.R. 380/2001.

5. L’ultimo motivo è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
La sentenza non illogicamente e correttamente (cfr. art. 62 bis, ultimo comma, cod. pen.), valuta come di per sé solo non rilevante lo stato di incensuratezza  , con giudizio di merito qui non sindacabile, reputa i fatti di non lieve gravità e attesta l’insussistenza di elementi valorizzabili ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Il generico ricorso si limita a riproporre le doglianze già adeguatamente vagliate e disattese dalla Corte territoriale e questa Corte non può se non richiamare il consolidato orientamento giusta il quale, in tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).  Del resto, premesso che in tema di attenuanti generiche, la meritevolezza dell'adeguamento della pena, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni del fatto o del soggetto, non può mai essere data per presunta, ma necessita di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 271315), quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell'istanza, l'onere di motivazione del diniego dell'attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Piliero, Rv. 266460).

6. Posto che nessuno dei reati è ad oggi prescritto, considerata l’ininterrotta sospensione del termine di prescrizione dovuta alla sospensione del processo per rinvii richiesti dalla difesa tra il 30 ottobre 2017 e il 5 ottobre 2020, il ricorso va rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso l’8 novembre 2022.