Cass. Sez. III n. 7404 del 25 febbraio 2021 (PU 21 gen 2021)
Pres. Izzo Est. Scarcella Ric. Pisano
Urbanistica.Reati edilizi e momento consumativo
In tema di reati edilizi, ogniqualvolta intercorra uno iato tra la data di accertamento e quella della sentenza di primo grado, occorre un quid pluris al fine di poter desumere che l’attività illecita si è protratta in epoca successiva all’accertamento, così da dimostrare la non intervenuta cessazione della condotta antigiuridica. Se è ben vero che deve assegnarsi valore esclusivamente processuale e non di inversione dell'onere della prova alla regola secondo cui, qualora la contestazione di un reato permanente sia formulata con il semplice richiamo alla data di accertamento dell'illecito, non occorre che vengano specificati gli ulteriori momenti di verifica della violazione, di talché, in base a detta regola, qualora dagli atti emerga la prova che la condotta illecita è proseguita anche dopo la data dell'accertamento, il giudice può tenerne conto, anche in assenza di ulteriore contestazione, è tuttavia altrettanto vero che lo stesso giudice non può, invece, mancando la suddetta prova, assegnare all'imputato il compito di dimostrare che egli non ha perseverato nell'illecito ma deve piuttosto ritenere, per il principio "in dubio pro reo", che vi sia stata desistenza, assumendo quindi, come data di consumazione del reato, anche ai fini della prescrizione, quella dell'accertamento
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 13.09.2019, la Corte d’appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 16.05.2018, appellata dalla Pisano, che l’aveva condannata alla pena di 8 mesi di reclusione ed euro 14.000 di multa, con pena sospesa subordinata alla demolizione, in quanto ritenuta colpevole dei reati contravvenzionali edilizi, antisismici, paesaggistici ed in materia di conglomerato cementizio armato, unitamente al delitto di violazione di sigilli, contestati come accertati in data 27.01.2011, quanto alle contravvenzioni, ed in data 6.06.2011, quanto al delitto, e commessi secondo le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nei singoli capi di imputazione.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo ed il secondo motivo, da trattarsi unitariamente attesa l’intima connessione dei profili di doglianza, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 44, 29, TU edilizia e 40, cpv. c.p., con riferimento agli illeciti contravvenzionali ed il correlato vizio di manifesta illogicità della motivazione.
In sintesi, si duole la difesa della ricorrente per aver i giudici di appello ritenuto colpevole la stessa limitandosi ad una motivazione per relationem, senza verificare l’esistenza di comprovati comportamenti negativi o positivi, da cui potassero ricavarsi elementi di una compartecipazione a livello morale e materiale della proprietaria dell’area nell’altrui condotta illecita, così non conformandosi alla giurisprudenza di questa Corte di cui cita alcuni precedenti. Come emergerebbe dal permesso di costruire 42/2010, la ricorrente si sarebbe limitata a chiedere al Comune il rilascio di un titolo abilitativo per l’esecuzione di lavori di manutenzione e restauro conservativi di un piccolo fabbricato, affidati alla ditta individuale Rossetti e al direttore dei lavori geom. Pratillo, per cui, in assenza di una comprovata partecipazione delittuosa dell’imputata ai fatti contestati, non potrebbe che derivarne l’assenza di una sua responsabilità. Diversamente, come illustra la difesa nel secondo motivo, la responsabilità della ricorrente sarebbe stata affermata ritenendo che la stessa, entrata nella disponibilità del bene, non solo avrebbe realizzato la violazione delle norme urbanistiche, ma avrebbe perpetuato anche i reati contravvenzionali, attraverso la perpetuazione dei lavori. Si tratterebbe di motivazione censurabile, avendo i giudici di appello recuperato la responsabilità penale attraverso criteri di inferenza implausibili, avendo la stessa Corte affermato che l’imputata era subentrata nella titolarità dell’immobile, ciò che, in assenza di elementi dimostrativi di una sua partecipazione alle condotte relative ai reati contravvenzionali, consentirebbe di ritenerla responsabile del solo delitto di cui all’art. 349, c.p. A sostegno di quanto sopra, la difesa richiama quanto dichiarato dal teste a difesa arch. Maietta, il quale aveva riferito che l’area era di proprietà dei genitori della ricorrente e che, dagli atti, risulta che la ricorrente, ricevuto in eredità l’immobile insieme alla sorella, si sarebbe esclusivamente interessata della sanatoria delle opere edilizie, residuando dunque solo la prova della commissione da parte sua del delitto di violazione di sigilli.
2.2. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di contraddittorietà della motivazione con riguardo alla valutazione della gravità della condotta in contestazione ed alla denegata applicazione dell’art. 131-bis, c.p.
In sintesi, la difesa della ricorrente si duole per il mancato accoglimento della richiesta di applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis, c.p., in considerazione della pluralità di vincoli presenti in zona e delle caratteristiche dell’opera, di non modesta estensione e destinata ad ulteriore sviluppo. Diversamente, si sostiene in ricorso, la volumetria non avrebbe subito alcuna aumento essendosi limitata la Pisano ad interventi marginali nell’ambito di un’attività generale di restauro conservativo, avendo del resto dimostrato che l’attività successiva al reato fosse finalizzata alla riparazione del danno, ossia a ripristinare l’abuso realizzato, piuttosto che manifestare insensibilità rispetto al bene giuridico sotteso alle norme violate. A ciò andrebbe aggiunto, poi, che lo stesso primo giudice, nel riconoscere la continuazione, aveva riconosciuto una non straordinaria gravità dei fatti commessi, ciò che avrebbe meritato una favorevole valutazione. Si richiama, poi, la giurisprudenza di questa Corte che avrebbe ritenuto applicabile l’art. 131-bis, c.p. anche in caso di più reati uniti dal vincolo della continuazione.
2.3. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di contraddittorietà della motivazione in riferimento al riconoscimento della sospensione condizionale della pena subordinata alla demolizione.
Infine, la difesa si duole per aver la Corte d’appello ritenuto necessario subordinare il beneficio di cui all’art. 163 c.p. alla demolizione dell’abuso, ritenendola quest’ultima opportuna e necessaria, ciò che costituirebbe indice del vizio motivazionale per contraddittorietà, in quanto contrastante con quanto emerso in dibattimento, poiché la difesa avrebbe dimostrato la pendenza dell’iter finalizzato al rilascio della sanatoria edilizia e che i testi a difesa, segnatamente l’arch. Maietta, avevano riferito che le opere sarebbero consistite in difformità incidenti in maniera minima sui vincoli sottostanti.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta del 13.11.2020, ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del ricorso. Anzitutto, ha rilevato che il ricorso è generico ed aspecifico, atteso che la sentenza resa in doppia conforme motiva adeguatamente le ragioni esplicative della affermazione di responsabilità per i capi ravvisati, laddove al percorso motivazionale della decisione impugnata la ricorrente non oppone circostanze in grado di minarne le argomentazioni, riproponendo i motivi del giudizio di appello. In secondo luogo, la decisione avrebbe fatto buon governo del richiamo per relationem alla decisione di primo grado in ragione soprattutto della aspecificità e ripetitività dei motivi di ricorso. Infine, corretto risulta il richiamo ai presupposti per il rigetto della richiesta ex art. 131 bis c.p.
4. Con istanza pervenuta a mezzo PEC presso la cancelleria di questa Corte in data 23.12.2020, la difesa della ricorrente ha chiesto, a norma dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, la trattazione orale del ricorso.
5. Con successiva memoria del 14.01.2021, la difesa della ricorrente, nel riportarsi integralmente ai motivi del ricorso, ha altresì chiesto di rilevare l’intervenuta prescrizione dei reati in contestazione, in quanto la condotta illecita relativa ai reati contravvenzionali sarebbe cessata in data 6.06.2011. In particolare, sostiene nella memoria che, alla data del primo sequestro (27.01.2011), le opere in contestazione erano quasi terminate, risultando in essere esclusivamente opere di rifinitura interna, mentre alla data del secondo intervento della P.G., ossia al 6.6.2011, la P.G. operante accertava l’esecuzione di ulteriori interventi di rifinitura e soprattutto, per quel che interessa in questa sede, che nessuna ulteriore attività risultava in essere essendo l’intervento edilizio ormai ultimato. Da qui, pertanto, la conclusione che alla data del 6.6.2011 risultava cessata la permanenza dei reati di cui ai capi A, B, C e D che, tenuto conto dei periodi di sospensione, determinava la maturazione del termine di prescrizione al 24.04.2017.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Tutti i motivi di ricorso sono inammissibili, salva la censura afferente l’intervenuta estinzione per prescrizione dei reati contravvenzionali, dedotta con la memoria depositata in limine litis.
2. Ed invero, i motivi del ricorso originario sono affetti da genericità per aspecificità, in quanto non si confrontano con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi di violazione di legge e motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di appello (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elemento di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità.
E’ pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3. I motivi di ricorso sono, inoltre, da ritenersi manifestamente infondati, atteso che la Corte d’appello ha, con motivazione adeguata e del tutto immune dai denunciati vizi, spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nei motivi di gravame.
Ed invero, premesso che la natura di “doppia conforme” delle decisioni intervenute consente quella reciproca integrazione tra le sentenze di primo grado e di appello, che si saldano unitariamente, consentendo la motivazione per relationem (essendo pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 - dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01), i giudici di appello, quanto al primo ed al secondo motivo, ritengono provata la compartecipazione della ricorrente alla realizzazione degli illeciti contravvenzionali in base al rilievo che la stessa, entrata nella disponibilità del bene non solo ha posto in essere le violazioni urbanistiche, ma ha perpetuato la propria condotta attraverso la realizzazione dei lavori anche dopo il sequestro.
La responsabilità penale, pertanto, risulta comprovata dalla consumazione della condotta di violazione dei sigilli.
4. Orbene, si tratta di conclusioni immuni dalle censure difensive, atteso che, nella giurisprudenza di questa Corte, è costante l’affermazione per cui in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo "in loco" e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (tra le tante: Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014 - dep. 15/12/2014, Langella ed altro, Rv. 261522 – 01).
