I Sistemi Collettivi per il finanziamento dei RAEE e l’art. 10 del D.Lgs. 49/2014: una normativa  di dubbia di legittimità

di Luca PRATI e Francesco Maria SALERNO


Il D. Lgs. 49/2014, che ha recepito la Direttiva 2012/19/UE (c.d. “nuova direttiva RAEE), ha stabilito nuove regole per i sistemi collettivi dei produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. AEE) tramite i quali i produttori possono assolvere agli obblighi di finanziamento delle operazioni di raccolta, trattamento, recupero e smaltimento ecocompatibile dei RAEE domestici.

 

Come noto, infatti, i produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche, sono obbligati a conseguire gli obiettivi minimi di recupero e di riciclaggio previsti dalla Direttiva. Il raggiungimento di tali obiettivi avviene attraverso il finanziamento del sistema di gestione dei RAEE per la raccolta il trasporto ed il successivo trattamento delle AEE immesse sul mercato e che sono ormai giunte a fine vita. I produttori possono adempiere ai loro obblighi attraverso due sistemi: il sistema individuale o il sistema collettivo.

 

La scelta dell'uno o dell'altro viene fatto dai produttori al momento dell'iscrizione al Registro telematico AEE. E' in questa fase che deve essere indicato come si intende finanziare il sistema di gestione.

 

L’art. 10 del D. Lgs. 49/2014 prevede quindi che “I produttori che non adempiono ai propri obblighi mediante un sistema individuale devono aderire a un sistema collettivo”.

 

Tuttavia, a differenza di quanto previsto nel vigore del D. Lgs. 151/2005, che lasciava i produttori liberi di associarsi secondo le forme giuridiche da esse ritenute più adeguate per i propri scopi, il comma due dell’art. 10 citato prevede invece che “i sistemi collettivi sono organizzati in forma consortile ai sensi degli articoli 2602 e seguenti del codice civile in quanto applicabili e salvo quanto previsto dal presente decreto legislativo”.

 

Il comma 3 dell’art. 10 prevede poi che “I consorzi di cui al comma 2 hanno autonoma personalità giuridica di diritto privato, non hanno fine di lucro ed operano sotto la vigilanza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministero dello sviluppo economico, che entro 6 mesi dall'entrata in vigore del presente decreto legislativo approvano lo statuto-tipo”.

 

Il tenore letterale della norma sembra, chiaramente, imporre la forma del Consorzio senza fine di lucro come l’unica possibile modalità organizzativa per i sistemi collettivi gestiti dai produttori. Del resto, l’obbligo di adeguarsi allo statuto – tipo di emanazione ministeriale non lascia alternative in proposito.

 

I Consorzi debbono infatti, ai sensi dei commi 6, 7 e 8 dell’art. 10, trasmettere i propri Statuti in sede ministeriale, ai fini dell'approvazione con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico.

 

Il legislatore quindi, con la previsione della vigilanza Ministeriale sui sistemi collettivi e l’approvazione dei relativi statuti, ha sposato un’impostazione dirigista, secondo la quale tali enti debbono ottenere una sorta di” autorizzazione governativa” per poter operare nel settore dei RAEE, autorizzazione subordinata al fatto che l’organizzazione interna tra i produttori rispecchi ben precise regole, anch’esse dettate dal Ministero tramite lo statuto-tipo.

 

A seguito della recentissima riforma introdotta dall'art. 13, comma 4-bis, del D.L. 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 116, è stato previsto che “All’articolo 10 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, sono apportate le seguenti modificazioni:

 

a) al comma 1 sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: "L’adesione ai sistemi collettivi è libera e parimenti non può essere ostacolata la fuoriuscita dei produttori da un consorzio per l’adesione ad un altro, nel rispetto del principio di libera concorrenza";

b) al comma 4 sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: "I contratti stipulati dai sistemi collettivi inerenti la gestione dei RAEE sono stipulati in forma scritta a pena di nullità";

c) dopo il comma 4 è inserito il seguente: "4-bis. Ciascun sistema collettivo deve, prima dell’inizio dell’attività o entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione in caso di sistemi collettivi esistenti, dimostrare al Comitato di vigilanza e controllo una capacità finanziaria minima proporzionata alla quantità di RAEE da gestire";

d) dopo il comma 5 è inserito il seguente:

"5-bis. Lo statuto-tipo assicura che i sistemi collettivi siano dotati di adeguati organi di controllo, quali il collegio sindacale, l’organismo di vigilanza ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, ed una società di revisione indipendente, al fine di verificare periodicamente la regolarità contabile e fiscale

