Cass. Sez. III n. 47690 del 29 novembre 2023 (UP 15 nov. 2023)
Pres. Ramacci Est. Liberati Ric.Cocconi
Rifiuti.Scarti di origine animale

Gli scarti di origine animale sono sottratti all'applicazione della normativa in materia di rifiuti, e soggetti esclusivamente al Regolamento CE n. 1774/2002, solo se qualificabili come sottoprodotti ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. n), d.lgs. n. 152 del 2006 (attualmente ai sensi dell’art. 184 bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006); diversamente, in ogni altro caso in cui il produttore se ne sia disfatto per destinarli allo smaltimento, restano soggetti alla disciplina generale sui rifiuti. Anche gli scarti di origine animale possono, dunque, essere considerati sottoprodotti solamente se, come ora stabilito dall’art. 183, comma 1, lett. qq), d.lgs. n. 152 del 2006, soddisfano le condizioni di cui all'articolo 184 bis, comma 1).Tale conclusione è stata ribadita anche alla luce del Regolamento 1069/2009/CE recante "Norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano e che abroga il regolamento (CE) n. 1774/2002 (regolamento sui sottoprodotti di origine animale)".

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 19 dicembre 2022 la Corte d’appello di Brescia ha rigettato l’impugnazione proposta da Mario Cocconi nei confronti della sentenza del 26 gennaio 2021 del Tribunale di Mantova, con la quale lo stesso Cocconi, quale legale rappresentante della S.r.l. Pico Pelli, era stato condannato alla pena complessiva di un anno di arresto, così determinata:
- quattro mesi di arresto per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006, di cui al capo 1);
- un mese di arresto per il reato continuato di cui agli artt. 81 cpv. e 674 cod. pen., di cui al capo 2);
- un mese di arresto per il reato di cui all’art. 650 cod. pen. di cui al capo 10);
- cinque mesi e quindici giorni di arresto per i reati di cui agli artt. 18, comma 1, lett. g), 36, comma 2, 37, comma 1, 64, comma 1, lett. d), 71, comma 4, lett. a.2), 80, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2008, di cui ai capi da 3) a 8), tra loro avvinti dal vincolo della continuazione;
- quindici giorni di arresto per il reato di cui all’art. 4, comma 7, l. n. 628 del 1961 di cui al capo 9).

2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite dell’Avvocato Alessandro Sivelli, che lo ha affidato a sette motivi.
2.1. Con il primo motivo ha denunciato, con riferimento alla affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 di cui al capo 1), l’errata applicazione degli artt. 183, comma 1, lett. gg), 184 bis, comma 1, e 185, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 152 del 2006, che richiama il regolamento CE n. 1774/2002, abrogato e sostituito dal regolamento CE 1069/2009, nel quale sono comprese le disposizioni che definiscono e distinguono la categoria dei rifiuti da quella dei sottoprodotti di origine animale.
Ha premesso che il decreto di sospensione dell’attività della società Pico Pelli amministrata dal ricorrente, emesso dal Sindaco di Pieve di Coriano, era stato annullato dal T.A.R. di Brescia, sul rilievo che l’attività svolta da tale società rientra nell’ambito della gestione dei sottoprodotti di origine animale ed è quindi sottratta alla disciplina sui rifiuti; ciò, del resto, si ricava dalle modifiche apportate al d.lgs. n. 152 del 2006 dal d.lgs. n. 205 del 2010, che, nel dare attuazione al regolamento CE 1069/2009, vi ha introdotto l’art. 184 bis e ha integrato l’art. 185, precisando alla lett. b), che non rientrano nella categoria dei rifiuti e non sono quindi assoggettati alla normativa della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006 i sottoprodotti di origine animale, eccettuati quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio.
Tali modifiche consentirebbero di affermare che la disciplina dei sottoprodotti di origine animale è speciale rispetto a quella sui rifiuti, in quanto l’art. 185 citato li esclude espressamente dall’ambito di applicazione della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, in quanto regolati da altre disposizioni, con l’eccezione ricordata di quelli destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio.
La gestione dei sottoprodotti di origine animale sarebbe dunque disciplinata dal suddetto regolamento comunitario e la normativa sui rifiuti sarebbe applicabile solamente quando sia stata accertata l’intenzione, l’atto o il fatto di disfarsi degli stessi, cosicché il discrimine tra l’applicazione della normativa comunitaria e quella relativa al trattamento dei rifiuti consisterebbe nella finalità di smaltimento.
L’art. 12 del regolamento CE 1069/2009, che disciplina le forme di smaltimento dei sottoprodotti di origine animale di categoria 1), stabilisce che questi vengono equiparati ai rifiuti quando vengono eliminati direttamente, senza trasformazione preliminare mediante incenerimento; analogo principio si applica ai sottoprodotti di origine animale di categoria 3).
