CONSIGLIO DI STATO Sez. V, Sentenza n. 354 del 31 GENNAIO 2006
Urbanistica. Volumi tecnici
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Reg. Dec. 354/06
N. 6154 Reg. Ric.
Anno: 2001
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n.r.g. 6154 del 2001, proposto dalla sig. Elena Esposito, rappresentata e difesa dall’avv. Mario Sanino ed elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo, in Roma, viale Parioli, n. 180,
contro
la sig. Nunzia Guerricchio, rappresentata e difesa dall’avv. Maurizio Di Cagno ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’ avv. Giovanni Pellegrino, in Roma, via Giustiniani, n. 18,
e nei confronti
del Comune di Bernalda, rappresentato e difeso dall’avv. Michele Porcari ed elettivamente con lui domiciliato presso lo studio dell’avv. Massimo Colarizi, in Roma, via Panama, n. 12,
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Basilicata, n. 116/2001, pubblicata il 6 febbraio 2001.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti suindicate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore, alla pubblica udienza del 12 luglio 2005, il consigliere Giuseppe Farina ed uditi, altresì, i difensori delle parti, avv. Sanino, Di Cagno e Colarizi, per delega Porcari, come da verbale d’udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO
1. È oggetto d’impugnazione la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Basilicata n. 116/2001, con la quale è stata annullata la concessione edilizia n. 99/99, con relativa variante n. 6809/2000, rilasciate dal Comune di Bernalda alla attuale appellante.
2. La pronunzia ha condiviso quattro delle censure dedotte col ricorso introduttivo.
3. L’appello è affidato ad altrettante censure alla decisione impugnata e confuta, altresì, i motivi del ricorso introduttivo, assorbiti dal primo giudice. È stato notificato il 23/29 maggio 2001 e depositato il 12 giugno.
Sono stati notificati motivi aggiunti, in data 4 gennaio 2002, depositati il 17 gennaio.
4. La parte privata appellata si è costituita con memoria depositata il 9 luglio 2001, per contestare tutte le argomentazioni del ricorso in appello.
Ha notificato il 23 luglio 2001, e depositato il 12 settembre successivo, appello incidentale avverso tre capi della sentenza suindicata.
Ha depositato documenti il 10 luglio 2001 ed il 10 giugno 2005, con una memoria conclusiva in data 1° luglio 2005.
5. Il Comune di Bernalda si è costituito il 31 maggio 2002 per aderire all’appello principale e contraddire all’appello incidentale.
Non ha prodotto altri scritti difensivi.
6. Alla camera di consiglio del 10 luglio 2001 è stata respinta la domanda di sospensione dell’efficacia della decisione impugnata.
7. All’udienza del 12 luglio 2005, il ricorso è stato chiamato per la discussione e poi trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. L’originaria ricorrente, precisando di essere superficiaria - proprietaria di un fondo e di un immobile nel Comune di Bernalda, a Metaponto Lido, ha chiesto l’annullamento della concessione edilizia, e della relativa variante, n. 99/99, che il Comune di Bernalda ha rilasciato alla attuale appellante.
La concessione concerne la “costruzione di un villa” previa demolizione dell’esistente.
Il terreno, sul quale insiste l’immobile della ricorrente in primo grado, confina con quello sul quale è stata consentita la costruzione oggetto di controversia.
2. Il Tribunale amministrativo regionale della Basilicata ha condiviso, con la sentenza impugnata, le seguenti censure:
2.1. contrasto con l’art. 3 delle norme tecniche di attuazione (NTA), che prescrive che si lasci “inalterato l’impianto urbanistico e tipologico di zona residenziale estiva e di villette isolate immerse nel verde”.
