Cass. Sez. III n. 30062 del 4 luglio 2018 (Cc 16 mag 2018)
Presidente: Sarno Estensore: Scarcella Imputato: Pedarra
Beni Culturali. Omessa denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali

Il bene giuridico protetto dagli articoli 59, co. 2, 173, lett. b), D.Lgs. 42 del 2004,  consiste nell'interesse pubblico alla conoscenza dei diversi atti traslativi aventi ad oggetto un c.d. "bene culturale", e tale interesse appare permanentemente leso dalla duratura condotta del proprietario del bene che omette di denunciare gli atti traslativi aventi ad oggetto tali beni perché tale omissione rende estremamente complesso, se non impossibile, conoscere chi è il reale proprietario dei beni

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza 6.12.2017, il tribunale del riesame di Foggia rigettava la richiesta presentata nell’interesse del Pedarra avverso il decreto di convalida di sequestro probatorio emesso dal PM in data 10.11.2017;  giova precisare per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che il sequestro ha per oggetto reperti archeologici già precedentemente oggetto di altro sequestro in data 19.07.1994, nell’ambito di un procedimento penale per il reato di ricettazione dei medesimi reperti in quanto ritenuti di provenienza delittuosa in quanto oggetto di impossessamento illecito ex lege n. 1089 del 1939, reato ascritto al medesimo Pedarra, reato da cui questi era stato assolto per insussistenza del fatto con sentenza del tribunale di Foggia, sez. dist. Cerignola, 17.12.1996, divenuta irrevocabile in data 7.01.1997, che aveva disposto il dissequestro e la restituzione di quanto sequestrato; in data 27.09.2017, a seguito di perquisizione eseguita nei confronti del Pedarra, si procedeva a nuovo sequestro dei reperti archeologici, sequestro in relazione al quale il difensore dell’indagato esibiva la predetta sentenza assolutoria chiedendone il dissequestro; il PM in data 11.10.2017, nell’accogliere l’istanza del Pedarra, ordinanza il dissequestro e la restituzione dei reperti, ma, in sede di catalogazione e riscontro dei reperti sequestrati nel 1994 con quelli sequestrati nel 2017, la Sovrintendenza competente acclarava la mancanza di alcuni reperti, contraddistinti dai numeri 6, 26, 75, 85, 90, 103, 113, 141, 142, 143 e 147, il cui valore è stato determinato in € 3675,00; atteso che i reperti descritti e mancanti sono stati ritenuti di interesse archeologico, dunque soggetti alle norme di tutela del c.d. codice Urbani, il sequestro di cui si discute risulta essere stato disposto per aver ritenuto la PG, tesi confermata in sede di convalida da parte del PM, ipotizzabile a carico del Pedarra i reati di cui agli artt. 59 e 173, co. 1, lett. a) e b), d. lgs. n. 42 del 2004.