L’art. 184 bis, che definisce la categoria dei sottoprodotti in generale, e l’art. 185 del d.lgs. n. 152 del 2006, che al comma 2, lett. b), definisce la categoria dei sottoprodotti di origine animale e richiama la normativa comunitaria, precisando che ai sottoprodotti di origine animale si applica la normativa sui rifiuti solamente quando sono destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio.
Il contrasto tra tali disposizioni (in quanto l’art. 12 del regolamento CE 1069/2009 ritiene applicabili ai sottoprodotti di origine animale la normativa sui rifiuti solamente quando vengono eliminati direttamente senza trasformazioni preliminari, mentre l’art. 185, comma 2, lett. b, che fa riferimento al precedente regolamento 1774/2002, ritiene applicabili ai sottoprodotti di origine animale la normativa sui rifiuti quando sono destinati all’incenerimento, allo smaltimento in discarica o all’utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio), andrebbe risolto sulla base dell’ultima disposizione comunitaria, sia in quanto norma primaria, sia perché più specifica e conforme alla definizione di rifiuto contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, con la conseguenza che fino a quando il prodotto viene trattato e riciclato anche parzialmente non sarebbe da considerare rifiuto. Il prodotto diventa tale, cioè rifiuto, quando viene destinato all’incenerimento o allo smaltimento.
Tanto premesso, ha affermato l’erroneità del riferimento compiuto dalla Corte d’appello di Brescia alle norme contenute del decreto del Ministero dell’Ambiente del 13 ottobre 2016, n. 164, che definisce tutti i sottoprodotti e anche espressamente quelli di origine animale, e anche della qualificazione come rifiuti dei sottoprodotti venduti dalla Pico Pelli alla società Im.Pro.Ma., in quanto la società Pico Pelli amministrata dal ricorrente non aveva intenzione di disfarsi di detti beni, bensì di cederli.
2.2. Con un secondo motivo ha lamentato un vizio della motivazione, sempre con riferimento al reato di cui al capo 1), in quanto vi sarebbe stato un travisamento delle prove, e dunque la contraddittorietà della motivazione, con riferimento alla individuazione dell’attività realmente svolta dall’impresa amministrata dall’imputato e anche a proposito della destinazione finale dei prodotti raccolti da tale impresa.
Dopo aver premesso che la contestazione di gestione illecita di rifiuti era limitata ai sottoprodotti di origine animale di categoria 1 ceduti dalla Pico Pelli alla Im.Pro.Ma., in quanto la raccolta e la successiva cessione a una società di diritto austriaco dei sottoprodotti di origine animale di categoria 3 non poteva determinarne la qualificazione come rifiuti, essendo utilizzati per produrre fertilizzanti o cibo per animali, ha censurato l’affermazione dei giudici di merito secondo cui i suddetti sottoprodotti di origine animale sarebbero stati destinati allo smaltimento, non essendo stata adeguatamente considerata l’attività svolta dalla suddetta società Im.Pro.Ma., che provvedeva all’incenerimento dei sottoprodotti dopo aver separato le farine dai grassi.
Ha esposto che gli scarti di macellazione raccolti dagli autisti della Pico Pelli venivano immagazzinati in celle frigorifere formalmente distinte e dedicate all’esclusiva conservazione dei sottoprodotti di origine animale di categoria 1 e di categoria 3 e in cassoni, in attesa di essere consegnati agli autotrasportatori della Im.Pro.Ma. o di essere trasferiti in Austria presso la SK.TKV. La Im.Pro.Ma., destinataria dei sottoprodotti di origine animale raccolti dalla Pico Pelli, non li inceneriva né smaltiva direttamente, ma li trattava e solo dopo il trattamento destinava a un altro soggetto la farina ricavata da questo trattamento per l’incenerimento.
Sarebbe, pertanto, fondata su un travisamento dei dati probatori, in particolare delle modalità e degli scopi della gestione dei sottoprodotti di origine animale di categoria 1, l’affermazione della configurabilità di una gestione illecita di rifiuti.
2.3. Con un terzo motivo ha denunciato la mancanza di motivazione riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui al capo 1), essendo ravvisabile un errore scusabile sulla individuazione della disciplina applicabile ai prodotti raccolti e sulla conseguente necessità di conformarsi alla normativa che regola la gestione dei rifiuti in luogo di quella relativa ai sottoprodotti di origine animale.
Ha prospettato, ribadendo la censura già proposta con l’atto d’appello e disattesa dalla Corte d’appello di Brescia, l’esistenza di un errore scusabile sulla disciplina applicabile al trattamento degli scarti di origine animale, conseguente alla difficile comprensione di tale disciplina, come dimostrato anche dal provvedimento del TAR Lombardia del 20 aprile 2016, che aveva sospeso il decreto di sospensione dell’attività emesso dal Sindaco di Pieve di Coriano il 4 febbraio 2016, e dal decreto del Ministro dell’Ambiente n. 264 del 13 ottobre 2016, emesso successivamente al provvedimento di sequestro della Procura di Mantova proprio per risolvere i dubbi interpretativi e applicativi di detta normativa (si richiama la sentenza di questa Corte n. 42021 del 2014).
