L’AUTORIZZAZIONE DEGLI IMPIANTI MOBILI DI SMALTIMENTO O DI RECUPERO (ART.208/15 D.LGS. 152/2006): LE ESCLUSIONI, IN PARTICOLARE DELLA RIDUZIONE VOLUMETRICA DEI RIFIUTI

di Alberto Pierobon

 

 

Pubblicato nella rubrica a cura di A.Pierobon in Gazzetta Enti Locali on line del 2 agosto 2010 – Maggioli Editore

 

L’autorizzazione di cui trattasi (1) ) viene specificatamente disciplinata (non assumendo carattere di specialità) per gli impianti mobili (2), ovvero – a determinate condizioni – costituisce una “eccezione” (3) alla procedura autorizzativa ordinaria.
Giova rammentare, più generalmente, come le autorizzazioni rientrino “nelle funzioni regolative della pubblica amministrazione in quanto volte, con carattere preventivo e di precauzione, a far sì che le attività dei soggetti incidenti sul bene ambiente, siano disciplinate non solo legislativamente parlando, ma pure in sede provvedimentale, in modo tale che nel loro svilupparsi vengano salvaguardati: la salute, l’ambiente, l’iniziativa economica privata, eccetera. È chiaro che l’ordinamento necessariamente opera un bilanciamento tra gli interessi coinvolti […] in tal senso l’autorizzazione può assumere (od essere sussunta anche nelle) funzioni di previsione, di prevenzione, di gestione, programmatorie, ecc. (4). Sembra poi superfluo stare qui a ricordare la distinzione o classificazione (peraltro sulla base di criteri o parametri anche diversi) (5) di vecchio conio tra procedimenti ablatori, concessori, autorizzatori, ricognitori, ecc.” (6).
Nella disciplina previgente dell’art. 28, comma 7, del d.lgs. 22/1997 la espressa esclusione degli impianti mobili di sola riduzione volumetrica di per sé non significava che gli impianti di riduzione volumetrica possano derogare (non necessitare) di autorizzazione, ma, per l’appunto, solo gli impianti mobili “sul (sottinteso) presupposto che la sola riduzione volumetrica non è una operazione né di smaltimento, né di recupero” (7). Inoltre, la normativa com’è noto non prevedeva (come ora avviene) una autorizzazione unica, disponendo che “gli impianti mobili di smaltimento o di recupero, ad esclusione della sola riduzione volumetrica, sono autorizzati, in via definitiva dalla regione ove l'interessato ha la sede legale”, per cui venivano esclusi, per esempio, i compattatori per la sola riduzione volumetrica in quanto operazione priva di “carattere di autonomia” (8) , ovvero in quanto “modalità di carattere secondario rispetto alla specifica attività di smaltimento e di recupero cui non si da pertanto carattere di autonomia” (9) e quindi operazioni non automaticamente e non necessariamente rilevanti per le attività (da autorizzarsi) di smaltimento o di recupero.
Ora, il comma 15 dell'articolo 208 del d.lgs. 152/2006 così stabilisce:
“Gli impianti mobili di smaltimento o di recupero, esclusi gli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l'acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ad esclusione della sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee, sono autorizzati, in via definitiva, dalla regione ove l'interessato ha la sede legale o la società straniera proprietaria dell'impianto ha la sede di rappresentanza”.
Da una prima interpretazione “letterale” si evince:

a.     l’esclusione degli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l'acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano;

b.     l’altresì esclusione delle operazioni di sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee

Peraltro, la questione della riduzione volumetrica non è, a nostro avviso, automaticamente liquidabile soffermandosi alla sola operazione di compattazione, infatti:

a.      la riduzione volumetrica può avvenire anche tramite altre operazioni quali, per esempio, la “macinazione” considerata una attività di riduzione volumetrica;

b.     l’impianto mobile di riduzione volumetrica, anche “qualificato” sotto la “etichetta” della compattazione, spesso non si riduce al solo contenitore dotato di pressa, ma prevede anche la integrazione/modularità con altre attrezzature, per esempio coclee, nastri trasportatori, eccetera, ragione per cui sembra assumere qui rilevanza un aspetto non solo della cosiddetta caratteristica “mobile” dell’impianto, bensì della sua rilevanza in ambito ambientale (cioè la dimensione e la integrazione come elementi di impatto ambientale o di presunzione di rischio ambientale (10));

c.     siccome le operazioni prestesamente di riduzione volumetrica potrebbero, per certi materiali, per certe attività, per certe gestioni, ecc., comportare vere e proprie operazioni di smaltimento o di recupero si “ritornerebbe” al concetto di gestione di rifiuti (con la doverosa autorizzazione non potendo essere evitata solo con la formulazione letterale dell’art. 208,comma 15, del d.lgs. 152/2006);

d.     il rifiuto oggetto della “riduzione volumetrica” potrebbe esitare dall’impianto senza modificare la natura/composizione oppure modificandola e quindi anche il relativo Cer (per esempio un imballaggio misto di plastica compattato in un cantiere, a seconda delle operazioni ivi svolte, potrebbe essere un Cer 15 oppure, addirittura un Cer 19) per cui occorre attenzionarsi anche sulla gestione “precedente” lo inserimento del rifiuto nell’impianto mobile ed altresì  valutare anche il materiale che (e come) “esce” dallo stesso impianto;

e.     se il rifiuto dovesse uscire dall’impianto qualificato come “materia prima secondaria” (ipotesi truffaldina tutt’altro che rara) o come semplice materiale (merce, non rifiuto) ciò confermerebbe, per quanto si osserverà, la necessità della previa autorizzazione, altrimenti il rifiuto (palesato od occultato) non solo verrebbe smarrito nella gestione che avverrebbe “fuori autorizzazione” (senza tracciabilità, a tacer d’altro), ma addirittura potrebbe non essere “censito” come rifiuto, oppure potrebbe consentire altre operazioni quali,esemplificativamente, miscelazioni, conversioni, nobilitazioni, ecc.

Pervero l’esame problematico dell’art. 208, comma 15, del d.lgs. 152/2006 (lasciato immutato dal d.lgs. n. 4/2008) sembra essere stato trascurato, quantomeno da parte della dottrina, la quale dottrina, sovente, non entra nel merito, altre volte rimane ancorata al mero dato letterale della norma senza quindi assumere una chiara – decisa – posizione al riguardo (11).
Altri Autori rimangono ancorati “al dato testuale” e, pur segnalando la singolarità della disposizione, affermano che “se tali impianti effettuano solo le operazioni di: 1) riduzione volumetrica; 2) separazione delle frazioni estranee. Sono autorizzati, in via definitiva, dalla regione” (12).
Altra dottrina intende questa “esclusione” come una sorta di endiadi ovvero esclusi gli impianti che effettuano la disidratazione dei fanghi,eccetera, “ed esclusa la semplice riduzione volumetrica” (13) così considerando questi impianti non abbisognevoli di autorizzazione, in quanto esclusi (doppia negazione che rimane tale).
Altri esperti, considerando immutato sia il “precedente assetto normativo> sia 14).
Infine, altri Autori rimangono entro una interpretazione “strettamente” letterale, arrivando ad effetti paradossali, cioè leggendo la doppia esclusione come una prima esclusione di genus (impianti di disidratazione dei fanghi) e la seconda (“ulteriore”) limitazione come una species (di esclusione) entro il genus, ovvero così “azzerando” la prima esclusione solo per la species degli impianti di riduzione volumetrica e di selezione collocabili entro il predetto genus (15). Quest’ultima posizione non è obiettivamente sostenibile per le seguenti semplici considerazioni: gli impianti di disidratazione dei fanghi non contengono la species di impianti di riduzione volumetrica e di selezione dei rifiuti, se poi contenessero impianti saremmo in presenza di un impianto “complesso” o di una modularità che, francamente, configurerebbe altro che un impianto mobile.
Ancora, ove si interpretasse (proprio torturando la norma e abusando del tempo prezioso di ognuno) l’esclusione valevole solo per gli impianti di disidratazione, ma escludendo dall’esclusione medesima (e quindi autorizzando) gli impianti di riduzione volumetrica (altra tesi ipotetica) è chiaro che la norma de qua non avrebbe senso logico e fondamento: perché infatti affermare, con questa circonluzione, che sono soggetti ad autorizzazione questi ultimi impianti assieme a tutti gli altri? È evidente che bastava fermarsi alla prima esclusione, per poi lasciare “fuori” dall’esclusione, ovvero riportare alla regola (della necessità di autorizzazione) tutti gli altri impianti (come in effetti avviene. Con il che non ci soffermiamo ulteriormente su questi aspetti che sono prima di logica e di senso che di interpretazione giuridica secondo i classici (“arrugginiti”) criteri “codicistici”.
Il cuore del problema (che è “a monte”) è se le attività effettivamente svolte (prima e durante e dopo l’impianto mobile) siano considerate, per l’interesse pubblico ambientale, sottoponibili ad autorizzazione oppure lasciate come dire … “libere”.
In altri termini per il prefato interesse -  nell’esercizio di queste attività o di impianto - sussistono preoccupazioni quantomeno di tutela all’ambiente e alla salute tali da imporre una autorizzazione (16) (e quindi la soggezione del privato ad una disciplina – anche prescrizionale - ed un maggior controllo da parte della pubblica autorità, che la esercita – almeno quella amministrativa - anche per il tramite della discrezionalità di cui gode)?
In altri termini, fermo restando quanto già affermato sulla questione degli impianti di riduzione volumetrica e di selezione dei rifiuti, riteniamo in questa sede:

A.     ricordare che tutti gli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti vanno autorizzati poiché presuntivi di pericolo e, comunque, per espressa scelta legislativa;

B.     secondo una lettura di “senso” e funzionale (oltre che storica) tutti gli impianti “mobili” (e qui il termine abbisogna di ulteriori scavi, non come categorizzazione ma come dimensione dell’interesse di tutela che esso comporta) di smaltimento e di recupero dei rifiuti vanno autorizzati, eccezion fatta per: a) gli impianti di disidratazione dei fanghi […]; b) gli impianti di riduzione volumetrica e di selezione (diversamente non si spiegherebbe il “voluto” del legislatore “Ronchi” e la, ulteriore, esclusione delle operazioni di riduzione volumetrica e di selezione che nel contesto dell’epoca assumevano altra valenza, soprattutto di propedeuticità alla logistica e alla raccolta differenziata che si voleva allora avviare);

C.     la “cattiva” (se non fuorviante) formulazione legislativa è frutto di un evidente errore del legislatore (questa la nostra posizione), del resto anche nella bozza del d.lgs. di recepimento della direttiva 2008/98 leggiamo all’art. 21 recante “Modifiche all’articolo 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152” (17) leggiamo che “Gli impianti mobili di smaltimento o di recupero, esclusi gli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ed esclusi i casi in cui si provveda alla sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee, sono autorizzati in via definitiva dalla regione ove l’interessato ha la sede legale o la società straniera proprietaria dell’impianto ha la sede di rappresentanza”;

D.    Come noto, il reato di attività di gestione dei rifiuti in assenza di autorizzazione “non ha natura di reato proprio integrabile soltanto da soggetti esercenti professionalmente una attività di gestione di rifiuti, ma costituisce una ipotesi di reato comune che può essere pertanto commesso anche da chi esercita attività di gestione dei rifiuti in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa” Cass. pen., sez. III, sentenza n. 16698 del 8 aprile 2004 (18). La “complicazione” (invero ricorrente) è che essendo gli illeciti ambientali nella stragrande parte annoverabili entro i reati cosiddetti di pericolo astratto o presunto, è per essi sufficiente non tanto accertare la condotta causativa di un danno o di una specifica situazione di pericolo ambientale, quanto il rispetto del dato autorizzativo (includente standards, prescrizioni, eccetera) condotta che viene presupposta necessaria per presunzione di pericolosità prognostica (astratta) (19);

E.     va segnalata la “tendenza” per la quale il controllo preventivo degli enti territoriali manifestato tramite l’autorizzazione è certamente un elemento “determinante” nell’accertamento dei reati, però essendo ravvisabile un reato di pericolo (senza quindi la necessità che venga accertata la previa consumazione del danno) sta venendo avanti, anche da parte della Terza Sezione della Cassazione penale, una posizione di bilanciamento tra il principio di legalità (art. 25, comma 2, della Cost.) assoluto e quello di offensività, condivisibilmente “verso una visione più sostanzialistica dell’ambiente” (20);

F.     condividiamo la posizione (che pare essere una ovvietà, ma tale non è) secondo  la quale “L’autorizzazione oggi non può prescindere dai controlli e non esiste azione mirata e consapevole di controllo senza autorizzazione” (21), ragion per cui nella concreta attività di verifica e di controllo, dove i soggetti che effettuano queste attività ricostruiscono (anche non istantaneamente) il quadro completo della situazione (al di là della sua configurazione di superficie) e quindi utilizzando elementi indiziari, le circostanze, la valutazione dei comportamenti, eccetera, nonché contestualizzando le operazioni che effettivamente avvengono in un ambito che non giammai “limitato” al solo perimetro gestionale del luogo, ma che abbisogna di una più complessiva ricostruzione sincretica (tecnico, economica, organizzativa, giuridica, contrattuale, fiscale, commerciale, eccetera), in questa “ricostruzione” la risposta anche ad uguali gestioni (per esempio ad uguali impianti mobili di riduzione volumetrica e di selezione dei rifiuti) non sono mai uguali (né tantomeno seriali) e la norma spesso risulta inadeguata e non “usabile” ai fini di cui trattasi;

G.    in tal senso assumiamo (e confermiamo) quella posizione che vede nello approccio del “caso per caso” la valutazione della situazione e la configurabilità giuridica della stessa, in quanto non vi sono disposizioni “pronte all’uso” o “prontuari” che possano risolvere o dare illuminazione alle questioni dianzi accennate (e per le quali ci riserviamo un ulteriore, prossimo, intervento);

H.    Infine, per quanto riguarda la disciplina delle procedure autorizzative in materia di rifiuti e quindi la possibilità che sia la Regione a meglio disciplinare queste “zone d’ombra”, va osservato che pur nella competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale vi sono spazi per l’intervento del legislatore regionale però le Regioni non possono rendere meno rigoroso il regime delle autorizzazioni come previsto a livello statale (22);

I.      sotto un altro profilo (che qui ci interessa) la necessità della previa autorizzazione riguarda comunque una attività “permessa” dalla legislazione e comporta anche la eterointegrazione della norma penale ove il provvedimento (regionale) specifica, ancorché in via meramente tecnica, taluni comportamenti o modalità gestorie, per cui l’inottemperanza o la violazione del contenuto dell’autorizzazione (23) sono sanzionabili penalmente.

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(1) Trattasi di prima ricostruzione in corso di approfondimento.
(2) Sull’individuazione dell’impianto mobile si è intrattenuto Amendola G., Gestione dei rifiuti e normativa ambientale, Milano, 2003, p. 379 ss. evidenziando che la legislazione urbanistica e sulle emissioni ha enucleato due parametri di riferimento: “l’ancoraggio permanente al suolo e la temporaneità dell’esercizio” anche per “apparecchi di minima entità e di minimo impatto ambientale, perché solo in tal caso è giustificabile una rinuncia alla procedura di garanzia prevista per la costruzione ed installazione di impianti […].E pertanto i parametri dell’ancoraggio al suolo e della temporaneità devono essere considerati non di per sé ma solo e proprio quali indicatori del tipo di impatto che può derivare nel caso concreto […]. Appare, quindi, del tutto condivisibile l’unico (per quanto a noi consta) precedente giurisprudenziale (TAR Emilia-Romagna, sez. Parma, c.c. 2.4.2001, n. 235, Ecozoo-Provincia di Piacenza: citato in nota 33 di p. 380 n.d.r.), emesso in campo amministrativo, il quale richiede che un «impianto mobile» non solo sia «facilmente amovibile» dal sito prescelto ma si ponga anche in rapporto del tutto precario, e quindi ben delimitato temporalmente, con il suddetto luogo e con l’ambiente circostante (… in quanto solo questo tipo di impianto n.d.a. …) può beneficiare, in ragione del tenute e soprattutto provvisorio impatto con l’ambiente circostante il sito di installazione, del semplificato e celere regime previsto dall’art. 28, comma 7, d.lgs. n. 22/97”. Più recentemente, altro Autore ha osservato, come “La giurisprudenza amministrativa ha qualificato come impianto fisso un impianto a suo tempo autorizzato come impianto mobile in ragione della «mancata comunicazione in merito alla campagna di attività» (Cons. Stato, sez. V, 1501/2002, che conferma TAR Emilia-Romagna, Parma, 235/2001)”, così Dell’Anno P., Elementi di diritto dell’ambiente, Padova, 2008, nota 221 di p. 132 ove sulla disciplina dell’art. 208, comma 15, del d.lgs. 152/2006 si esprime per il “pressoché invariato” regime autorizzatorio degli impianti mobili per lo smaltimento o il recupero dei rifiuti. Altri considerano impianto “mobile” quello che si contrappone non all’impianto “fisso”, bensì a quello “immobile” e quindi sarebbe l’art. 812 del codice civile a chiarire il concetto “Di conseguenza, si ritiene che rientrano nel campo di applicazione del procedimento di autorizzazione previsto per gli impianti mobili di recupero e di smaltimento solo gli impianti che durante l’esercizio delle suddette operazioni non devono essere necessariamente uniti al suolo, né a scopo transitorio, né direttamente o indirettamente” così Pernice M., Il sistema normativo e tecnico di gestione dei rifiuti, Milano, 2008, p. 145. Altri rinviano alle amministrazioni regionali, “di norma”, la determinazione dei “criteri per la corretta individuazione di «impianto mobile»”, così Nepi M.L.-Onori E., in (a cura di Ficco P.), Rifiuti e bonifiche, Milano, 2007, p. 64.
(3) Così, espressamente: Costato L.-Pellizze F.R., Commentario breve al codice dell’ambiente, Padova, 2007, p. 209; Ramacci L., La nuova disciplina dei rifiuti, Piacenza, 2008, p. 132; Busà M.- Costantino P., La disciplina dei rifiuti, Rimini, 2008, p. 35.
(4) Si veda P. Dell’Anno, Manuale di diritto ambientale, Padova, 2003, p. 257 ss.
(5) Cfr. G. Rossi, (a cura di) Diritto dell’ambiente,Torino, 2008, pp. 63-64.
(6) Ci si permette rinviare a Pierobon A., Gli incombenti amministrativi per gli enti locali e le loro aziende: le autorizzazioni, l’iscrizione all’albo gestori, il registro di carico e scarico dei rifiuti, il m.u.d., il trasporto e il formulario di trasporto dei rifiuti,in (a cura di Lucarelli A.-Pierobon A.), Governo e gestione dei rifiuti.Idee, percorsi, proposte, Napoli, 2009, p. 183 ss.
(7) Franco M., in Aa.Vv., La normativa italiana sui rifiuti, Milano, 2002, p. 125 (nella precedente edizione del 1999, pp. 85-86) il quale prosegue “Se così è, e non si vede come possa essere altrimenti, necessariamente ne discende che gli impianti e le operazioni di sola riduzione volumetrica non sono sottoposti né ad approvazione, né ad autorizzazione anche se sono fissi”.
(8) Cervetti Spriano F., La nuova normativa sui rifiuti, Milano, 1998, p. 172.
(9) Taina M., in (a cura di Maglia S.-Rocca F.), Il manuale pratico dei rifiuti, Piacenza,2002, pp. 323-324.
(10) In effetti diverse sentenze relative alla Via sembrano segnalare questo aspetto.
(11) Per esempio il limitarsi ad affermare che “Sono esclusi dall’autorizzazione gli impianti mobili che effettuano la disidratazione di fanghi di depurazione re immettendo l’acqua in testa al processo produttivo, «ad esclusione della sola riduzione volumetrica dei rifiuti con separazione delle frazioni estranee»” come fa Nepi M.L.-Onori E., op.cit., p. 65 non pare, come vedremo, assumere una posizione su (e tantomeno chiarire) le varie ipotesi derivanti da una lettura, appunto, meramente letterale dell’art. 208, comma 15, del d.lgs. 152/2006.
(12) Albertazzi B., in Guida commentata alla normativa ambientale, Roma, 2008, p. 452 dove conclude: “Non sappiamo se si sia trattato di un errore del legislatore che avrebbe voluto esprimersi diversamente. Certo è che il d.lgs. 4/2008 non è intervenuto su tale aspetto”.
(13) Franco M.-Pipere P., Manuale per la gestione dei rifiuti, Venezia,2007, p. 28.
(14) Laraia R., in (a cura di Giampietro P.), La nuova gestione dei rifiuti, Milano, 2009, p. 210.
(15) Così parrebbe evincersi da D’Ippolito G., L’ambiente contestato (gli enti locali e il decreto ambientale), Soveria Mannelli, 2007, p. 128.
(16) Poiché, come già notato, la funzione tipica dell’autorizzazione sarebbe “la prevenzione dei rischi ambientali e sanitari connessi alla gestione dei rifiuti tramite la verifica preventiva del rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi stabiliti dalle norme (standard, limiti,condizioni di esercizio, ecc.) e l’individuazione delle altre prescrizioni e misure da adottare per assicurare che i rifiuti siano recuperati e smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare metodi e procedimenti pregiudizievoli per l’ambiente (art. 178, comma 2)” Pernice M., Il sistema normativo e tecnico di gestione dei rifiuti, Milano, 2008, p. 127. Più in generale la “sede elettiva nella quale viene effettuata” una attività “di controllo/misurazione/quantificazione” del “ragionevolmente possibili” rischi “quantomeno secondo criteri probabilistici” ovvero “attività di selezione e di delimitazione del rischio (rectius, dei rischi nonché la loro comparazione, con sofisticate operazioni di bilanciamento e di ponderazione) è sicuramente il procedimento amministrativo, con i suoi riti ed accadimenti formali/sostanziali e, conseguentemente, con la forza e la contestuale “debolezza” del suo nucleo forte di principi di garanzia” Ferrara R., La protezione dell’ambiente e il procedimento amministrativo nella “società del rischio”, in (a cura di De Carolis D., Ferrari E., Police A.), Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, 2006, p. 342.
(17) “1. All’articolo 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 sono apportate le seguenti modifiche: p) al comma 15, le parole “ad esclusione della” sono sostituite dalle parole «ed esclusi i casi in cui si provveda alla»”.
(18) Citata da Fimiani P., La tutela dell’ambiente dopo il d.lgs. n.4/2008, Milano, 2008, nota 112 di p. 307.
(19) E, tanto per restare nella questione concreta qui lambita, come prima domanda: la riduzione volumetrica è un fatto che in concreto può reputarsi essere inoffensivo, o non?
(20) Grillo C.M., La giurisprudenza della Corte dei Cassazione in materia ambientale, in (a cura di Postiglione A.), Economia e ambiente. Profili economici, giuridici e sociali dello sviluppo sostenibile in Italia, Milano, 2009, p. 183.
(21) Carruba C.- Roberti V., La nuova frontiera del controllo ambientale: conoscere, informare, partecipare, vigilare, in (a cura di Postiglione A.), Economia e ambiente. Profili economici, giuridici e sociali dello sviluppo sostenibile in Italia, Milano, 2009, p. 155.
(22) Vedi, recentemente, Corte cost. 14.3.2008, n. 62 la quale afferma che «nel settore dei rifiuti, riconducibile alla più ampia materia della “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, accanto ad interessi inerenti in via primaria alla tutela dell’ambiente, possono venire in rilievo interessi sottostanti ad altre materie, per cui la «competenza statale non esclude la concomitante possibilità per le Regioni di intervenire [...]  che non possono in alcun modo essere derogati o peggiorati (sentenza n. 378/2007) […]. L’art. 24, commi 1 e 2, della l. p. Bolzano n. 4 del 2006 interviene in senso riduttivo sulla disciplina uniforme stabilita dal legislatore statale nella materia ambientale, in ordine all’autorizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti, disciplina, cui «la legislazione regionale deve attenersi, proprio in considerazione dei valori della salute e dell’ambiente che si intendono tutelare in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale» (sentenza n. 173 del 1998; si vedano, altresì, le sentenze n. 194 del 1993, n. 307 del 1992). Le norme provinciali, invero, consentono la messa in esercizio di un impianto di smaltimento o recupero di rifiuti prima che la sua regolarità sia valutata, in contrasto con l’opposto principio espresso dall’art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, il quale, pure nel testo modificato dall’art. 2, comma 29-ter, del d. lgs. n. 4 del 2008, disciplina l’autorizzazione unica per i nuovi impianti senza prevedere alcuna forma di autorizzazione tacita, neppure provvisoria, e ciò in ottemperanza alle prescrizioni delle pertinenti direttive comunitarie, configurando queste ultime un sistema di autorizzazioni previe (artt. da 9 a 11 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2006/12/Ce del 5.4.2006, relativa ai rifiuti e, prima, artt. da 9 a 11 della direttiva del Consiglio 75/442/Cee del 15..71975, relativa ai rifiuti; art. 3 della direttiva 91/689/Cee del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi; Corte giust. 14.6.2001, C-230/00, Commissione c. Belgio)».
(23) Anche se non possono sottacersi profili di dubbia costituzionalità, con riferimento al principio di stretta legalità e della riserva assoluta di legge. Ma questa è un altro aspetto che non rientra tra le finalità del presente intervento.