2. Contro l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del ricorrente, iscritto all’Albo speciale ex art. 613, cod. proc. pen., prospettando tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione della legge processuale.
Si osserva che il giudice del riesame, lungi dall’esercitare il proprio potere demolitorio nei confronti di un decreto di convalida del tutto immotivato sia rispetto al legame tra la res e l’ipotesi di reato astrattamente contestata, che alla concreta finalità probatoria da perseguire, si sarebbe sostituito al PM, nel formulare una nuova e differente motivazione al decreto di convalida del sequestro, al fine di poter verificare l’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato; il provvedimento del PM, infatti, risulta essere motivato semplicemente con l’affermazione “trattasi di materiale archeologico detenuto illegittimamente”, senza ulteriormente specificare.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge in reazione all’inapplicabilità del d. lgs. n. 42 del 2004.
Richiamato il contenuto delle disposizioni di cui agli artt. 10, 12, 14, 15 e 16, del decreto “Urbani”, sostiene la difesa che nel caso dei reperti di cui si discute, non soltanto a fronte dell’originaria catalogazione dei reperti sequestrati nel 1994, ma anche a fronte del sequestro eseguito in data 27.09.2017, alcun procedimento amministrativo atto a far riconoscere e dichiarare l’interesse culturale dei reperti in questione risulta mai essere stato avviato dalla Sovrintendenza, ciò a dimostrazione dell’oggettiva, negativa valutazione sulla “particolare importanza” e sulla “rarità e pregio” degli oggetti in sequestro, quali specifici uniformi criteri valutativi indicati dalla norma di riferimento; difettando il necessario presupposto procedimento amministrativo sul riconoscimento del carattere di patrimonio culturale dei beni sequestrati, non potrebbe essere contestata alcuna violazione al d. lgs. n. 42 del 2004.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, violazione di legge, sub specie dell’inapplicabilità dell’art. 173, lett. a), d. lgs. n. 42 del 2004.
Si sostiene che i beni sub 141, 142, 143 e 147, stante la loro assoluta non autenticità riconosciuta dalla stessa Sovrintendenza nell’ultima pagina del verbale del 1994 e come da comunicazione a riscontro nota 23.10.2017, sono esclusi dalla tutela di cui al decreto Urbani, attesa l’intrinseca assenza di alcun interesse storico culturale, trattandosi di “falsi”, aggiungendosi che il bene catalogato al n. 113 del verbale di inventario 1994 viene invece riportato nel 45 dell’attuale catalogazione; per quanto concerne i restanti, non potrebbe richiamarsi l’interesse “archeologico” attesa la irritualità della dichiarazione rilasciata, in violazione delle disposizioni procedurali previste dall’art. 14, d. lgs. n. 42 del 2004; la norma di cui all’art. 173, lett. b), d. lgs. n. 42 del 2004 non sarebbe applicabile in quanto risultando i beni oggetto di sequestro del 1994 catalogati in apposito verbale e noti alla stessa Sovrintendenza perché dalla stessa stilato e detenuto, allora non sarebbe ipotizzabile il reato di cui alla lett. b) – che punisce la mancata presentazione della denuncia della detenzione di beni culturali – in quanto assorbita dalla materiale sussistenza di un apposito verbale predisposto e redatto dalla stessa Sovrintendenza per la catalogazione dei beni stessi; il giudice del riesame, pertanto, avrebbe abdicato alla sua funzione, non dando conto delle eccezioni difensive e quindi senza esercitare il potere di sindacato allo stesso spettante.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è fondato.

4. Anzitutto, è fondato il primo motivo, atteso che il decreto di convalida 10.11.2017, pur rinviando integralmente al verbale di sequestro della GdF 9.11.2017 (e, quindi, in astratto legittimo, ove motivato "per relationem" al contenuto del verbale di sequestro, a condizione che quest'ultimo contenga tutti gli elementi idonei a identificare l'ipotesi di reato, le cose sequestrate, la persona o le persone cui sono riferibili e le ragioni della sottoposizione al vincolo, e allorché il decreto di convalida rinvii con chiarezza all'atto della polizia giudiziaria e non lasci dubbi circa l'adesione alle scelte compiute dai verbalizzanti: v., tra le tante, Sez. 3, n. 43285 del 23/10/2001 - dep. 01/12/2001, PM in proc.Tammaro P, Rv. 220602), non specifica tuttavia le concrete esigenze probatorie sottese alla apprensione della res, che non viene ad essere nemmeno qualificata come corpo di reato o come cosa ad esso pertinente, in ciò disattendendo il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (v., tra le tante: Sez. 3, n. 11935 del 10/11/2016 - dep. 13/03/2017, Zamfir, Rv. 270698; da ultimo, Sez. Un. 19 aprile 2018, Ptm. in proc. Botticelli e altri, non ancora depositata), secondo cui il decreto di sequestro probatorio di cose non solo costituenti cosa pertinente al reato, ma anche costituenti corpo di reato deve essere necessariamente sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti, allo scopo di garantire, in conformità agli artt. 42 Cost. e 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che la misura sia soggetta ad un permanente controllo di legalità, anche sotto il profilo procedimentale, e di concreta idoneità in ordine all'"an" ed alla durata della stessa, in modo da assicurare un ragionevole rapporto di proporzionalità fra mezzo impiegato (spossessamento del bene) e fine endoprocessuale perseguito (accertamento del fatto reato). Ciò comporta, dunque, che nel caso di radicale mancanza della motivazione, in ordine alla necessaria sussistenza della concreta finalità probatoria perseguita in funzione dell'accertamento dei fatti, del decreto di sequestro di cose qualificate come corpo di reato, che, sebbene non integrato sul punto dal pubblico ministero neppure all'udienza di riesame, sia stato confermato dall'ordinanza emessa all'esito di questa procedura, la Corte di cassazione deve pronunziare sentenza di annullamento senza rinvio di entrambi i provvedimenti (da ultimo: Sez. 4, n. 54827 del 19/09/2017 - dep. 06/12/2017, Gigante, Rv. 271579), non potendo certamente ritenersi “sanante” di tale radicale mancanza la circostanza che il tribunale del riesame, nell’ordinanza impugnata, abbia provveduto ad indicare tali esigenze probatorie, in particolare laddove (v. pag. 4 dell’ordinanza impugnata), afferma che dette esigenze si ravvisano nella necessità di “accertamenti e verifiche nell’ambito delle indagini in corso di svolgimento, al fine di ricostruire, in modo puntuale e completo, la dinamica degli eventi”. Ed infatti, pur ammettendosi da parte della giurisprudenza di questa Corte la possibilità che la motivazione del provvedimento di convalida da parte del P.M. del sequestro probatorio eseguito dalla polizia giudiziaria, dalla quale si evincano i presupposti del vincolo e della configurabilità del reato, possa essere integrata dal giudice del riesame in sede di conferma del provvedimento con la specificazione delle esigenze probatorie che ne stanno a fondamento, detta possibilità è pur sempre condizionata alla circostanza che le predette esigenze siano state indicate, seppure in maniera generica, nel provvedimento impugnato (v., da ultimo: Sez. 3, n. 30993 del 05/04/2016 - dep. 20/07/2016, Casalboni, Rv. 267329), circostanza tuttavia da escludersi nel caso di specie, essendosi infatti limitato il PM in sede di convalida del sequestro probatorio eseguito d’urgenza ad affermare che “trattasi di materiale archeologico detenuto illegalmente”, senza indicare, nemmeno genericamente, quali fossero le esigenze probatorie concrete sottese alla apposizione del vincolo.