Ogni anno ciascun sistema collettivo inoltra al Comitato di vigilanza e controllo un’autocertificazione attestante la regolarità fiscale e contributiva. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Comitato di vigilanza e controllo assicurano la trasparenza e la pubblicità dei dati raccolti ai sensi del presente comma";

f) dopo il comma 10 sono aggiunti i seguenti:

"10-bis. Ciascun sistema collettivo deve rappresentare una quota di mercato di AEE, immessa complessivamente sul mercato nell’anno solare precedente dai produttori che lo costituiscono, almeno superiore al 3 per cento, in almeno un raggruppamento.

10-ter. I sistemi collettivi esistenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione si adeguano alla disposizione di cui al comma 10- bis entro il 31 dicembre dell’anno solare successivo a quello dell’approvazione dello statuto-tipo. Qualora un sistema collettivo scenda, per la prima volta dopo la costituzione dello stesso, sotto la quota di mercato di cui al comma 10-bis, lo comunica senza indugio al Comitato di Vigilanza e controllo, e può proseguire le attività di gestione dei RAEE fino al 31 dicembre dell’anno solare successivo. Fermo restando l’obbligo di comunicazione di cui al precedente periodo, i successivi casi di mancato raggiungimento, da parte del medesimo sistema collettivo, della quota di mercato di cui al comma 10-bis, sono valutati dal Comitato di vigilanza e controllo in conformità all’articolo 35".

 

Sono quindi state introdotte ulteriori ed importanti condizioni e requisiti per l’organizzazione ed il funzionamento dei sistemi collettivi istituti dai produttori, rispetto alla forma consortile obbligatoria.

 

La norma, specie dopo le modifiche introdotte, suscita più di una perplessità, in quanto pone vincoli e limiti alla libertà di organizzazione dei produttori che non hanno alcun riferimento in base alle norme comunitarie e che sono sospette sotto il profilo della legittimità costituzionale.

 

L’art. 5(2)(d) della Direttiva si limita, infatti, a prevedere che “i produttori siano autorizzati ad organizzare e gestire i sistemi individuali e/o collettivi, di resa dei RAEE provenienti da nuclei domestici”, e il successivo art. 8 a precisa che “Gli Stati membri provvedono affinché i produttori o i terzi che agiscono a loro nome istituiscano sistemi per il recupero dei RAEE ricorrendo alle migliori tecniche disponibili. I produttori possono istituire tali sistemi a titolo individuale o collettivo”.

 

La norma europea lascia quindi ai produttori la massima libertà di organizzare i sistemi collettivi per il finanziamento della raccolta e smaltimento dei RAEE, secondo le forme da essi ritenuti più opportune ed efficaci, offrendo lo strumento del sistema collettivo come una facoltà dei produttori meritevole di essere incentivata.

 

Sfugge pertanto la ragione per cui il legislatore abbia inteso imporre ai produttori l’obbligo della forma consortile, per di più improntata ad uno statuto – tipo di fonte ministeriale, per l’istituzione di un sistema assolutamente privato e interamente finanziato dalle imprese partecipanti, tramite le quali le stesse perseguono in comune una fase della propria attività economica.

 

Le condizioni non previste dalla Direttiva RAEE, ma imposte dal D. Lgs. 49/2014, potrebbero facilmente tradursi in una scorretta attuazione della stessa.

 

Si tratta infatti di obblighi che rendono maggiormente onerosa la scelta della forma collettiva, in contrasto con quanto espresso dagli artt. 5 e 8 della Direttiva, che sono chiaramente improntati a favorire la libertà di organizzazione dei produttori al riguardo1.

 

Alla violazione della Direttiva si aggiunge un profilo di probabile incostituzionalità, con riferimento all’art. 41 della Costituzione. Occorre sottolineare, infatti, come la Corte Costituzionale abbia affermato che «la libertà di organizzazione e di gestione dell’impresa (…) è un elemento della libertà d’iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.» (Corte Cost. 22 novembre 1991, n. 420). Libertà che l’art. 10 del D. Lgs. 49/2014 limita pesantemente, senza peraltro che tali limitazioni appaiano giustificate da altri interessi costituzionalmente protetti di pari rango.