L’intervento edificatorio progettato dalla parte ed assentito dal Comune consiste in una palazzina condominiale, con quattro appartamenti autonomi - ciascuno dotato di distinti accessi - distribuiti su un piano seminterrato e due piani fuori terra e con un ulteriore piano con terrazzi e con locali, che sarebbero destinati a servizi tecnici. L’altezza complessiva è di metri dieci, superiore, perciò, agli otto metri consentiti, come limite massimo dal citato art. 3 NTA, per conservare le caratteristiche di villette “immerse nel verde”.
Pur consistendo il vizio riconosciuto in una violazione che comporta l’annullamento in toto della concessione, il T.A.R. ha rilevato ulteriori illegittimità:
2.2. violazione delle norme sulle distanze dettate dall’art. 41 quinquies , primo comma, lett. c), l. 17 agosto 1942, n. 1150: metri 6,50, anziché metri 10,45;
2.3. violazione del limite di altezza massima di metri otto nella zona, secondo quanto dispone il menzionato art. 3 NTA. Il Comune, infatti, ha illegittimamente escluso dal computo i locali previsti sul terrazzo di copertura che non è possibile definire “volumi tecnici”. Essi sono due locali di dieci metri quadrati ciascuno, con finestre e bagni, collegati con una scala interna in via esclusiva con l’appartamento sottostante, dei quali sono, perciò pertinenze. Non quindi al servizio del condominio e liberamente praticabili;
2.4. violazione della disposizione sull’indice di fabbricabilità. Infatti, è stata calcolata, come edificabile, una superficie di mq. 97,50. Ma l’area occupata è ben maggiore, perché vi devono essere incluse sia quella coperta con un loggiato, sia quella di un pergolato, sia le scale esterne di accesso ai due appartamenti del primo piano.
Le altre censure sono state assorbite.
3. L’appello inizialmente proposto è stato integrato con motivi aggiunti, che mirano a dimostrare il difetto di legittimazione della ricorrente ad impugnare la concessione edilizia, perché essa non avrebbe “alcun titolo giuridico sull’area” confinante con quella dove è sorta la costruzione assentita dal Comune.
3.1. I motivi aggiunti sono inammissibili:
sia perché si tratta di negazione della situazione legittimante della ricorrente originaria, con censure che non derivano dalla conoscenza di un provvedimento sopravvenuto. Quindi non si può parlare di messa in discussione di provvedimenti “adottati in pendenza del ricorso fra le stesse parti”, quali sono quelli che il comma primo dall’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 - nel testo introdotto con l’art. 1 della l. 21 luglio 2000, n. 205 - consente che siano portati alla cognizione dello stesso giudice, dinanzi al quale pende la controversia sulla legittimità del provvedimento inizialmente impugnato;
sia per la ragione che, appunto perché non si discute di provvedimenti adottati in pendenza del ricorso, si tratta di questione che doveva essere tempestivamente proposta con l’ appello, a nulla rilevando che la parte avrebbe avuto modo di conoscerla “in tempi recentissimi”. Essa è stata quindi dedotta tardivamente, ad oltre sei mesi dalla notificazione del ricorso iniziale in appello.
3.2. La questione dedotta, peraltro, è anche priva di fondamento.
Sostiene la parte che la ricorrente iniziale non avrebbe alcun titolo giuridico sull’area confinante, perché né essa, né il suo dante causa avrebbero mai acquistato il terreno dal demanio dello Stato, cui esso appartiene. Ed inoltre nessuno, egualmente, avrebbe mai ottenuto titolo per la costruzione del fabbricato, nel quale la persona suddetta abita. Ed infine questo stesso fabbricato non rispetta la distanza minima di quattro metri dal confine.
3.2.1. Quest’ultima osservazione è priva di rilevanza, perché qui non si discute della conformità a legge della villa posseduta dalla ricorrente iniziale.