Ha sottolineato i comportamenti positivi della Pubblica Amministrazione che avevano determinato la convinzione della liceità della condotta contestata, tra cui il rilascio da parte della ASL di Mantova delle autorizzazioni necessarie per iniziare l’attività di raccolta e magazzinaggio dei sottoprodotti di origine animale e l’assenza di rilievi in occasione dei periodici controlli ai quali la propria attività era stata sottoposta.
2.4. Con un quarto motivo ha denunciato un ulteriore vizio della motivazione, conseguente alla mancata considerazione da parte della Corte territoriale dei rilievi sollevati con l’atto d’appello a proposito della affermazione di responsabilità in relazione al reato di cui all’art. 674 cod. pen. di cui al capo 2), non essendo stato considerato quanto esposto nell’atto d’appello a proposito del fatto che gli abitanti del Comune di Pieve di Coirano avevano dichiarato che le esalazioni maleodoranti provenienti dallo stabilimento della Pico Pelli non si avvertivano tutti i giorni ma soprattutto nella primavera/estate e che non ne era stata individuata con certezza l’origine, in quanto alcuni di essi avevano fatto riferimento allo stabilimento della Pico Pelli mentre altri si erano riferiti agli autocarri di proprietà delle imprese clienti della Pico Pelli in transito o che sostavano nell’area di parcheggio pubblica. Inoltre, nel sopralluogo del 9 giugno 2016 gli ispettori dell’ARPA avevano dichiarato che la molestia era appena percepibile e in occasione del sopralluogo del 12 agosto 2016 gli ispettori della ATS Val Padana avevano rilevato un forte odore solamente all’interno dello stabilimento. In occasione della esecuzione del sequestro dell’impianto della Pico Pelli, eseguito dalla polizia giudiziaria il 3 settembre 2016, era poi stato riscontrato il totale abbattimento delle emissioni di odori, nonostante all’interno dello stabilimento fossero ancora conservati, nelle celle frigorifere, 55 quintali di scarti animali.
2.5. Con il quinto motivo ha lamentato l’erroneità della esclusione della applicabilità della causa di giustificazione della forza maggiore di cui all’art. 45 cod. pen., con riferimento alle contravvenzioni di cui ai capi 3), 4), 5), 6), 7) e 8), e un vizio della motivazione su tale punto, non essendo stato considerato che il sequestro dell’azienda e la risoluzione dei contratti di lavoro con i dipendenti gli avevano impedito di ottemperare alle prescrizioni impartitegli, il cui adempimento avrebbe estinto le contravvenzioni contestate.
2.6. Analoga censura ha sollevato con il sesto motivo, mediante il quale ha lamentato la mancata applicazione della causa di giustificazione della forza maggiore di cui all’art. 45 cod. pen. anche in relazione al reato di cui all’art. 4, comma 7, l. 628 del 1961 di cui al capo 9), relativo alla omessa trasmissione alla Direzione territoriale per il lavoro di Mantova dei dischi cronotachigrafi relativi al periodo compreso tra il 1/12/2015 e il 31/1/2016 e tra il 1/3/2016 e il 31/3/2016 del veicolo targato AC026FV di proprietà della Pico Pelli, non essendo stato considerato che la notifica del verbale di prescrizione, con il quale veniva assegnato un termine di 15 giorni per produrre i suddetti dischi del cronotachigrafo, si era perfezionata per compiuta giacenza, non potendosene quindi desumere l’effettiva conoscenza dell’atto da parte del ricorrente, anche in considerazione del fatto che la sede dell’impresa era frattanto stata sottoposta a sequestro e che quindi l’imputato non aveva la possibilità di accedervi per ritirare le comunicazioni a mezzo posta e non era quindi venuto a conoscenza di detta richiesta.
2.7. Infine, con il settimo motivo, ha lamentato un vizio della motivazione a proposito del reato di cui all’art. 650 cod. pen. di cui al capo 10), non essendo stati considerati dalla Corte territoriale i motivi addotti con l’atto d’appello per giustificare l’inottemperanza all’ordinanza del Sindaco di Pieve di Coirano (con la quale gli era stato intimato di provvedere allo smaltimento dei rifiuti presenti nello stabilimento della Pico Pelli), in quanto il piano di smaltimento dei sottoprodotti di origine animale presenti nello stabilimento, che era stato approvato dal pubblico ministero, non aveva potuto essere eseguito in quanto il Comune di Pieve di Coirano aveva preteso l’applicazione a tale attività delle disposizioni in materia di rifiuti, imponendo al ricorrente di adeguarvisi, e ciò aveva, incolpevolmente, impedito al ricorrente di ottemperare all’ordinanza del Sindaco.

