Cass. Sez. III n. 385 del 10 gennaio 2023 (CC 6 ott 2022)
Pres. Ramacci Est. Andronio Ric. Toninelli
Rifiuti.Sottoprodotti di origine animale

I sottoprodotti derivanti da animali idonei al consumo umano, ma ad esso non destinati per motivi commerciali o problemi di lavorazione o difetti di imballaggio o perché scaduti, possono certamente essere trattati ed impiegati come sottoprodotti, ma solo in quanto siano assicurati alla precise condizioni previste per tale destinazione; laddove invece tali condizioni vengano macroscopicamente disattese, correttamente detti materiali non possono che essere considerati come “rifiuti” e sottoposti alla relativa disciplina, esattamente come lo sarebbero e lo sono ove sin dall’inizio non destinati al recupero e riutilizzo, ma al contrario convogliati allo smaltimento

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 1° marzo 2022, il Tribunale di Milano ha parzialmente accolto l’appello presentato dal Pubblico Ministero, nei confronti del provvedimento del Gip del medesimo Tribunale del 22 ottobre 2021, che aveva accolto solo parzialmente la richiesta di sequestro preventivo delle somme di denaro nella diretta disponibilità o presenti sui conti correnti, cassette di sicurezza, libretti di deposito o di risparmio, bancali o postali, della Toninelli Fratelli Società Agricola s.s., sino alla concorrenza di € 2.389.992,14, e della Lucra 96 s.r.l., sino alla concorrenza di € 1.547.037,74, o, in subordine, in caso di incapienza dei patrimoni delle sopra indicate società, anche per equivalente di somme di denaro nella diretta disponibilità o presenti sui conti correnti, cassette di sicurezza, libretti di deposito o di risparmio, bancali o postali, immobili o quote di immobili, autovetture e veicoli registrati a carico – per quanto qui rileva – di Toninelli Giuliano, in qualità di amministratore unico della Lucra 96 s.r.l. fino al 19 novembre 2018 e socio amministratore della Toninelli Fratelli Società Agricola s.s.
Il procedimento traeva origine da un’attività investigativa finalizzata alla verifica della regolarità gestionale degli allevamenti di suini destinati al circuito tutelato delle filiere DOP. Oggetto di attenzione erano, in particolare, due società, entrambe gestite direttamente da membri della famiglia Toninelli: Lucra 96 s.r.l., che gestisce un allevamento di circa 2.000 suini in fase di ingrasso/finissaggio, destinati al circuito DOP, un impianto di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili costituita da biogas, ottenuto dalla fermentazione anaerobica di rifiuti speciali non pericolosi e biodegradabili, e un impianto di trasformazione di “Sottoprodotti di Origine Animali di categoria 3” (SOA3), con relativa produzione di mangime zootecnico riconosciuto ai sensi del Regolamento CE n. 1774 del 2002; Toninelli Fratelli Società Agricola s.s., azienda agricola, con un allevamento di circa 5.000 suini in fase di ingrasso/finissaggio, destinati al circuito DOP e di due impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili costituite da biogas, ottenuto dalla fermentazione anaerobica di reflui zootecnici e biomasse.
Gli accertamenti investigativi, supportati dalla collaborazione di personale veterinario dell’A.T.S. Milano Città Metropolitana e dell’Istituto Parma Qualità, facevano emergere – nella prospettazione accusatoria – una serie di irregolarità, tra cui il fatto che i suini allevati presso le due società, destinati al circuito tutelato delle filiere DOP, venivano alimentati con mangime irregolare, prodotto dalla Lucra 96 s.r.l. presso il suo impianto di trasformazione di SOA-3, ottenuto dalla triturazione e successiva spremitura meccanica dei SOA-3 (comprensivi della confezione primaria di cartone, vetro e/o plastica), provenienti dell’industria lattiero casearia e dolciaria. Sempre secondo la prospettazione accusatoria, la Lucra 96 s.r.l., in assenza delle previste autorizzazioni, movimentava kg 74.600 di digestato prodotto dal trattamento anaerobici di rifiuti di origine animale e vegetale, proveniente dall’impianto di biogas aziendale, in fermo di produzione per manutenzione, stoccandoli presso il sito della società Toninelli Fratelli Società Agricola s.s., anziché smaltirli presso idoneo centro autorizzato.