 

Perplessità ancora maggiori sorgono di fronte all’obbligo legale, per i sistemi collettivi, di “rappresentare una quota di mercato di AEE, immessa complessivamente sul mercato nell’anno solare precedente dai produttori che lo costituiscono, almeno superiore al 3 per cento, in almeno un raggruppamento”.

 

E’ infatti evidente che la norma che impone la rappresentanza obbligatoria di una quota minima di mercato costituisce una barriera di ingresso per gli operatori, sia italiani che esteri, che intendano avviare un nuovo sistema collettivo, con gravi riflessi sul regime della libera concorrenza e del diritto, costituzionalmente garantito, della libertà di esercizio dell’attività economica.

 

In altri termini la norma pare introdurre un significativo ed immotivato divieto all’ingresso nel mercato del recupero dei RAEE, non giustificato dal perseguimento di specifici interessi pubblici, condizionando o ritardando l’ingresso di nuovi sistemi collettivi e, conseguentemente, ingenerando ingiustificate discriminazioni a danno della concorrenza.

 

E’ qui sufficiente ricordare come la Corte Costituzionale abbia a più riprese affermato che l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti e genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. (sentenze n. 299 e n. 200 del 2012; n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009 e n. 125 del 2014).

 

Su questo specifico aspetto si riscontrano forti di dubbi di legittimità anche con riferimento alle norme del Trattato Sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Va infatti ricordato come l’art. 101 TFUE, vieti gli accordi e le intese che abbiano come oggetto o effetto di impedire, restringere, o falsare la concorrenza. L’art. 102 del TFUE dichiara poi incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo.

 

Sebbene tali norme si rivolgano direttamente alle imprese, in forza del dell’artt. 4(3) TFUE anche gli Stati membri devono astenersi dall’adottare misure che rischiano di compromettere la realizzazione degli scopi del TFUE, imponendo o agevolando la conclusione di intese restrittive della concorrenza o rafforzando l’effetto di tali intese, ovvero favorendo lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante.

 

L’istituzione di una barriera di ingresso del 3 per cento del mercato dei produttori potrebbe quindi essere ritenuta lesiva dell’art. 101 e 102 del TFUE, favorendo i sistemi collettivi esistenti e impedendo la costituzione di nuovi potenziali concorrenti, a cui è lasciata solo l’alternativa di aderire ai sistemi esistenti (che peraltro non sono obbligati ad accettarli), od operare su base individuale.

 

L’imposizione della forma consortile e dello statuto –tipo, così come dell’obbligo di rappresentare una quota minima di mercato, appaiono peraltro di assai dubbia legittimità non solo sotto i profili sopra accennati, ma anche in quanto interferiscono direttamente con il diritto libertà di stabilimento e con quella di prestazione dei servizi garantite dal Trattato.

 

L’art. 49 TFUE prevede che le imprese di uno Stato membro possano stabilirsi in altro Stato membro per esercitarvi un’attività economica alle stesse condizioni delle imprese di tale Stato membro. Secondo una giurisprudenza constante, ogni provvedimento nazionale suscettibile di ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato costituisce una restrizione ai sensi dell’art. 49 TFUE, pure se applicabile senza discriminazioni in base alla cittadinanza2.

 

L’art. 56 del TFEU prevede poi che ogni impresa legalmente stabilita in uno Stato membro può prestare i suoi servizi temporaneamente e occasionalmente in un altro Stato membro alle stesse condizioni imposte da tale Stato alle proprie imprese.

 

Così come per la libertà di stabilimento, la libera prestazione di servizi comporta non solo l’eliminazione di qualsiasi discriminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro in base alla sua cittadinanza, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri, allorché essa sia tale da ostacolare o da rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi3.

 

Dall’art. 10 si evince come i produttori possano avvalersi esclusivamente di entità giuridiche costituite in base al diritto italiano e stabilite in Italia (dovendo essere soggette alla vigilanza del Ministero dell’ambiente, essere dotate di collegio sindacale, etc…), mentre l’obbligo di provvedere alla raccolta degli AEE grava su tutti i produttori, sia italiani che esteri.

 

Da ciò sembra discendere che i produttori che vogliono ricevere in Italia servizi di raccolta, recupero, trasporto, etc. dei RAEE in forma collettiva, dovrebbero obbligatoriamente aderire ad un consorzio italiano, o costituirne uno, con i limiti e vincoli sopra descritti, ivi compreso l’obbligo di rappresentare almeno il 3 per cento dei produttori in almeno un raggruppamento.