3. Il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, evidenziando la correttezza della affermazione della applicabilità della disciplina sui rifiuti, in considerazione delle modalità di conservazione degli scarti di origine animale presso lo stabilimento della Pico Pelli, incompatibile con il loro riutilizzo e quindi con la loro qualificabilità come sottoprodotti, richiamando sia la situazione di fatto emersa dalle indagini e dall’istruttoria sia la disciplina applicabile ai sottoprodotti di origine animale, con la conseguente evidente infondatezza dei rilievi sollevati con i primi tre motivi di ricorso in relazione al reato di cui al capo 1), dovendo applicarsi la disciplina sui rifiuti alla attività svolta dalla Pico Pelli; ha poi sottolineato la manifesta infondatezza delle censure sollevate con gli altri motivi di ricorso in ordine agli altri reati addebitati al ricorrente e di cui ai capi da 2) a 10).

4. Con memoria del 7 novembre 2023 il ricorrente, preso atto delle conclusioni del Procuratore Generale, ha ribadito la fondatezza del ricorso, sottolineando la correttezza della ricostruzione della vicenda contenuta nella requisitoria ed evidenziando come la sola scorretta conservazione dei sottoprodotti di origine animale, in particolare degli scarti di macellazione, non consentiva, di per sé sola, di qualificarli come rifiuti, in quanto non ne precludeva il successivo trattamento, come dimostrato dal fatto che gli stessi erano sempre stati conferiti a terzi: il discrimine tra sottoprodotti e rifiuti non sarebbe dunque costituito dalle modalità di conservazione, bensì dalla loro destinazione, che nel caso di specie prevedeva una ulteriore lavorazione, non considerata dai giudici di merito.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non è fondato.

2. Giova premettere, per una miglior comprensione delle doglianze del ricorrente (che ha rinunciato alla prescrizione), che la vicenda ha avuto origine dalle segnalazioni da parte di persone residenti nel comune di Pieve di Coriano di esalazioni maleodoranti, avvertite sia di giorno sia di notte, e dai conseguenti accertamenti compiuti dall’ARPA della Lombardia e dall’ASL di Mantova nei confronti della società Pico Pelli, che era autorizzata a svolgere l’attività di lavorazione di pelli animali.
In particolare, venivano eseguiti sopralluoghi da parte dell’ARPA il 14 settembre 2015 e da parte della ASL il 12 agosto, il 18 agosto e il 5 settembre 2016. Il 3 agosto 2017 era, poi, stato eseguito d’urgenza dalla polizia giudiziaria il sequestro preventivo dell’impianto produttivo della Pico Pelli.
Da tali accertamenti era emersa la presenza all’interno di tale impianto di carcasse di animali in putrefazione e spargimenti di sangue emananti un odore nauseante e che le celle frigorifere erano completamente spente e con le porte non ermeticamente chiuse. Al contempo odore pungente di materiale carneo in fase di decomposizione e una gran quantità di mosche provenivano da alcuni contenitori, così come da un mezzo di trasporto utilizzato per il trasporto degli scarti di origine animale, anch’essi non refrigerati. Anche la vasca di raccolta dei percolati non risultava refrigerata né a tenuta stagna. L’odore risultava talmente insopportabile da rendere di fatto impossibile la sosta all’interno dell’edificio.
Dalle successive indagini e dall’istruttoria svolta innanzi al Tribunale di Mantova è poi emerso che la società Pico Pelli, amministrata dal ricorrente, invece che la lavorazione delle pelli, intesa come rifinitura e scarnatura del grasso (non si rinvenivano in occasione dei sopralluoghi né pellame né gelatine di natura alimentare), svolgeva in realtà attività di raccolta di scarti animali (stante il rinvenimento unicamente di parti di essi provenienti da macellazione) e che i medesimi, catalogati come sottoprodotti di origine animale di categoria 1 (costituiti da residui di macellazione o da carcasse di animali morti provenienti da allevamenti – ovvero parti di animali con elevato grado di tossicità ed infezione) e di categoria 3 (derivanti da animali idonei al consumo ma a esso non destinati per motivi commerciali o problemi di lavorazione o difetti di imballaggio o perché scaduti – nello specifico pelle grezza, pelli di ossa, grasso non trasformato) erano successivamente conferiti, i primi in Ceresole d’Alba, presso la società Im.Pro.Ma. (munita di autorizzazione integrata ambientale per lo smaltimento di carcasse e di produzione di energia), i secondi in Austria presso la SK.TKV., e ciò senza le dovute autorizzazioni ambientali per la movimentazione, la raccolta e il trasporto di scarti di animali qualificabili come “rifiuti” e con prodotti che prima di essere portati a destinazione si trovavano all’interno della Pico Pelli in avanzato stato di decomposizione ed estremamente maleodoranti.
La società Pico Pelli era in possesso solamente delle autorizzazioni sanitarie rilasciate dalla ASL per il magazzinaggio di sottoprodotti di origine animale di entrambe le categorie (1 e 3).