Sulla scorta delle risultanze raccolte, a Toninelli Giuliano, in qualità di amministratore unico della società Lucra 96 s.r.l. fino al 19 novembre 2018 e socio amministratore della società Toninelli Fratelli Società Agricola s.s., in concorso con Samarati Luca, Toninelli Giovanni Francesco, Toninelli Massimo e Maiocchi Roberto Francesco, sono contestati: 1) il delitto di cui agli artt. 110, 112, primo comma, n. 1), e 452-quaterdecies cod. pen., perché, cedeva o comunque gestiva abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti, al fine di conseguire un ingiusto profitto, realizzando una organizzazione di traffico illecito di rifiuti volta a gestire continuativamente in modo illegale, i menzionati rifiuti con una pluralità di operazioni e con l’allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, negli anni 2018 e 2019, tramite la gestione delle due aziende predette, così da realizzare proventi illeciti quantificati in complessivi € 17.133.702,84, derivanti da un indebito conseguimento di incentivi, erogati dal GSE, connessi alla vendita di energia con conferimenti di prodotti “rifiuti” in impianti alimentabili esclusivamente con F.E.R. (Fonti Energia Rinnovabili), e da un indebito risparmio derivante dall’omesso smaltimento dei citati rifiuti trattati dalle due imprese agricole interessate; 2) il delitto di cui agli artt. 110, 112, primo comma, n. 1), e 640-bis cod. pen., per aver posto in essere una serie di attività illecite finalizzate allo smaltimento di rifiuti, prima mediante l’invio in impianti a biogas non autorizzati per tale lavorazione e, successivamente, mediante irregolare spandimento su terreni agricoli, che favoriva il conseguimento di ingiusti profitti pari ad € 17.133.702, 84, derivanti dal predetto indebito conseguimento di incentivi, erogati dal GSE, e dal summenzionato indebito risparmio derivante dall’omesso smaltimento dei citati rifiuti.
Il Tribunale di Milano, ritenendo parzialmente fondato l’appello del pubblico ministero con riferimento alla nozione di rifiuto – in quanto quella adottata dal Gip era in contrasto con il dato normativo, che estende tale concetto all’intera miscela di prodotti del digestato – ritiene che il profitto relativo al reato di cui al capo 1) dell’imputazione debba essere quantificato in € 949.040,00 e che, pertanto, in questi termini debba essere accolta la richiesta di applicazione della confisca di cui all’art. 452-quaterdecies, quinto comma, cod. pen., con conferma nel resto il provvedimento impugnato.
    
2. Avverso l’ordinanza l’interessato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla sussistenza del fumus relativo all’elemento materiale del reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. La difesa lamenta che l’ordinanza impugnata contraddice sia la normativa europea (art. 14 del Regolamento n. 1069 del 2009), sia la normativa nazionale (parte IV del d.lgs. n. 152 del 2006), in quanto valorizza la natura di rifiuti di sostanze che, nel caso concreto, soddisfano le quattro condizioni, indicate dall’art. 184-bis del d.lgs. n. 152 del 2006, per cui dovrebbero considerarsi sottoprodotto e, come tali, non assoggettabili alla disciplina dei rifiuti. Dalla stessa lettura dell’ordinanza, risulterebbe pacifico che non vi fosse alcuna intenzione di disfarsi dei SOA, né fosse stata tenuta una condotta in tal senso. Per la difesa, si giunge alla medesima conclusione anche considerando l’orientamento della giurisprudenza in ordine alla natura e qualificazione del digestato, prodotto da digestori alimentati con sottoprodotti di origine animale (Sez. 3, n. 12024 del 14/04/2020).