3.2.2. Le altre due tesi trascurano considerazioni essenziali:
la prima è che l’appartenenza di un fondo al demanio statale è formula nient’affatto univoca. Essa, nel linguaggio corrente della stessa amministrazione e in quello legislativo (v. la recente costituzione della “agenzia del demanio”) può indicare semplicemente beni appartenenti al patrimonio statale, sia disponibile, sia indisponibile, sia propriamente demaniale. Sicché le mere deduzioni dell’appellante non possono valere a far concludere per l’inesistenza di un qualsiasi rapporto, rilevante per il diritto, della ricorrente originaria con l’immobile che possiede o detiene. O del quale questa si afferma (v. ricorso introduttivo) superficiaria, per il terreno, e proprietaria, per l’edificio;
la seconda è che, a norma dell’art. 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, modificato dalla l. 6 agosto 1967, n. 765, è consentito a “chiunque” di impugnare concessioni edilizie ritenute illegittime. Secondo la ferma giurisprudenza di questo Con siglio di Stato, la formula della legge ammette che sia proposto ricorso da parte di chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione. La indiscussa situazione della ricorrente originaria, di sicura, quanto meno, detentrice dell’immobile sito nel terreno confinante con quello in cui è stato realizzato l’edificio contestato, ne fa ammettere, perciò, la legittimazione alla verifica giurisdizionale della conformità a legge del titolo abilitativo a costruire (fra le più recenti: V Sezione 13 luglio 2000, n. 3904 e 15 settembre 2003, n. 5172).
4. Con il primo motivo dell’appello si sostiene che “la villetta comprendente quattro minialloggi armonizza pienamente” con il carattere di luogo di villeggiatura; che è una villetta isolata “immersa nel verde preesistente che non viene minimamente alterato”; che non è significativo che si tratti di un edificio “mono” o plurifamiliare; che sono inconferenti le osservazioni del T.A.R sull’esistenza di strutture in cemento armato e sul prezzo di vendita degli alloggi; che non appare determinante rapportare l’altezza massima consentita di otto metri alla altezza dei pini circostanti; che non c’è condominio, perché non vi sono parti comuni; che non si può contestare la caratteristica di “villetta immersa nel verde”, senza specificare che “cosa debba intendersi per tale”; che, da ultimo, le sovrintendenze per i beni ambientali ed architettonici di Matera e di Potenza “hanno positivamente valutato sotto il profilo ambientale il progetto di cui trattasi”.
La censura, che mira a sottrarre fondamento alla statuizione del primo giudice sulla totale illegittimità della concessione edilizia, non merita adesione.
Quelle dedotte, e succintamente sopra riferite, sono o mere asserzioni, prive di contenuto “logico” contrario alle considerazioni del T.A.R., o spunti che si soffermano su questioni non fondamentali affrontate nella sentenza impugnata e che le enucleano non utilmente dal ragionamento concreto ed esauriente esposto nella decisione.
Il punto essenziale è la valutazione generale che non può considerarsi una “villetta immersa nel verde” una costruzione con quattro appartamenti, distribuita su tre o quattro piani (il “seminterrato”, i due soprastanti e quello ancora soprastante, che si afferma esse un “terrazzo con volumi tecnici”, ma che tale non è definibile, sia per la consistenza dei locali, con bagni e con accessi riservati ai soli appartamenti sottostanti, sia per la oggettiva inesistenza di servizi comuni ivi situati). È sufficiente la mera descrizione della costruzione assentita con la concessione edilizia, per negarne il carattere di limitatezza del volume e di sostanziale completo “assorbimento” nella zona ricca di verde, prescritto dall’art. 3 delle NTA, del quale il primo giudice ha correttamente rilevato l’intento di non compromissione con fabbricati di volumi ed altezze non coerenti con l’esistente.
Soffermarsi, perciò, sul riferimento all’altezza dei pini, fatto dal primo giudice, o sulla non esistenza di un condominio, quando è certo che vi sono quattro ingressi, quattro passaggi pedonali nello spazio che prima “serviva” un’unica abitazione, e nessun volume tecnico, in senso proprio, appare un argomentare su elementi secondari, che non inficiano la riconosciuta sostanziale alterazione della regola di coerenza, per la zona, o di omogeneità dei singoli edifici ammessi.
5. È utile, ora, l’esame del terzo motivo dell’appello, col quale si critica l’accoglimento, da parte del primo giudice, della censura relativa alla violazione dell’art. 3 NTA, sulla massima altezza degli edifici, realizzati in sostituzione di quelli preesistenti e demoliti. L’altezza non può superare gli otto metri.
La maggiore altezza consentita con la concessione è di oltre dieci metri (esattamente m. 10,45), perché va computata anche quella dei locali situati sul terrazzo di copertura, che, come si è già anticipato, non devono essere trascurati dato che non sono definibili “volumi tecnici”.
Gli argomenti della appellante, volti a contrastare la statuizione del T.A.R., si possono così compendiare:
a) la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato precisa che i “volumi tecnici” sono quelli adibiti esclusivamente alla sistemazione di impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione;
b) il regolamento edilizio del Comune (art. 32) stabilisce che sono volumi tecnici quelli “strettamente necessari a contenere gli impianti tecnologici dell’edificio”, ma non escluderebbe che singoli appartamenti “possono avere volumi tecnici”, quando tratta di impianti “particolari”;
c) i vani in contestazione sono destinati, secondo il progetto “a bagno e a vano per i macchinari dell’aria condizionata” e la loro altezza è di solo metri 2,25;
d) questa altezza non consente di definirli abitabili;
e) sono, quindi, locali, destinati “ad ospitare impianti strumentali all’utilizzo della parte abitativa”.
Il motivo non merita adesione.
È dalle stesse premesse alle quali si ricollega l’appellante che discende la dimostrazione della infondatezza, in punto di fatto e di diritto, degli argomenti esposti.
La definizione che danno le NTA, citate nell’appello, esclude che i locali in questione, collegati esclusivamente ad un alloggio possano considerarsi come “strettamente necessari a contenere impianti tecnologici”, poiché non si chiarisce quali impianti possano avere l’esigenza di uno spazio di dieci metri quadrati e di un bagno per un “mini appartamento”, come si definiscono le singole unità dalla parte interessata. Il non essere a servizio di tutto l’edificio rende evidente che si tratta di un accorgimento che mira a realizzare volumi maggiori di quelli consentiti.
È sufficiente richiamare, a sostegno della esatta conclusione del primo giudice, due pronunzie: è stato statuito che sono volumi tecnici quelli esclusivamente adibiti alla sistemazione di impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione e che non possono essere ubicati all’interno della parte abitativa, sicché non sono tali i locali complementari all’abitazione (V Sez. 13 maggio 1997, n. 483), come le soffitte o i bagni o qualsiasi altro locale del tipo di quelli progettati nel caso in esame e destinati a formare un unica unità abitativa, da un lato, e privi di una effettiva destinazione ad impianti tecnologici. È stato anche deciso che la realizzazione di un locale “sottotetto” mediante vani distinti e comunicanti attraverso una scala interna col piano sottostante , è indice rivelatore dell’intento di rendere abitabile il locale o i locali, non potendosi detti vani considerare volumi tecnici (C. si. 22 ottobre 2003, n. 337).
Ne segue che la parte di costruzione di cui si discute è stata esattamente ricondotta fra quelle da computare ai fini dell’altezza massima consentita. Da ciò consegue la violazione della relativa limitazione stabilita nelle NTA, richiamate dal T.A.R.
Da ciò consegue, inoltre, una precisa conferma - anticipata al n. 4 che precede - che l’edificio consentito con la concessione avversata col ricorso introduttivo, per come emerge per altezza, non possiede il carattere di villetta immersa nel verde preesistente, di cui al primo motivo accolto dal T.A.R.
6. Neanche ha fondamento il motivo riguardante la contestazione del capo di sentenza che ha riconosciuto la violazione del più volte menzionato art. 3 NTA, nella parte in cui è stabilito che la superficie coperta massima delle costruzioni non può superare il limite di un sesto della superficie del lotto.
Il T.A.R. ha messo in rilievo che non sono state considerate le superfici corrispondenti al loggiato, al pergolato, alle scalinate esterne di accesso.
La parte appellante si richiama, evidentemente per sostenere la non computabilità delle suddette superfici, alla norma dell’art. 3 NTA, che esclude che calcolino “balconi e pensiline sporgenti fino a mt. 1,20”. Sostiene che anche le scale hanno tale larghezza e che la controparte avrebbe dovuto, perciò, impugnare le norme tecniche di attuazione.
È agevole rilevare, innanzi tutto, che le scale esterne non sono escluse affatto dal computo della superficie coperta dalla norma invocata dalla appellante.
Quanto al loggiato ed al pergolato non vi sono motivi, né la parte li ha forniti, per concludere che essi sono assimilabili a balconi o pensiline, il primo, quanto meno, essendo un corpo di arcate che si aprono verso l’esterno, che si differenzia perciò da un semplice aggetto o “soletta” sporgente di un edificio, come normalmente è definito un balcone.
Perciò, va tenuta ferma anche la statuizione per la quale la concessione ha consentito la copertura di una superficie maggiore di quella massima consentita dallo specifico indice di fabbricabilità per la zona.
7. Infondata è anche l’ultima censura che resta da esaminare e che riguarda l’omessa osservanza della distanza minima di dieci metri fra la parete est “finestrata” dell’edificio in costruzione e la parete della villetta di proprietà della ricorrente originaria.
Il T.A.R. ha riconosciuto che la distanza è di metri 6.50, ma che essa non poteva essere inferiore a metri 10. Ha perciò ritenuto violato l’art. 41 quinquies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, introdotto dall’art. 17 della l. 6 agosto 1967, n. 765. Ed ha spiegato che la norma non si applica soltanto ai casi di mancanza di uno strumento urbanistico (piano regolatore o programma di fabbricazione), ma anche alle ipotesi in cui uno strumento esista senza però contenere prescrizioni in tema di distanze fra pareti “finestrate” di edifici antistanti.
La tesi dell’appellante è che invece la disposizione non si applica quando vi sia un piano regolatore, ed il Comune di Bernalda è dotato di piano dal 1958. In subordine, fa rilevare che le NTA stabiliscono distanze di quattro metri dai confini del lotto. In ulteriore subordine, anche ammettendo che le NTA abbiano illegittimamente omesso di prevedere per le nuove costruzioni il rispetto del limite dei dieci metri, non poteva essere disapplicato quello dai confini del lotto, sicché doveva impugnarsi il disposto delle N.T.A. Infine, neppure dal d.m. 1444 del 1968 può farsi discendere l’obbligo di osservare la distanza minima suddetta, perché esso non è immediatamente vincolante nei rapporti fra privati.
Si possono trascurare tutte le osservazioni che precedono, perché è proprio dall’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, che deriva l’obbligo per il Comune di disporre affinché siano rispettate le distanze ivi stabilite. Invero, nel comma 1, n. 2, dell’art. 9 in esame, si dispone che al di fuori delle “zone A” - ed è esterna alla zona A quella che qui interessa, senza contestazione fra le parti - è prescritta la distanza minima assoluta di dieci metri “tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
In questa controversia si discute della legittimità di una concessione edilizia rilasciata dal Comune di Bernalda. E perciò dell’obbligo del Comune stesso di prestare osservanza alla predetta disposizione in sede di adozione del provvedimento abilitativo. Sicché nessun rilievo ha l’orientamento giurisprudenziale - del quale non è, di conseguenza, necessario verificare neppure se sussista - affermato dalla parte appellante, secondo il quale quella disposizione non sarebbe immediatamente vincolante nei rapporti fra privati.
In conclusione, rilevato che la disposizione sulla collocazione delle costruzioni ad una certa distanza dai confini dal lotto non contrasta, né è incompatibile con quella dettata in via generale, sulle distanze fra edifici antistanti, si deve ritenere che, in ogni caso, andava osservata, per la costruzione assentita dal Comune, la distanza minima di dieci metri dalla parete più vicina e munita di finestre della controparte, ora resistente in appello.
8. Ulteriore conclusione è che l’appello principale deve essere respinto, con integrale conferma della sentenza impugnata.
9. Non merita neppure adesione l’appello incidentale della controparte.
Sulla domanda risarcitoria, che essa aveva avanzato col ricorso introduttivo, il Tribunale amministrativo regionale ha statuito che gli interventi di ripristino dello stato dei luoghi, “che il Comune è tenuto ad adottare in conseguenza del disposto annullamento giudiziale del provvedimento concessorio”, realizzano “una forma di risarcimento in forma specifica, idonea a soddisfare compiutamente l’interesse azionato”.
Si lamenta, invece, che la costruzione dissonante e disarmonica dall’edilizia circostante e la distanza dalla proprietà, la volumetria e l’altezza dell’immobile rendono “eccessivamente invasivo” il nuovo fabbricato, rispetto alla villetta della appellata. Essa subisce un immediato e prolungato pregiudizio, con godimento del suo bene “fortemente inciso e limitato”. Chiede perciò la condanna delle controparti al pagamento di un risarcimento da quantificare secondo i criteri da indicare da parte di questo Consiglio di Stato, in “misura non inferiore” a lire dodici milioni.
La domanda è infondata.
Le statuizioni del primo giudice preludono a consistenti interventi demolitivi da parte del Comune (o in esecuzione del giudicato). In ciò il Tribunale amministrativo regionale ha correttamente ravvisato l’ipotesi di reintegrazione in forma specifica, che può rendere pienamente soddisfatto l’interesse della parte danneggiata dal provvedimento comunale.
I danni lamentati sinora sono, su un piano astratto, intuibili. Però, su un piano di concretezza, per un verso, sono ancora “in fieri” - sino cioè al momento in cui o per ottemperanza al giudicato o per accordo con il Comune sarà definita la vicenda - e, per altro verso, privi di quelle precise indicazioni di svantaggi incontrati, di rapporti giuridici non conclusi soddisfacentemente, di quantificazione sufficientemente indicativa, se non puntuale, delle limitazioni di godimento del bene subite e suscettibili di una precisa definizione monetaria o di una liquidazione equitativa, che possano, quanto meno, dare sostegno ad una definitiva pronuncia risarcitoria. In difetto di ciò ogni ulteriore domanda risarcitoria non è definibile.
10. L’ultima critica recata con l’appello incidentale, alla statuizione di compensazione delle spese del grado, va egualmente respinta.
Secondo la costante giurisprudenza, infatti, si tratta di statuizione riservata alla piena discrezionalità del giudice. Essa è censurabile unicamente per manifesta illogicità, quale può palesarsi in caso di condanna della parte vittoriosa o al pagamento di somme evidentemente esorbitanti (fra le più recenti: VI Sez. 21 marzo 2005, n. 1116). Nessuna di queste ipotesi si dà nel caso concreto.
11. La reiezione dell’appello principale e dell’appello incidentale giustifica la compensazione delle spese anche in questo grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello principale e l’appello incidentale.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), nella camera di consiglio del 12 luglio 2005, con l’intervento dei Signori:
Sergio Santoro Presidente
Giuseppe Farina estensore Consigliere
Paolo Buonvino Consigliere
Aldo Fera Consigliere
Gabriele Carlotti Consigliere
L’Estensore Il Presidente Il Segretario
f.to Giuseppe Farina f.to Sergio Santoro f.to Rosi Graziano
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
IL 31 GENNAIO 2006
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
Il Dirigente
F.to Antonio Natale