Dalle indagini svolte e da quanto emerso dall’istruttoria non è stato possibile accertare se il materiale rinvenuto nell’impianto della Pico Pelli, cioè i suddetti scarti di origine animale, fosse destinato al riutilizzo o all’incenerimento, anche se esso si trovava in stato di estrema decomposizione.

3. Tanto premesso, osserva il Collegio che i primi tre motivi, esaminabili congiuntamente, in ragione della loro intima connessione, essendo tutti relativi alla configurabilità del reato di cui al capo 1), in relazione al quale sono state denunciate, con il primo motivo, l’errata applicazione degli artt. 183, comma 1, lett. gg), 184 bis, comma 1, e 185, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 152 del 2006, con riferimento alla qualificazione come rifiuti degli scarti di origine animale gestiti e commerciati dalla società del ricorrente, con il secondo motivo un vizio della motivazione con riferimento alla affermazione della configurabilità di una gestione illecita di rifiuti (che sarebbe fondata su un travisamento delle prove, con riferimento alla individuazione dell’attività realmente svolta dall’impresa amministrata dall’imputato e anche a proposito della destinazione finale dei prodotti raccolti da tale impresa), con il terzo motivo, un vizio della motivazione con riferimento all’elemento soggettivo di detto reato, non sono fondati.
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che gli scarti di origine animale sono sottratti all'applicazione della normativa in materia di rifiuti, e soggetti esclusivamente al Regolamento CE n. 1774/2002, solo se qualificabili come sottoprodotti ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. n), d.lgs. n. 152 del 2006 (attualmente ai sensi dell’art. 184 bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006); diversamente, in ogni altro caso in cui il produttore se ne sia disfatto per destinarli allo smaltimento, restano soggetti alla disciplina generale sui rifiuti (così, tra le altre, Sez. 3, n. 2710 del 15/12/2011, dep. 2012, Lombardo, Rv. 251900; Sez. 3, n. 12844 del 5/2/2009, De Angelis, Rv. 243114).
Anche gli scarti di origine animale possono, dunque, essere considerati sottoprodotti solamente se, come ora stabilito dall’art. 183, comma 1, lett. qq), d.lgs. n. 152 del 2006, soddisfano le condizioni di cui all'articolo 184 bis, comma 1), e cioè se: a) la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana, o rispettano i criteri stabiliti in base all'articolo 184 bis, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006.
Tale conclusione è stata ribadita (cfr. Sez. 3, n. 33084 del 15/07/2021, Mingolla, Rv. 282476) anche alla luce del Regolamento 1069/2009/CE recante "Norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano e che abroga il regolamento (CE) n. 1774/2002 (regolamento sui sottoprodotti di origine animale)".
Invero, tra i sottoprodotti di origine animale, l'art. 8 di tale decreto classifica come materiali di categoria 1 i seguenti sottoprodotti di origine animale:
“a) corpi interi e tutte le loro parti, incluse le pelli, degli animali seguenti: i) animali sospettati di essere affetti da una TSE conformemente al regolamento (CE) n. 999/2001 o nei quali la presenza di una TSE è stata ufficialmente confermata; ii) animali abbattuti nel quadro di misure di eradicazione delle TSE; iii) animali che non sono né animali d’allevamento né animali selvatici, come gli animali da compagnia, gli animali da giardino zoologico e gli animali da circo; iv) animali impiegati per esperimenti come definiti all’articolo 2, lettera d), della direttiva 86/609/CEE, fatto salvo l’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 1831/2003; v) animali selvatici, se si sospetta che siano affetti da malattie trasmissibili all’uomo o agli animali; b) i seguenti materiali: i) materiali specifici a rischio; ii) corpi interi, o loro parti, di animali morti contenenti materiali specifici a rischio al momento dello smaltimento; c) sottoprodotti di origine animale ottenuti da animali che sono stati sottoposti a trattamenti illeciti come definiti all’articolo 1, paragrafo 2, lettera d), della direttiva 96/22/CE o all’articolo 2, lettera b), della direttiva 96/23/CE; d) sottoprodotti di origine animale contenenti residui di altre sostanze e di agenti contaminanti per l’ambiente elencati nel l’allegato I, categoria B, punto 3, della direttiva 96/23/CE, se tali residui superano i livelli consentiti dalla normativa comunitaria o, in assenza di tale normativa, dalla normativa nazionale; e) sottoprodotti di origine animale raccolti nell’ambito del trattamento delle acque reflue a norma delle misure di attuazione adottate conformemente all’articolo 27, primo comma, lettera c): i) da stabilimenti o impianti che trasformano materiali di categoria 1; o ii) da altri stabilimenti o impianti in cui è rimosso materiale specifico a rischio; f) rifiuti alimentari provenienti da mezzi di trasporto che effettuano tragitti internazionali; g) miscele di materiali di categoria 1 con materiali di categoria 2 e/o 3”.