Ulteriormente, la motivazione dell’ordinanza elenca una serie di elementi indiziari che avrebbero confermato il rinvenimento di rifiuti dell’industria lattiero-casearia e dolciaria, completi di confezione di vetro, plastica, alluminio e cartone (pag. 15 del provvedimento impugnato), che avrebbero dovuto essere analizzati singolarmente. La difesa evidenzia come la dicitura “da distruggere” non era contenuta in alcun documento contabile relativo alle materie prime dell’azienda Lucra 96 s.r.l., e, al contempo, che il riscontro de visu di frustoli colorati effettuato fosse del tutto privo di valenza indiziaria, in quanto la motivazione omette di riferire che ciò che era stato visionato non era il prodotto risultante all’esito del processo di lavorazione. Il Tribunale avrebbe omesso di considerare che l’ATS Milano, nel rapporto di audit n. 2018/35421-V del 29/10/2018, aveva raccolto una serie di evidenze relative al sistema di sconfezionamento e filtraggio operativo presso il mangimificio della Lucra 96, che era risultato idoneo alla rimozione di corpi estranei, contraddicendo così la possibilità che, nel prodotto trasformato potessero riscontrarsi materiali non ammessi.
Il Tribunale del riesame avrebbe affermato, erroneamente, che il materiale confezionato non è SOA-3 ma rifiuto dell’industria alimentare di categoria, per la presunta presenza, in esso, di corpi estranei dovuti ai frammenti di plastiche. Tale aprioristica affermazione trascende – per la difesa – il doveroso approccio normativo che la Corte avrebbe dovuto avere, perché la presenza di residui di plastica è compatibile con la classificazione di un SOA come tale, senza che esso possa essere considerato rifiuto. L’ordinanza impugnata, non considerando la normativa di riferimento costituita dal d.lgs. n. 75 del 2010, dal Regolamento UE 2019/1009 e dal d.m. 25 febbraio 2016, non avrebbe accertato in che percentuali fossero presenti le presunte impurità rilevate e se tale percentuale fosse tale da snaturare il digestato facendolo assurgere a rifiuto. Infatti, se anche vi fossero degli elementi estranei, visibili come corpi estranei e non confondibili, i SOA continuerebbero ad essere tali ed anche il digestato prodotto dalla loro digestione continuerebbe a non essere rifiuto, nonostante quegli stessi corpi estranei fossero nuovamente rinvenibili. Essi, in quanto distinguibili e non miscelabili, non potrebbero determinare la classificazione dell’intero digestato come rifiuto.
In definitiva, vi sarebbe un’erronea valutazione della natura di rifiuto, conseguente all’analisi degli elementi indiziari, tra cui si sono tralasciati quelli favorevoli alla difesa – portati compiutamente all’attenzione del Tribunale con una memoria difensiva – e si sono travisati quelli asseritamente pertinenti all’ipotesi accusatoria, conferendo ad elementi neutrali la caratteristica di indizi, così da rendere l’iter argomentativo del tutto apparente e privo della necessaria completezza.
2.2. Con una seconda doglianza, si contestano l’inosservanza dell’art. 321 cod. proc. pen e degli artt. 240 e 452-quaterdiecies, quinto comma, cod. pen., nonché il vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza dell’elemento materiale del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. Secondo la tesi difensiva, fondata su quanto già dedotto nel precedente motivo, la valutazione della natura di rifiuto del digestato si riflette sulla sussistenza dei presupposti del sequestro disposto. Il Tribunale aderisce al concetto di rifiuto fatto proprio dal pubblico ministero, omettendo di motivare le ragioni per cui si discosta dalla motivazione del Gip, che evidenzia come la miscelazione fosse finalizzata non allo smaltimento illecito, quanto all’allungamento del mangime. Tutto ciò si ripercuote, secondo il ricorrente, sulla quantificazione del risparmio conseguito dall’azienda.
2.3. In terzo luogo, si lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla sussistenza del fumus relativo all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. Si sottolinea come la valorizzazione dell’asserita presenza nel digestato di impurità evidenzi l’assenza di confronti con il tema dell’elemento psicologico necessario per la sussistenza del predetto reato. In particolare, il Tribunale non avrebbe considerato che i materiali asseritamente introdotti nel digestato, finalizzato alla produzione di biogas, non permettevano alcuna digestione anaerobica, così causando una riduzione della potenzialità di produzione di elettricità o biometano e, conseguentemente, un danno all’azienda.