 

In ogni caso, anche ammettendo che un produttore di AEE possa operare mediante un sistema di raccolta collettivo straniero (ma la cosa pare molto difficile), le limitazioni e condizioni poste dall’art. 10 del D. Lgs. 49/2014 sembrano inevitabilmente confliggere con gli artt.. 49 e 56 del TFUE.

 

In primo luogo, in base all’art. 10 , occorrerebbe conformarsi ad un modello organizzativo predefinito (il consorzio) e ad uno statuto tipo. Per di più, dopo la modifica introdotta dalla legge di conversione del D. Lgs. 91/2014, ai sistemi collettivi viene imposto l’obbligo di dimostrare una capacità finanziaria minima, l’obbligo di dotarsi del collegio sindacale, dell’organismo di vigilanza e di una società di revisione, e di rappresentare una quota minima di mercato del tre per cento in almeno un raggruppamento.

 

Per il sistema collettivo occorre quindi ottenere un’autorizzazione preventiva dello statuto e dimostrare di possedere tutti i requisiti (di dubbia legittimità) di cui all’art. 10, e ciò si applicherebbe anche a consorzi stranieri (in ipotesi già autorizzati nello Stato membro di origine e già soggetti alla vigilanza dell’autorità competente del paese di origine).

 

La Corte di giustizia europea ha già vagliato, in passato, le norme che prevedono la necessità di autorizzazioni amministrative, licenze, o registrazioni, per poter esercitare una determinata attività economica, spesso concludendo che la normativa subordinante lo stabilimento o la prestazione di servizi al rilascio di un’autorizzazione amministrativa costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento o alla libera prestazione dei servizi, poiché comporta spese ed oneri amministrativi aggiuntivi per le imprese di altri paesi.

 

La Corte ha così affermato che “In particolare, costituisce una restrizione ai sensi dell’art. 43 CE una normativa che subordina lo stabilimento, nello Stato membro ospitante, di un operatore economico di un altro Stato membro al rilascio di una previa autorizzazione e che riserva l’esercizio di un’attività autonoma a taluni operatori economici che soddisfano requisiti predeterminati il cui rispetto condiziona il rilascio di detta autorizzazione. Una normativa del genere scoraggia o addirittura ostacola l’esercizio nello Stato membro ospitante, da parte di operatori economici di altri Stati membri, della loro attività mediante uno stabilimento costante”4.

 

Di conseguenza, vi sono validi motivi per ritenere che l’art. 10 del D. Lgs. 49/2014, nella parte in cui richiede l’autorizzazione ministeriale per lo statuto dei consorzi, subordinando la stessa a condizioni estremamente onerose, costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento o alla libera prestazione di servizi.

 

Tale rischio di illegittimità risulta amplificato dalle modifiche introdotte dalla legge di conversione del D. Lg. 91/2014, prima tra tutte la condizione per i sistemi collettivi di raggruppare un numero minimo di produttori, in quanto tale previsione incide anche direttamente sul regime della concorrenza.

 

 

 

Luca Prati Francesco Maria Salerno

 

 

 

1 Il considerando 23 della Direttiva stabilisce il principio che il produttore è libero di adempiere agli obblighi di raccolta “individualmente o aderendo ad un regime collettivo”.

 

2 Cause riunite C-570 e 571/07, José Manuel Blanco Pérez e María del Pilar Chao Gómez v Consejería

de Salud y Servicios Sanitarios, sentenza del 1 giugno 2010, in Racc. (2010), p. I-4629, punto 53.

3 Causa C-131/01 Commissione c. Italia, sentenza del 13 febbraio 2003, in Racc. (2003), p. I-1659, punto 26.

4 Cause riunite C-171 e 172/07 Apothekerkammer des Saarlandes, sentenza del 19 maggio 2009, in Racc. (2009), p. I-4171, punto 23: ”. V. anche Causa 189/03 Commissione c. Paesi Bassi, sentenza del 7 ottobre 2004, in Racc. (2004), p. I-9289, punto 17, riguardante la necessità di autorizzazione per la prestazione di servizi privati di vigilanza e d’investigazione; Cause riunite C-338, 359, e 360/04, Placanica, sentenza del 6 marzo 2007, in Racc. (2007), p. I-1891, punti 42 e 44, in cui la Corte di giustizia ha ribadito che la normativa italiana che contiene il divieto – penalmente sanzionato – di esercitare attività nel settore dei giochi d’azzardo in assenza di concessione o di autorizzazione rilasciata dallo Stato, comporta restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi.