Il principio della fattibilità tecnica ed economica alla luce dell’art. 178 D.lgs.152/2006
di Stefano MAGLIA e Francesca MINISCALCO
In materia di gestione dei rifiuti, l’obiettivo principale di qualsiasi politica è quello di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente: a ciò si addiviene ricorrendo ai fondamentali principi di precauzione, di prevenzione, di “chi inquina paga”, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, nonché di sostenibilità e proporzionalità.
Come spesso accade nel settore ambientale, anche in materia di rifiuti, l’impulso proviene dall’Unione Europea: dapprima, con la direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975 (75/442/CEE), ove viene espressamente sancito il fondamentale principio “chi inquina paga”, nonché il principio di prevenzione; successivamente, con la direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, ove vengono altresì in rilievo ulteriori principi, quali il principio di proporzionalità, di precauzione e dell’azione preventiva, della protezione delle risorse, nonché della fattibilità tecnica e praticabilità economica.
Ciò che pare sin da subito evidenziare è che quest’ultimo principio solo nel corso degli ultimi anni sta rivestendo la dovuta attenzione da parte degli operatori del diritto.
Sebbene si tratti ancora di una “timida” apertura, occorre sottolineare che il principio della fattibilità tecnica e praticabilità economica sta iniziando ad applicarsi -con le dovute attenzioni, ovviamente- sia per mano della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, sia per mano della giurisprudenza italiana.
La questione riveste un’importanza pratica tutt’altro che secondaria, specie se si tiene nella dovuta considerazione tutti gli obblighi che vengono imposti al detentore del rifiuto sia dal punto di vista tecnico che economico.
Ricorrendo al principio di fattibilità tecnica ed economica, però, gli obblighi che devono essere imposti in capo a chi detiene un rifiuto non possono tuttavia sfociare nella irragionevolezza e sproporzionalità.
Prima di analizzare come viene interpretato il principio della fattibilità tecnica ed economica dall’orientamento giurisprudenziale europeo ed italiano, occorre brevemente inquadrare il principio in questione, ripercorrendo anche l’excursus normativo.
Indice:
Capitolo 1: Il Decreto Ronchi
Capitolo 2: L’ordinamento dell’UE
Capitolo 3: Il T.U.A.
Capitolo 4: La giurisprudenza italiana ed europea
Capitolo 1: Il Decreto Ronchi
In materia di gestione dei rifiuti, l’ordinamento italiano si è dotato nell’anno 1997 di un sistema di regole cardini, a mezzo del Decreto Legislativo 5 Febbraio 1997, n. 22 (noto come “Decreto Ronchi”)[1].
Il Decreto Ronchi ha cambiato radicalmente i modelli di gestione dei rifiuti e ha attuato una riforma organica e sistemica, per certi versi “rivoluzionaria”, nel nostro ordinamento (a titolo esemplificativo, si ricorda la scelta di dare priorità al riciclo rispetto allo smaltimento in discarica, o piuttosto, l’anticipazione degli indirizzi europei sulla gerarchia nella gestione dei rifiuti)[2].
Tra le regole cardini del Decreto Ronchi, inizia a vedere la luce anche il concetto di fattibilità tecnica ed economica, seppur indirettamente e mai esplicitamente citato nel Decreto stesso.
In particolare, occorre ricordare l’art. 2 del D. Lgs. n. 22/1997 (rubricato “Finalità”), il quale, dopo aver evidenziato che la gestione dei rifiuti costituisce attività di pubblico interesse ed è disciplinata al fine di assicurare un’elevata protezione dell’ambiente e della salute umana, sancisce che “la gestione dei rifiuti si conforma ai principi di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto dei principi dell’ordinamento nazionale e comunitario”.