6. Con riferimento alla configurabilità in termini di fumus del reato ipotizzato (art. 173, co. 1, lett. b), d. lgs. n. 42 del 2004, che punisce “chiunque, essendovi tenuto, non presenta, nel termine indicato all’articolo 59, comma 2, la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali” -  laddove il riferimento alla ipotesi di cui alla lett. a) del medesimo art. 173 appare frutto di un refuso punendo tale ipotesi la condotta di “chiunque, senza la prescritta autorizzazione, aliena i beni culturali indicati negli articoli 55 e 56”, condotta nella specie che non emerge dalla contestazione provvisoria mossa all’indagato e che, peraltro, si desume chiaramente non essere stata oggetto di contestazione, avendo infatti prospettato quale preimputazione cautelare gli operanti, il PM in sede di convalida e lo stesso giudice del riesame la violazione del combinato disposto degli artt. 59 (richiamato solo dalla lett. b) e a73, lett. b), d. lgs. n. 42 del 2004, donde il richiamo alla lett. a), si conferma essere un refuso) – lo stesso allo stato, secondo la difesa, risulterebbe non perseguibile per il notevole lasso temporale trascorso dai fatti. Sul punto occorre svolgere le seguenti osservazioni.
Rileva il Collegio che il bene giuridico protetto dagli articoli sopra citati consiste nell’interesse pubblico alla conoscenza dei diversi atti traslativi aventi ad oggetto un c.d. “bene culturale”, e tale interesse appare permanentemente leso dalla duratura condotta del proprietario del bene che omette di denunciare gli atti traslativi aventi ad oggetto tali beni perché tale omissione rende estremamente complesso, se non impossibile, conoscere chi è il reale proprietario dei beni; da un punto di vista letterale emerge con chiarezza che gli artt. 59, co. 2, 173, lett. b), D.Lgs. 42 del 2004, puniscono l’omessa denuncia da parte del proprietario, entro il termine di trenta giorni, dell’atto traslativo avente ad oggetto un c.d. “bene culturale”; invero la giurisprudenza ha, in alcuni casi, desunto il criterio individuatore delle fattispecie omissive permanenti dalla natura ordinatoria del termine fissato, in via esplicita o implicita, dalla norma per l’adempimento dell’obbligo di agire; in sostanza il reato omissivo proprio, in cui l’omissione consista nella mancata osservanza del termine fissato per un adempimento, è permanente ogni qualvolta l’adempimento stesso sia possibile anche dopo la scadenza del termine (c.d. termine ordinatorio), perché in tal caso il soggetto ha il potere di far cessare la situazione di antigiuridicità compiendo tardivamente, ma pur sempre efficacemente, ciò che precedentemente aveva omesso; viceversa, allorquando il termine posto dalla norma sia perentorio, il reato omissivo proprio va considerato istantaneo.
Tuttavia una distinzione di tal genere (termine perentorio/termine ordinatorio) maturata nel diritto civile, sostanziale e processuale, non appare pienamente applicabile in ambito penalistico; infatti è evidente che il termine per l’adempimento penalmente rilevante è solo quello perentorio; in presenza di un termine ordinatorio al soggetto sarebbe concessa la facoltà di decidere il momento in cui adempiere, quindi non potrebbe mai parlarsi, entro questo ambito di tempo, di obbligo penalmente sanzionato. Sembra più corretto affermare che ogni reato omissivo proprio prevede, esplicitamente o implicitamente, un termine entro il quale si deve ottemperare all’obbligo di azione descritto dalla norma; non sempre però, alla realizzazione della condotta, corrisponde l’esaurimento del reato medesimo. Anche i reati omissivi propri possono dunque, sia pure eccezionalmente, assumere natura permanente. Ciò si verifica quando l’esame della norma evidenzia che, malgrado la scadenza del termine, continua a sussistere per il destinatario della stessa il dovere di assolvere l’obbligo; in tale tipo di analisi un ruolo essenziale svolge la natura del bene oggetto di tutela che determina una permanente necessità di difesa.
7. Sul punto, va sottolineato che questa stessa Corte ha più volte avuto modo di affermare la natura permanente di reati omissivi propri; così, in materia di violazione della normativa antisismica, ha statuito che: “.... l’omessa denuncia al genio civile di lavori in corso entro il termine di quindici giorni dall’entrate in vigore del provvedimento di classificazione di nuove zone sismiche, di cui all’art. 30 legge 2 febbraio 1974, n. 64, ha natura di reato permanente il cui termine prescrizionale, cessata la permanenza con la sentenza di primo grado, inizia nuovamente a decorrere, quando non vi sia adempimento tardivo, dalla data della predetta decisione (Cass., Sez. III, 5.4.1986, n. 2646, Porto); con riguardo al reato di omissione del deposito del bilancio e delle scritture contabili, la S.C., ha affermato che si tratta di “… reato omissivo proprio a carattere permanente, in quanto l’interesse all’adempimento della procedura fallimentare permane fino all’effettivo deposito dei predetti documenti” ( Cass., Sez. V, 24.11.1977, n. 14905, Marzollo; conforme Cass., Sez. V, 8.4.1975, n. 3904, Jemma); per quanto riguarda l’omessa valutazione del rischio provocato dall’esposizione dei lavoratori dipendenti ai rumori dannosi, penalmente sanzionata dagli artt. 40 e 50 del D.Lgs. 15 agosto 1991 n. 277, la S.C. ha ritenuto che essa “…configura un reato omissivo proprio di natura permanente, la cui permanenza termina o con la cessazione della condotta omissiva del datore di lavoro o con la pronuncia della sentenza di primo grado” (Cass., Sez. III, 1.12.1999, n. 13719, Cacchiarelli.); in tema di prevenzione infortuni “…l’inosservanza delle prescrizioni di cui all’art. 115 del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, volto ad assicurare che i macchinari siano dotati di dispositivi idonei ad evitare che le mani o altre parti del corpo del lavoratore entrino in contatto con le parti mobili di detti macchinari, configura un reato omissivo proprio di natura permanente…, atteso che il perdurare della omissione continua a ledere l’interesse tutelato dal precetto penale ( la tutela della salute ed integrità fisica del lavoratore) anche dopo che il fatto costituente reato si è perfezionato in tutti i suoi elementi.” (Cass., Sez. III, 3.12.2001, n.43292, Costigliola); ed ancora “Il reato di mancata riassunzione in servizio del lavoratore al termine del servizio militare di cui all’art. 3 d.l.c.p.s. 13.9.1946, n.303, convertito in legge 5.1.1953, è reato permanente…”(Fattispecie relativa a rigetto di ricorso in cui l’imputato contestava la natura di reato permanente ed assumeva che il reato medesimo, istantaneo, si era esaurito con lo spirare del termine di trenta giorni fissato dall’art. 3 del provvedimento legislativo; Cass., Sez. III, 23.5.84, n. 4727).

8. Il reato oggetto di attuale incriminazione appare quindi riconducibile nel novero dei reati omissivi permanenti perché, nonostante l’entrata in vigore del D.lgs. 42 del 2004, il dovere imposto dalla norma ha mantenuto carattere continuativo e l’interesse tutelato non rimane pregiudicato irrimediabilmente con la scadenza del termine entro il quale la condotta comandata avrebbe dovuto essere tenuta.
Orbene, data la sua natura permanente, occorre però interrogarsi se il reato oggetto del presente procedimento possa o meno considerarsi estinto per prescrizione (come ipotizza il ricorrente), tenuto peraltro conto che, secondo la giurisprudenza ormai consolidata, il reato permanente si caratterizza per il tipo di condotta e per la correlazione di questa con l’offesa dell’interesse protetto e dunque per la durata dell’offesa che è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell’agente; sul punto è sufficiente osservare che la mancata denuncia produce una perdurante offesa al bene giuridico protetto dalla norma, offesa dovuta alla persistente condotta volontaria del soggetto attivo, il quale è in grado di porre fine a tale situazione offensiva; a ciò va aggiunto che, proprio per la natura di reato omissivo permanente, la permanenza del reato perdura fin quando l'omittente non la faccia cessare ponendo in essere, sia pure tardivamente, l'atto richiestogli, ovvero fin quando questo non sia più realizzabile anche per l'intervenuto sequestro dei beni culturali, ovvero ancora, fino a quando l'imputato non venga di esso dichiarato colpevole in primo grado.