Il successivo art. 10 del medesimo regolamento classifica come materiali di categoria 3 i sottoprodotti di origine animale, includendovi, tra l’altro “a) carcasse e parti di animali macellati oppure, nel caso della selvaggina, di corpi o parti di animali uccisi, dichiarati idonei al consumo umano in virtù della normativa comunitaria, ma non destinati al consumo umano per motivi commerciali; b) le carcasse e le parti seguenti derivanti da animali macellati in un macello e ritenuti atti al macello per il consumo umano dopo un esame ante mortem o i corpi e le parti seguenti di animali da selvaggina uccisa per il consumo umano nel rispetto della legislazione comunitaria: i) carcasse o corpi e parti di animali respinti in quanto non idonei al consumo umano in virtù della legislazione comunitaria, ma che non mostrano segni di malattie trasmissibili all’uomo o agli animali; ii) teste di pollame; iii) pelli, inclusi ritagli e frammenti, corna e zampe, incluse le falangi e le ossa carpiche e metacarpiche e le ossa tarsiche e metatarsiche, di: — animali diversi dai ruminanti soggetti all’obbligo di test delle (Testo rilevante ai fini del SEE), e — ruminanti sottoposti con esito negativo al test di cui all’articolo 6, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 999/2001; iv) setole di suini; v) piume; c) sottoprodotti di origine animale di pollame e lagomorfi macellati in un’azienda agricola ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, lettera d), del regolamento (CE) n. 853/2004, che non presentavano alcun sintomo di malattie trasmissibili all’uomo o agli animali”.
I successivi artt. 12 e 14 del citato Regolamento stabiliscono poi che i materiali delle categorie 1 e 3 sono smaltiti come rifiuti, dettandone le modalità.
Anche alla luce di tale nuova disciplina è evidente che le carcasse o gli scarti o il sangue di animali, non reimpiegati o destinati al reimpiego in altri processi produttivi - e non è questo certamente il caso, in quanto gli scarti, le carcasse e il sangue venivano ritirati dalla Pico Pelli dai mattatoi o dagli allevamenti proprio per essere smaltiti – devono essere conferiti alle strutture all'uopo autorizzate, il che, nella specie, pacificamente non è avvenuto (cfr., in fattispecie analoga, Sez. 3, n. 33084 del 15/07/2021, Mingolla, Rv. 282476, cit.), con la conseguenza che del tutto correttamente è stata esclusa la qualificabilità degli scarti di origine animale trattati dalla Pico Pelli, che li raccoglieva, trasportava, depositava e gestiva, come sottoprodotti, affermandone la natura di rifiuti, con la conseguente necessità di applicazione a dette attività della disciplina sui rifiuti, che, pacificamente, non è avvenuta.
Va, inoltre, ricordato che poiché la disciplina dei sottoprodotti è derogatoria rispetto a quella generale in tema di rifiuti, la qualificazione di un residuo come sottoprodotto, anziché come rifiuto, in caso dubbio, deve essere provata da colui che detto sottoprodotto ha lavorato o smaltito.
In altre parole, ogniqualvolta non sia stato rispettato il processo normativo che può individuare la categoria del sottoprodotto, esso deve essere considerato quale rifiuto.
Aiuta ad operare detta distinzione quanto previsto nel D.M. n. 264 del 13 ottobre 2016 del Ministero dell’Ambiente denominato “Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti” che all’art. 1 chiarisce che i requisiti richiesti per escludere un residuo di produzione dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti devono essere soddisfatti in tutte le fasi della gestione dei residui, dalla produzione all’impiego nello stesso processo, o in uno successivo, e all’art. 5 prevede che il produttore e il detentore del bene assicurano, ciascuno per quanto di propria competenza, l’organizzazione e la continuità di un sistema di gestione, ivi incluse le fasi di deposito e trasporto, che, per tempi e per modalità, consente l’identificazione e l’utilizzazione effettiva del sottoprodotto.
La qualificazione o meno di rifiuto (peraltro presunta) discende, dunque, anzitutto dal comportamento del detentore.
Al riguardo, la Corte di giustizia ha precisato che “di regola, quanto alla dimostrazione di un’intenzione, solo il detentore dei prodotti può provare che la propria intenzione non è quella di disfarsi di essi, bensì di permetterne il riutilizzo in condizioni idonee a conferire loro la qualifica di sottoprodotto” (cfr. Sentenza 3 ottobre 2013, causa C-113/12, sentenza Brady, punti 61-64).
A conferma di detta ricostruzione è l’articolo 184 bis, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 152 del 2006, secondo cui perché un residuo possa essere considerato un sottoprodotto deve essere certo che esso “sarà utilizzato” nel corso dello stesso o di un successivo processo produttivo o di utilizzazione.
In conformità alla direttiva 2008/98/CE tale disposizione, nel richiedere che non vi siano possibilità che il residuo non venga utilizzato, vuole evitare la sottrazione di un materiale alla disciplina dei rifiuti in presenza di una mera possibilità di utilizzo dello stesso.