Occorre altresì evidenziare l’importanza dell’art. 3 (rubricato “Prevenzione della produzione dei rifiuti”), a mente del quale:
Le autorità competenti adottano, ciascuna nell’ambito delle proprie attribuzioni, iniziative dirette a favorire, in via prioritaria, la prevenzione e la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti mediante:
a) lo sviluppo di tecnologie pulite, in particolare quelle che consentono un maggiore risparmio di risorse naturali;
b) la promozione di strumenti economici, ecobilanci, sistemi di ecoaudit, analisi del ciclo di vita dei prodotti, azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori, nonché lo sviluppo del sistema di marchio ecologico ai fini della corretta valutazione dell’impatto di uno specifico prodotto sull’ambiente durante l’intero ciclo di vita del prodotto medesimo;
c) la messa a punto tecnica e l’immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da non contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il loro uso od il loro smaltimento, ad incrementare la quantità, il volume e la pericolosità dei rifiuti ed i rischi di inquinamento;
d) lo sviluppo di tecniche appropriate per l’eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti destinati ad essere recuperati o smaltiti (omissis).
Capitolo 2: L’ordinamento dell’UE
Dal canto suo, l’ordinamento dell’Unione Europea pone particolare attenzione al principio della fattibilità tecnica ed economica, introducendolo letteralmente -come anticipato sopra- all’art. 4, paragrafo 2, ultimo comma, della Direttiva 2008/98/CE, relativa ai rifiuti.
In particolare, l’art. 4 (rubricato “Gerarchia dei rifiuti”), dopo aver elencato l’ordine di priorità in tema di gerarchia dei rifiuti[3], sancisce che “(…) Gli Stati membri garantiscono che l’elaborazione della normativa e della politica dei rifiuti avvenga in modo pienamente trasparente, nel rispetto delle norme nazionali vigenti in materia di consultazione e partecipazione dei cittadini e dei soggetti interessati. Conformemente agli articoli 1 e 13, gli Stati membri tengono conto dei principi generali in materia di protezione dell’ambiente di precauzione e sostenibilità, della fattibilità tecnica e praticabilità economica, della protezione delle risorse nonché degli impatti complessivi sociali, economici, sanitari e ambientali”.
Capitolo 3: Il T.U.A.
Infine, il D. Lgs. 152/2006 (nel dettaglio, la parte IV, titolo I, disciplinante la gestione dei rifiuti), riprende il concetto di fattibilità tecnica ed economica elaborato, per la prima volta, nel Decreto Ronchi e citato, successivamente ed esplicitamente, nella Direttiva 2008/98/CE.
In particolare, l’art. 178[4] del D. Lgs. 152/2006 (rubricato “Principi”), sancisce che: “La gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto del principio di concorrenza nonché del principio chi inquina paga. A tale fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali”.
Sicché, oggigiorno, in materia di gestione dei rifiuti, nell’ordinamento italiano tra i criteri da tenere nella debita considerazione si annovera certamente anche quello della fattibilità tecnica ed economica.
A questo punto, occorre domandarsi che cosa si debba intendere per criterio della fattibilità tecnica ed economica, così come enunciato all’art. 178 del D. Lgs. 152/2006, nonché nella Direttiva 2008/98/CE.
La questione non è di poco conto, se si considera che il principio potrebbe rivestire un ruolo pratico rilevante, specie nei confronti di tutte quelle aziende che si trovano a fare i conti con la “praticabilità” tecnica ed economica di una prescrizione nello svolgimento dell’attività sottoposta ad autorizzazione.
Nonostante la potenzialità del principio della fattibilità tecnica ed economica (da bilanciare -si badi bene- con il fondamentale principio di precauzione), nel nostro paese parrebbe per lo più sconosciuto, o quanto meno poco considerato nelle applicazioni pratiche dagli operatori del settore.
Eppure c’è e riveste una grande importanza.
Capitolo 4: La giurisprudenza italiana ed europea
L’orientamento giurisprudenziale italiano ed europeo, seppur non sussista -a che risulti- una copiosa giurisprudenza sul punto, hanno dato senz’altro un contributo fondamentale per perimetrare il concetto di fattibilità tecnica ed economica.
Lo è stata, ad esempio, la pronuncia del TAR Lombardia, sez. Brescia, n. 207 del 1° marzo 2013, che ha rilevato come la fattibilità tecnica ed economica si pone quale limite alla discrezionalità dell’agire della PA.
Infatti, nel campo della gestione dei rifiuti, l’art. 178 del D. Lgs. 152/2006 riveste un ruolo fondamentale, poiché si pone come “guida” dell’agire amministrativo, indicando i criteri di efficienza, efficacia, economicità, trasparenza e, per l’appunto, di fattibilità tecnica ed economica. Ciò posto, dinanzi al dubbio concreto sulla legittimità delle ristrettezze imposte dall’autorità pubblica, occorre valutare, caso per caso, la proporzionalità del limite imposto, unitamente all’effettiva praticabilità tecnica ed economica della prescrizione nello svolgimento dell’attività.
Nello specifico, si trattava del ricorso proposto dal gestore di un’attività di recupero di rifiuti riguardo l’imposizione, ad ogni singolo conferimento, di una particolare analisi chimica su ogni pezzo, prescrizione di cui si lamentavano la sproporzionalità e l’inopportunità, in ragione dell’assenza di una norma tecnica applicabile al codice CER dei rifiuti in entrata nell’impianto.
In sostanza, il ricorrente sosteneva che l’atto era illegittimo perché viziato da eccesso di potere.
Il TAR, qualificando le prescrizioni come “del tutto inusuali, tecnicamente inapplicabili, pur allo stato della scienza e della pratica di specie stessa con probabilità di pervenire anche a risultati ed analisi non definitori, fuorvianti e perplessi”, ha, correttamente, concluso per la loro “sproporzionalità e non inerenza”, in quanto “fuori luogo ed eccessivamente comprimenti l’iniziativa privata anche sotto il profilo economico”[5].
Con questa pronuncia, dunque, si possono trarre alcune primissime riflessioni: il principio della fattibilità tecnica ed economica è fortemente connesso al principio di proporzionalità[6].
In argomento, si segnala anche la sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sez. III, del 14 luglio 2017, n. 34517 -seppur vertente su una diversa fattispecie in tema di emissioni in atmosfera- in cui è stato sancito che l’ampiezza delle prescrizioni contenute in un’autorizzazione non può sconfinare nell’arbitrio, dovendo essere, invece, sempre ricollegabile alle esigenze di precauzione e di controllo, sulle quali si fonda il potere di autorizzazione riconosciuto in capo all’amministrazione pubblica. Diversamente argomentando -prosegue la Corte- il provvedimento è affetto da eccesso di potere.
Un’altra importante pronuncia, questa volta sul fronte europeo, è rappresentata dalla sentenza del 28 marzo 2019, nelle cause riunite da C-487/17 a C-489/17, della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, recante “Rinvio pregiudiziale – Ambiente – Direttiva 2008/98/CE e decisione 2000/532/CE – Rifiuti – Classificazione come rifiuti pericolosi – Rifiuti ai quali possono essere assegnati codici corrispondenti a rifiuti pericolosi e a rifiuti non pericolosi”.
Le domande di pronuncia pregiudiziale[7] vertono proprio sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 2, e dell’allegato III della direttiva 2008/98/CE, relativa ai rifiuti.
In particolare, la Corte Suprema di Cassazione italiana ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte di Giustizia dell’UE le seguenti questioni pregiudiziali:
1) Se l’allegato alla decisione [2000/532 e l’allegato III della direttiva 2008/98] vadano o meno interpretati, con riferimento alla classificazione dei rifiuti con voci speculari, nel senso che il produttore del rifiuto, quando non ne è nota la composizione, debba procedere alla previa caratterizzazione ed in quali eventuali limiti.
2) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba essere fatta in base a metodiche uniformi predeterminate.
3) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici, considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto.
4) Se, nel dubbio o nell’impossibilità di provvedere con certezza all’individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo debba o meno essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione.
Ebbene, la Corte di Giustizia dell’UE ha statuito che, qualora la composizione di un rifiuto cui potrebbero essere attribuiti codici speculari non sia immediatamente nota, spetta al suo detentore, in quanto responsabile della sua gestione, raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire al rifiuto il codice appropriato.
In particolare, esistono diversi metodi per raccogliere le informazioni necessarie relative alla composizione dei rifiuti, che consentono di individuare l’eventuale presenza di sostanze pericolose, nonché di una o di più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98.
Rileva la Corte di Giustizia dell’UE che, oltre ai metodi indicati alla rubrica intitolata “Metodi di prova” di cui all’allegato III, il detentore dei rifiuti può riferirsi:
– alle informazioni sul processo chimico o sul processo di fabbricazione che generano rifiuti, nonché sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi i pareri di esperti;
– alle informazioni fornite dal produttore originario della sostanza o dell’oggetto prima che questi diventassero rifiuti, ad esempio schede di dati di sicurezza, etichette del prodotto o schede di prodotto;
– alle banche dati sulle analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati membri;
– al campionamento e all’analisi chimica dei rifiuti.
Con particolare riferimento all’analisi chimica di un rifiuto, essa deve consentire al suo detentore di acquisire una conoscenza sufficiente della composizione di tale rifiuto al fine di verificare se esso presenti una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98.
Tuttavia -osserva la Corte- nessuna disposizione della normativa dell’Unione in questione può essere interpretata nel senso che l’oggetto di tale analisi consista nel verificare l’assenza, nel rifiuto di cui trattasi, di qualsiasi sostanza pericolosa, cosicché il detentore del rifiuto sarebbe tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità di tale rifiuto.
La Corte di Giustizia, infatti, evidenzia che “per quanto riguarda gli obblighi derivanti dall’articolo 4 della direttiva 2008/98, emerge chiaramente che gli Stati membri devono adottare misure appropriate per incoraggiare le opzioni che danno il miglior risultato ambientale complessivo. Così facendo, detto articolo prevede che gli Stati membri tengano conto della fattibilità tecnica e della praticabilità economica, cosicché le disposizioni di detta direttiva non possono essere interpretate nel senso di imporre al detentore di un rifiuto obblighi irragionevoli, sia dal punto di vista tecnico che economico, in materia di gestione dei rifiuti”.
Peraltro -continua la Corte- tale interpretazione è anche conforme al principio di precauzione, che è uno dei fondamenti della politica di tutela perseguita dall’Unione Europea in campo ambientale, posto che dalla giurisprudenza della Corte risulta che una misura di tutela quale la classificazione di un rifiuto come pericoloso si impone soltanto qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, sussistano elementi obiettivi che dimostrano che una siffatta classificazione è necessaria.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha statuito che “il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi, onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo”.
Ciò è anche conforme ad un’applicazione corretta del principio di precauzione: infatti, esso presuppone, in primo luogo, l’individuazione delle conseguenze potenzialmente negative per l’ambiente dei rifiuti in questione e, in secondo luogo, una valutazione complessiva del rischio per l’ambiente basata sui dati scientifici disponibili più affidabili e sui risultati più recenti della ricerca internazionale.
La Corte ne ha dedotto che, ove risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito a causa della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per l’ambiente nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive, purché esse siano non discriminatorie e oggettive.
Sulla scorta di quanto sino ad ora evidenziato, la Corte di Giustizia dell’UE ha inoltre sottolineato che, conformemente all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2008/98, gli Stati membri devono tener conto non soltanto dei principi generali in materia di protezione dell’ambiente di precauzione e sostenibilità, ma anche della fattibilità tecnica e della praticabilità economica, della protezione delle risorse nonché degli impatti complessivi sociali, economici, sanitari e ambientali.
Sicché la Corte ha statuito che “il legislatore dell’Unione Europea, nel settore specifico della gestione dei rifiuti, ha inteso operare un bilanciamento tra, da un lato, il principio di precauzione e, dall’altro, la fattibilità tecnica e la praticabilità economica, in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove”.
Anche da questa rilevantissima pronuncia, dunque, si possono trarre alcune riflessioni sul principio della fattibilità tecnica ed economica: anzitutto è fortemente connesso al concetto della ragionevolezza (nel senso che non si possono imporre al detentore di un rifiuto obblighi irragionevoli, sia dal punto di vista tecnico che economico, in materia di gestione dei rifiuti), inoltre è ancorato intimamente al fondamentale principio di precauzione.
Sicché, la Corte di giustizia dell’Unione Europea è chiara nello stabilire che occorre operare, caso per caso, un bilanciamento tra il principio di precauzione ed il principio della fattibilità tecnica e della praticabilità economica, in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame.
In altri termini, si assiste dunque ad un passaggio fondamentale: ovvero, dalla tesi della “pericolosità presunta” (o della “certezza”) alla tesi della “probabilità”, ispirata al principio dello sviluppo sostenibile.
Così facendo, gli Stati membri devono tener conto della fattibilità tecnica e della praticabilità economica, cosicché le disposizioni della direttiva in questione non possano essere interpretate nel senso di imporre al detentore di un rifiuto obblighi irragionevoli, sia dal punto di vista tecnico che economico, in materia di gestione dei rifiuti.
Per concludere, a parere di chi scrive, è di tutta evidenza che il principio in questione debba essere rispettato nella sua interezza: ovvero, tenendo conto sia della fattibilità tecnica, sia della praticabilità economica.
Seguendo, infatti, l’interpretazione letterale della norma, la presenza della congiunzione “e” implica chiaramente che entrambe le prescrizioni debbano essere tenute nella debita considerazione.
Da ultimo, a completezza della disamina, è utile richiamare anche la sentenza del 16 marzo 1990, n. 127 della Corte Costituzionale, a mezzo della quale, sin dall’anno 1990, la Corte ha evidenziato come -in tema di emissioni in atmosfera e di inosservanza della “migliore tecnologia disponibile”- la norma[8] che condiziona l’obbligo di utilizzare la migliore tecnologia disponibile, alla condizione che l’applicazione delle misure “non comporti costi eccessivi”, deve intendersi comunque riferita al raggiungimento di livelli inferiori a quello di tollerabilità per la tutela della salute umana e dell’ambiente in cui l’uomo vive.
[1] Emanato in attuazione delle direttive europee 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio.
[2] Per un approfondimento si veda: Vent’anni dopo il D.Lgs 22, come è cambiato il pianeta rifiuti in Italia, reperibile su www.fondazionesvilupposostenibile.org
[3] Art. 4, paragrafo 1, Direttiva 2008/98/CE: “La seguente gerarchia dei rifiuti si applica quale ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento”.
[4] L’articolo è stato sostituito dall’art. 2 del D.L.vo 3 dicembre 2010, n. 205. Le parole “nel rispetto del principio di concorrenza” sono state aggiunte dall’art. 1, comma 2, del D.L.vo 3 settembre 2020, n.116.
[5] Per un approfondimento si veda S. MAGLIA e L. MAESTRI, Prescrizioni ambientali: qual è il limite discrezionale della P.A.? reperibile su www.tuttoambiente.it
[6] Non è certo questa la sede per approfondire il principio di proporzionalità, ma pare appena il caso di evidenziare che il principio in questione è di derivazione europea ed è stato enucleato dalla giurisprudenza della CGUE, statuendo che le limitazioni alla libertà individuale non debbono mai superare la misura di quanto appaia assolutamente necessario al raggiungimento dell’obiettivo di pubblico interesse perseguito dall’autorità. Dire che l’attività amministrativa è retta dal principio di proporzionalità sta a significare, in concreto, che questo principio trova applicazione non solo in sede di sindacato giurisdizionale sul cattivo uso della discrezionalità amministrativa, ma che esso rappresenta un parametro di riferimento costante per la pubblica amministrazione, il cui agire deve essere, perciò, costantemente «proporzionato» all’obiettivo perseguito dalla norma attributiva del potere. E questa proporzione è possibile ricercarla solo attraverso l’individuazione ed il raffronto di tutti gli interessi concorrenti in gioco. Ciò implica, in concreto, il dovere per l’amministrazione di investigare costantemente tutte le alternative possibili alla propria azione: in modo tale da ricercare sempre la soluzione non solo più idonea al perseguimento dell’interesse pubblico primario, ma anche lo strumento più mite fra quelli a sua disposizione, nell’ottica del criterio di necessarietà. Cfr. SANDULLI, A., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; GALETTA, D.U., Il principio di proporzionalità, in Renna, M.- Saitta, F., a cura di, Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012.
[7] Le domande di pronuncia pregiudiziale sono state presentate nell’ambito di tre cause italiane relative a procedimenti penali avviati nei confronti di una trentina di imputati accusati di delitti connessi al trattamento di rifiuti pericolosi.
[8] Si trattava, nel dettaglio, dell’art. 2, n. 7, del D.P.R. 203/1988.