9. Nel caso di specie, risulta pacificamente dagli atti che i reperti in questione (a prescindere, da un lato, dalla verifica dell’apparentemente riconosciuta falsità di alcuni reperti – circostanza non valutabile da parte di questo Collegio perché importerebbe un inammissibile apprezzamento di fatto, incompatibile con la cognizione della Corte di legittimità – e, dall’altro, dall’accertamento della c.d. culturalità del bene, per effetto della “dichiarazione” prevista dall'art. 13 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, valutazione, questa, che non emergente dall’atto impugnato, presupporrebbe un accertamento da parte del Collegio in ordine alla esistenza o meno della dichiarazione, incompatibile con il sindacato di pura legittimità attribuito alla Suprema Corte) vennero sì sottoposti a sequestro e catalogati nell’anno 1994, ma che  gli stessi rientrarono nella disponibilità del Pedarra successivamente alla loro restituzione a seguito della precedente sentenza assolutoria per il delitto di ricettazione, e che, da tale momento (peraltro non risultante con esattezza dagli atti e che sarà accertabile da parte del giudice di merito), essi rimasero ininterrottamente nella disponibilità dell’attuale indagato, donde questi – ove se ne confermi nel prosieguo di indagine la natura di “beni culturali” – ben avrebbe potuto far cessare la permanenza del reato ponendo in essere, sia pure tardivamente, l'atto richiestogli, permanenza che è da intendersi attualmente cessata con l’intervenuto sequestro in data 27.09.2017 dei reperti medesimi.

10. Conclusivamente, deve essere disposto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata e del provvedimento del PM di convalida del sequestro probatorio; avendo in tal modo il provvedimento di sequestro del Pubblico Ministero perso ogni efficacia (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 - dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226713), deve essere disposta la restituzione dei reperti all’avente diritto (da individuarsi all’esito dell’accertamento della natura giuridica dei reperti), non ricorrendo le condizioni per l’applicabilità del disposto dell’art. 324, co. 7, cod. proc. pen., trattandosi di cose non soggette a confisca obbligatoria, non prevista infatti per tale categoria di beni dall’art. 173 (a differenza, ad esempio, di quanto prevede il d. lgs. n. 42 del 2004 per ipotesi di reato diverse, quali, l’art. 174, co. 3 e l’art. 178, co. 4).

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata nonché il decreto di convalida del sequestro disposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia in data 10.11.2017, e dispone la restituzione dei reperti in sequestro in favore dell'avente diritto.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 16 maggio 2018