Il sottoprodotto nasce, cioè, con la certezza di essere riutilizzato.

4. Tale disciplina, applicabile ai sottoprodotti, compresi quelli di origine animale, è stata correttamente applicata dai giudici di merito, che, come già osservato, hanno escluso la qualificabilità come sottoprodotti degli scarti di origine animale oggetto delle condotte contestate al ricorrente, evidenziando che vi era una “chiara gestione di residui animali non destinati al recupero, non custoditi secondo la normativa prevista, ma semplicemente ammassati, senza alcuna cautela igienica, tanto da diventare rifiuti addirittura il più delle volte pericolosi” (pagg. 19 e segg. della sentenza impugnata). L’attività era svolta “senza alcuna predisposizione e cautela refrigerativa e senza alcuna distinzione, per essere ammassato, in maniera assolutamente caotica e senza regole igieniche nello stabilimento”.
Presso la Pico Pelli venivano cioè ammassate carcasse di animali senza alcun controllo igienico, e senza alcuna protezione, lasciate sostanzialmente in balia degli agenti atmosferici, con tutte le conseguenze del caso e in violazione, totale, delle disposizioni regolamentari vigenti. Le carcasse di animali venivano acquistate dalla Pico Pelli e trasportate nello stabilimento su autocarri non refrigerati né coibentati.
Risulta, pertanto, del tutto corretta la qualificazione di tali scarti come rifiuti, sia a causa della violazione delle disposizioni sanitarie che disciplinano la raccolta, il trasporto e la conservazione degli scarti di origine animale, che già ne precludeva il riutilizzo e quindi la possibile qualificazione come sottoprodotti, sia in considerazione dell’assenza di qualsiasi elemento positivo circa la loro destinazione al riutilizzo, essendo, per contro, pacifica la loro destinazione allo smaltimento, quantomeno per quelli qualificati come di categoria 1, che venivano ceduti alla Im.Pro.Ma. di Ceresole d’Alba per lo smaltimento, tramite incenerimento o utilizzo come combustibile nell’impianto di energia.
Neppure è configurabile una assenza di colpa o una ignoranza scusabile della legge applicabile, nella specie integrativa del precetto penale, come sostenuto dal ricorrente con il terzo motivo di ricorso sotto il profilo dell’erronea individuazione della disciplina ritenuta applicabile. Le modalità di conservazione degli scarti di origine animale rinvenuti nello stabilimento della Pico Pelli sono inequivocabilmente indicative della impossibilità di qualsiasi forma di riutilizzo, con la conseguente evidenza della necessità di trattare detti scarti osservando la disciplina dei rifiuti, tali essendo chiaramente i suddetti scarti, raccolti, trasportati, gestiti e ceduti dalla Pico Pelli, non in funzione del loro riutilizzo ma esclusivamente nella prospettiva del loro smaltimento, dato che, già di per sé, impedisce di qualificarli come sottoprodotti.
Deve, in definitiva, concludersi per l’infondatezza dei primi tre motivi di ricorso.

5. Il quarto motivo, mediante il quale è stato denunciato un ulteriore vizio della motivazione, conseguente alla mancata considerazione da parte della Corte territoriale dei rilievi sollevati con l’atto d’appello a proposito della affermazione di responsabilità in relazione al reato di cui all’art. 674 cod. pen. di cui al capo 2), è inammissibile, essendo volto, come si ricava dalla stessa lettura del motivo di ricorso, a conseguire una rivalutazione degli aspetti considerati dai giudici di merito, tra l’altro in modo concorde e pienamente logico, per affermare la configurabilità di tale reato.
Al riguardo nella sentenza del Tribunale di Mantova (cfr. pagg. 21 e 22), alla quale quella della Corte d’appello di Brescia ha fatto ampio riferimento, è stato evidenziato come l’istruttoria orale abbia dimostrato la fondatezza della contestazione di tale reato, sottolineando come tutti i residenti nell’area prossima allo stabilimento della Pico Pelli hanno confermato di aver sistematicamente percepito, nel periodo in contestazione, un persistente e nauseabondo odore di carne in putrefazione, proveniente dallo stabilimento della Pico Pelli, talmente intenso, soprattutto nel periodo estivo, da impedire di tenere aperte le finestre delle abitazioni o di stendere all’esterno il bucato. Ciò, del resto, è stato confermato dai funzionari dell’Arpa e della ASL che eseguirono i vari sopralluoghi presso tale stabilimento.
Ne consegue la manifesta infondatezza dei rilievi, peraltro di contenuto non consentito, in quanto relativi a un accertamento di fatto, sollevati dal ricorrente a proposito della conferma della affermazione della sua responsabilità in ordine a tale reato, in quanto a essa la Corte territoriale è pervenuta sulla base di elementi di fatto inequivoci e di per sé dimostrativi della provenienza di odori insopportabili dallo stabilimento della Pico Pelli, che non necessitavano, quindi, per giustificare tale conferma, di approfondita analisi o di ampia illustrazione.