2.4. Con un quarto motivo, si contesta la mancata osservanza degli artt. 240, 452-quaterdecies e 640-bis cod. pen., in merito alla quantificazione del profitto confiscabile in relazione ai reati di cui ai capi 1) e 2). Si lamenta l’assenza di calcoli e specifici accertamenti circa il prezzo di mercato al quale il GSE ha venduto l’energia, e circa la valutazione delle spese sostenute dalle due società. Il Tribunale avrebbe rigettato erroneamente le istanze difensive sulla base di due argomenti – lo status giuridico della controparte pubblica e la natura, che si pretende intrinsecamente non sinallagmatica, del contratto – senza fare riferimento ad alcuna delle caratteristiche già in diritto desumibili dalla convenzione nello specifico stipulata.
Per la difesa, occorre distinguere tra spese lecite e spese strettamente pertinenti alla realizzazione del reato. Il Tribunale ha erroneamente considerato il sinallagma contrattuale non tanto come il perimetro entro il quale effettuare le distinzioni tra spese lecite e illecite, quanto piuttosto come la caratteristica che permetterebbe di discernere tra “reati contratto” e reati “in contratto”. Per l’effetto, afferma che la caratteristica di sinallagmaticità in senso proprio manca nel contratto in esame, valorizzando la natura pubblicistica del soggetto contraente e gli interessi di rango pubblicistico da esso perseguiti.
Si sostiene, dunque, che l’ordinanza è affetta da erronea applicazione della legge penale, nonché da contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui desume la natura di “reato contratto” – e, pertanto, non procede alla valutazione delle spese lecite eventualmente sostenute e dell’effettiva utilità eventualmente fruita dal danneggiato – dalla natura pubblica della controparte e, di conseguenza, dalla natura asseritamente non sinallagmatica del contratto stesso.
2.5. Da ultimo, si contesta l’inosservanza dell’art. 125 cod. proc. pen., in merito all’assenza di autonomia di giudizio del provvedimento impugnato. In ordine al capo 2) dell’imputazione, il Tribunale avrebbe posto in essere un’attività di “copia-incolla” con le ordinanze emesse da parte dei singoli collegi giudicanti nei confronti degli altri soggetti imputati per i medesimi reati.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo – con cui si lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla sussistenza del fumus relativo all’elemento materiale del reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. – è manifestamente infondato.
In tema di gestione dei rifiuti, l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 52, comma 2-bis, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, e dal d.m. 25 febbraio 2016, nella parte in cui sottopone la massa, sia liquida che solida, risultante dal processo di biodigestione anaerobica, costituente il c.d. digestato, al regime dei sottoprodotti destinati ad uso agronomico e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull’imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, in quanto ipotesi di esclusione da responsabilità, fondata su una disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 56066 del 19/09/2017, Rv. 272428).
Anche alla luce di tale insegnamento, i sottoprodotti derivanti da animali idonei al consumo umano, ma ad esso non destinati per motivi commerciali o problemi di lavorazione o difetti di imballaggio o perché scaduti, possono certamente essere trattati ed impiegati come sottoprodotti, ma solo in quanto siano assicurati alla precise condizioni previste per tale destinazione; laddove invece tali condizioni vengano macroscopicamente disattese, correttamente detti materiali non possono che essere considerati come “rifiuti” e sottoposti alla relativa disciplina, esattamente come lo sarebbero e lo sono ove sin dall’inizio non destinati al recupero e riutilizzo, ma al contrario convogliati allo smaltimento (Sez. 3, n. 46586 del 03/10/2019, Rv. 277280).
Nel caso di specie, il Tribunale ha correttamente motivato evidenziando come gli accertamenti investigativi, supportati dalla collaborazione di personale veterinario dell’A.T.S. Milano Città Metropolitana e dell’Istituto Parma Qualità, facevano emergere una serie di comportamenti irregolari: i suini allevati presso le due società, destinati al circuito tutelato delle filiere DOP, venivano alimentati con mangime irregolare, prodotto dalla Lucra96 s.r.l. presso il suo impianto di trasformazione di SOA-3, ottenuto dalla triturazione e successiva spremitura meccanica dei SOA-3 (comprensivi della confezione primaria di cartone, vetro e/o plastica), provenienti dell’industria lattiero casearia e dolciaria; il mangime risultava non essere conforme per l’alimentazione degli animali del circuito tutelato della DOP, in quanto nella materia prima ritirata dalle industrie alimentari SOA3, utilizzata per la produzione del mangime vi erano anche prodotti della panificazione, gelati, dolciumi, contenenti caffè e cioccolato (sostanze non ammesse per l’alimentazione della filiera DOP); dall’analisi della documentazione accompagnatoria e dai documenti di accettazione compilati dall’azienda Lucra s.r.l., emergeva che molte delle materie prime ritirate dalla Lucra s.r.l. come SOA3, ed utilizzate nella produzione di mangini, erano considerate dal fornitore rifiuto poiché destinate alla distruzione (per scadenza del prodotto ampiamente superata, interruzione della catena a freddo, e così via); presso il mangimificio veniva accertato che i SOA-3 ancora all’interno delle loro confezioni di vetro, plastica e/o cartone venivano versati dentro una vasca per essere triturati e spremuti, ottenendo come risultato finale un mangime destinato all’alimentazione dei suini. Nel corso dei campionamenti effettuati, si rilevava de visu la presenza di frustoli colorati nel mangime e nelle deiezioni presenti sul parchetto esterno di stabulazione degli animali, i cui esiti analitici hanno comprato la non conformità del mangime, in quanto in esso vi era la presenza di materiale plastico di differente forma e colore, oltre a sostanze contenute nel cacao e nel caffè, che non sono idonee all’alimentazione dei suini della filiera DOP.
Ulteriori accertamenti permettevano di appurare che la Lucra 96 s.r.l., in assenza delle previste autorizzazioni, movimentava kg 74.600 di digestato prodotto dal trattamento anaerobici di rifiuti di origine animale e vegetale, proveniente dall’impianto di biogas aziendale, in fermo di produzione per manutenzione, stoccandoli presso il sito della Toninelli Fratelli Società Agricola s.s., anziché smaltirli presso idoneo centro autorizzato.
Pertanto, l’ordinanza rileva come in tutto il ciclo di lavorazione vi è – a livello indiziario – la presenza dei materiali inquinanti. Il rifiuto non poteva essere trattato negli impianti di trasformazione, in quanto non in possesso dell’autorizzazione di cui all’art. 208 T.U.A.
In particolare, in ordine alla parte in cui si contestano le modalità di accertamento delle violazioni in punto di rinvenimento dei materiali plastici, ferrosi, etc. e si sostiene la diversa tesi della sussistenza di un mero e consentito “tasso di impurità” nei SOA (impurità che possono essere presenti in modo casuale e non voluto, e comunque in una percentuale minima già presa in esame dagli inquirenti, anche mediante analisi comparativa con terreni oggetto di spandimento con fertilizzante diverso dal digestato proveniente dalla Lucra 96 s.r.l.), il Tribunale ha correttamente rilevato – con valutazione insindacabile in questa sde – che, a seguito della commistione e miscelazione tra sottoprodotti e rifiuti, tutto il materiale diviene rifiuto, non rispondendo più, nella sua interezza, alle caratteristiche per essere ritenuto SOA-3, a maggior ragione se destinato ad impianti di biogas, con conseguente necessità di applicare la normativa in materia di rifiuti e non più dei sottoprodotti.
1.2. Il secondo motivo – con cui si lamentano l’inosservanza dell’art. 321 cod. proc. pen. e degli artt. 240 e 452-quaterdiecies, quinto comma, cod. pen., nonché il vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza dell’elemento materiale del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti – è anch’esso manifestamente infondato. È sufficiente richiamare, sul punto, quanto già rilevato sub 1.1. circa la natura di rifiuto del digestato oggetto dell’imputazione.