6. Il quinto motivo, mediante il quale è stata lamentata l’erroneità della esclusione della applicabilità della causa di giustificazione della forza maggiore di cui all’art. 45 cod. pen., con riferimento alle contravvenzioni di cui ai capi 3), 4), 5), 6), 7) e 8), e un vizio della motivazione su tale punto, non essendo stato considerato che il sequestro dell’azienda e la risoluzione dei contratti di lavoro con i dipendenti avevano impedito al ricorrente di ottemperare alle prescrizioni impartitegli, il cui adempimento avrebbe estinto le contravvenzioni contestate, è manifestamente infondato, sia perché dette contravvenzioni erano già tutte consumate al momento del sequestro, con la conseguente piena correttezza della affermazione della loro configurabilità; sia perché il sequestro dell’azienda non impediva certamente all’imputato di ottemperare alle prescrizioni impartitegli (di cui peraltro non è neppure stato specificato il contenuto, con la conseguente genericità della censura per tale motivo, giacché la mancata illustrazione del contenuto di dette prescrizioni impedisce anche di apprezzare la rilevanza dell’ostacolo prospettato dal ricorrente), richiedendo il dissequestro dell’impianto a tale scopo, o di accedervi per provvedere alle regolarizzazioni necessarie, per le quali non risulta che lo stesso si sia attivato.
La risoluzione dei rapporti di lavoro con i dipendenti, oltre che imputabile allo stesso ricorrente, risulta priva di rilevanza, perché le violazioni concernenti l’inadempimento agli obblighi formativi erano già consumate.
Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza anche di tale, peraltro generica, censura.

7. Il sesto motivo, mediante il quale è stata lamentata la mancata applicazione della causa di giustificazione della forza maggiore di cui all’art. 45 cod. pen. anche in relazione al reato di cui all’art. 4, comma 7, l. 628 del 1961 di cui al capo 9), per non essere stato considerato che la notifica del verbale di prescrizione, con il quale veniva assegnato un termine di 15 giorni per produrre i dischi dell’apparecchio cronotachigrafo di un autocarro della Pico Pelli, si era perfezionata per compiuta giacenza, non potendosene dunque desumere l’effettiva conoscenza dell’atto, è manifestamente infondato, sia a causa della sua genericità, non essendo stato precisato quando e dove l’atto in questione venne notificato, sia perché il perfezionamento della notificazione, in una delle forme previste dall’ordinamento, determina una presunzione legale di conoscenza che il ricorrente non ha allegato elementi concreti che consentono di superare.
Tale forma di notificazione, infatti, dà luogo a una presunzione legale di conoscenza, che può essere vinta ove il contravventore provi di non avere avuto, senza colpa, notizia dell'atto, mediante la dimostrazione di un fatto o di una situazione, non superabile con l'ordinaria diligenza, che spezzi o interrompa in modo duraturo il collegamento fra il destinatario e il luogo di destinazione della comunicazione (cfr. Sez. 3, n. 43250 del 20/07/2016, D’Alonzo, Rv. 267938), e nel caso in esame il sequestro dello stabilimento non risulta abbia impedito al ricorrente di recarvisi per ritirare la corrispondenza che ivi gli sia stata notificata, cosicché anche tale doglianza risulta, oltre che anch’essa generica, manifestamente infondata.

8. Il settimo motivo, mediante il quale è stato lamentato un vizio della motivazione anche a proposito del reato di cui all’art. 650 cod. pen. di cui al capo 10), non essendo stati considerati dalla Corte territoriale i motivi addotti con l’atto d’appello per giustificare l’inottemperanza all’ordinanza del Sindaco di Pieve di Coirano, in quanto il piano di smaltimento dei sottoprodotti di origine animale presenti nello stabilimento, che era stato approvato dal pubblico ministero, non aveva potuto essere eseguito in quanto il Comune di Pieve di Coirano aveva preteso l’applicazione delle disposizioni in materia di rifiuti, è manifestamente infondato, in quanto del tutto correttamente, per quanto esposto ai punti 3 e 4, il Comune di Pieve di Coirano aveva richiesto che lo smaltimento fosse eseguito osservando la disciplina in materia di rifiuti, che era quella applicabile agli scarti di origine animale presenti nello stabilimento della Pico Pelli, cosicché il ricorrente non può certo utilmente dolersi del fatto di essere stato richiesto di provvedere allo smaltimento di detti materiali secondo la disciplina a essi applicabile, né giustificare l’inottemperanza con tale richiesta, che gli avrebbe impedito di smaltire detti rifiuti in modo illecito.

9. In conclusione, il ricorso in esame deve essere rigettato, a cagione della infondatezza dei primi tre motivi e della inammissibilità di quelli restanti.
Consegue la condanna al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 15/11/2023