1.3. Il terzo motivo – con cui si contesta l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla sussistenza del fumus relativo all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. – è inammissibile, in quanto diretto ad ottenere da questa Corte una sostanziale rivalutazione del quadro istruttorio, preclusa in sede di legittimità. In ogni caso, si deve ricordare che, nell’esercizio della valutazione dell’elemento psicologico, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al “fumus” del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, conseguendone che lo stesso giudice può rilevare anche il difetto dell’elemento soggettivo del reato, purché esso emerga “ictu oculi” (ex plurimis, Sez. 3, n. 26007 del 05/04/2019, Rv. 270615)
Orbene, nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto correttamente ravvisabile il fumus, date le modalità di commissione dei predetti reati: infatti, dagli accertamenti disposti, si rilevava la presenza di frustoli colorati nel mangime e nelle deiezioni presenti sul parchetto esterno di stabulazione degli animali, i cui esiti analitici hanno comprato la non conformità del mangime; non conformità palese e riconoscibile la parte dell’indagato, che – nonostante ciò – non rispettava, allo scopo di conseguire un ingiusto profitto, la normativa sui rifiuti che avrebbe dovuto essere applicata.
1.4. La quarta doglianza – con cui si contesta la mancata osservanza degli artt. 240, 452-quaterdecies e 640-bis cod. pen., in merito alla quantificazione del profitto confiscabile – è inammissibile.
Va ricordato che, in relazione al ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità solo per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003). Dunque, costituiscono violazione di legge legittimante il ricorso per cassazione a norma dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (ex plurimis, Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016, dep. 02/02/2017).
A ciò si deve aggiungere che, rispetto alla ricostruzione dei giudici di merito, ogni contestazione sulla interpretazione del contratto, da una parte, si muove su un piano fattuale, inammissibile in questa sede, dall’altra, propone un’analisi non effettuabile da parte di questa Corte, atteso che in tema di misure cautelari reali, costituisce violazione di legge deducibile mediante ricorso per cassazione soltanto l’inesistenza o la mera apparenza della motivazione, ma non anche l’affermata erronea interpretazione di un atto di natura contrattuale, poiché essendo relativa ad atti privi di carattere normativo rientra, ai sensi dell’art. 325, comma primo, cod. proc. pen. nella valutazione del fatto (ex plurimis, Sez. 3, n. 14977 del 25/02/2022, Rv. 283035; Sez. 3, n. 37451 del 11/04/2017, Rv. 270543).
Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, deve comunque rilevarsi che, dalla prospettazione difensiva, non emergono le ragioni per le quali l’accordo con GSE allegato della difesa, il quale reca ampi riferimenti a tariffe determinate aliunde in atti regolamentari richiamati, possa avere una natura sinallagmatica, tale da consentire di scomputare le spese lecite sostenute e l’effettiva utilità eventualmente fruita dal danneggiato. Né un tale scomputo è stato specificamente operato della difesa, in mancanza di puntuali richiami all’effettivo contenuto dell’accordo in questione.
1.5. Il quinto motivo – con cui si deduce l’inosservanza dell’art. 125 cod. proc. pen., in merito all’assenza di autonomia di giudizio del provvedimento impugnato – è inammissibile, in quanto generico. È ritenuto nullo per difetto di motivazione il provvedimento del giudice che riproduca alla lettera ampi stralci della parte motiva di altra pronuncia, a meno che detta tecnica di redazione manifesti una autonoma rielaborazione da parte del decidente e dia adeguata risposta alle doglianze proposte dal ricorrente (ex plurimis, Sez. 4, n. 7031 del 05/02/2013, Rv. 254937). Nel caso di specie – a fronte della prospettazione difensiva, del tutto sganciata da un puntuale vaglio critico dell’ordinanza – dalla lettura del provvedimento è ravvisabile una valutazione del quadro probatorio elaborata autonomamente dal Tribunale con riferimento a tutti gli atti essenziali, che non consente di ravvisare alcuna carenza di motivazione.

2. Il ricorso, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.

P.Q.M

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 06/10/2022