Nella specie, per quanto risulta dagli atti, risultano una serie di elementi indiziari a sostegno della partecipazione della ricorrente, quale proprietaria, alla realizzazione degli illeciti contravvenzionali, desumibili in particolare non solo dalla circostanza di essere stata l’erede unitamente alla sorella dell’immobile lasciatole dei propri genitori, ma anche dai comportamenti dalla stessa posti in essere, atteso che i lavori erano in corso alla data del primo sopralluogo effettuato (il teste Bologna riferiva che “che le opere non erano state ancora ultimate”), ossia in data 27.01.2011 e che, nonostante l’intervenuto sequestro, eseguito in pari data, in cui furono riscontrati dei lavori interni di rifinitura nell’immobile, in occasione del secondo sopralluogo, avvenuto in data 6.6.2011, la P.G. operante aveva accertato l’esecuzione di ulteriori interventi di rifinitura, risultando pressoché ultimato l’immobile.
E’ quindi emerso, non solo che la ricorrente avesse la materiale disponibilità dell’area, quale comproprietaria unitamente alla sorella, ma che risultassero elementi oggettivi che consentivano di ricondurre anche alla ricorrente gli illeciti contravvenzionali, quali l’esistenza di un interesse all'edificazione – comprovato dalla successiva violazione dei sigilli, su cui nemmeno la difesa pone questioni nell’ottica della responsabilità individuale della ricorrente-, la presentazione dell’istanza di sanatoria concernente l'immobile e, da ultimo, l’intervenuta violazione dei sigilli dopo il sequestro al fine di completare i già accertati abusi, integrando tale condotta un’eloquente attività, indicativa della sua compartecipazione alla realizzazione degli illeciti contravvenzionali.
5. Quanto al terzo motivo, correttamente la Corte d’appello esclude la possibilità di riconoscere la speciale causa di non punibilità del fatto di particolare tenuità, in considerazione della pluralità dei vincoli presenti in zona e le caratteristiche dell’opera, di non modesta estensione e destinata ad ulteriore sviluppo.
Sul punto, anche la più recente giurisprudenza di questa Corte, citata dal ricorrente, pur non ritenendo, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen., ostativo, in astratto, che il reato sia posto in continuazione con altri, ha tuttavia puntualizzato che occorre, tuttavia, valutare, anche in ragione del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta sia espressione di una situazione episodica, se la lesione all'interesse tutelato dalla norma sia comunque minimale e, in definitiva, se il fatto nella sua complessità sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità (v., da ultimo: Sez. 2, n. 11591 del 27/01/2020 - dep. 07/04/2020, T., Rv. 278830 – 01).
Orbene, a tal proposito, risulta evidente da quanto sopra indicato dalla Corte d’appello che l’ostatività è stata desunta non solo e non tanto dalla pluralità dei vincoli esistenti sull’area e dalla correlata violazione di più disposizioni di legge, ma soprattutto stigmatizzando il comportamento della ricorrente che, pur a fronte dell’intervenuto sequestro, non aveva esitato a proseguire i lavori in vista della loro ultimazione, così ponendo in essere una condotta incompatibile con quel giudizio di particolare tenuità, qual è quello richiesto per l’applicazione dell’art. 131-bis, c.p.
6. Quanto, poi, alla circostanza di aver subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione, trattasi di motivo del quale, per quanto si dirà oltre, è superfluo l’esame, restando assorbito dall’accoglimento dell’eccezione di prescrizione sollevata con la memoria difensiva dianzi richiamata.
7. Residua, infatti, da esaminare l’eccezione di prescrizione dei reati contravvenzionali, sollevata con la memoria difensiva e già oggetto di specifico motivo di appello, su cui la Corte territoriale ha motivato.
In particolare, i giudici di appello rigettano l’eccezione, attesa la permanenza delle condotte contravvenzionali in contestazione e l’intervenuta sospensione dei termini di prescrizione durante il giudizio di primo grado, pari a gg. 322.
La difesa della ricorrente, diversamente, sostiene che per le contravvenzioni in argomento, la consumazione si protrae fino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia ovvero non termina l’intervento edilizio. La natura istantanea o permanente degli illeciti in parola, pur essendo stata oggetto a giudizio della ricorrente di un contrasto giurisprudenziale nell’ambito della giurisprudenza di questa sezione, sarebbe stata ormai superata dal più recente filone giurisprudenziale (richiamando Cass. Sez. III, 09/10/2015 n. 1145; Cass. Sez. III, 11.02.2014 n. 12235), il quale ritiene che la consumazione si protragga sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia ovvero non termina l’intervento edilizio.
Su tale ultimo aspetto appare evidente per la difesa che, alla data del primo sequestro (27.01.2011) le opere in contestazione erano quasi terminate, risultando in essere esclusivamente opere di rifinitura interna. Alla data del secondo intervento della P.G., ossia al 6.6.2011, la P.G. operante accertava l’esecuzione di ulteriori interventi di rifinitura e soprattutto, per quel che interessa in questa sede, che nessuna ulteriore attività risultava in essere essendo l’intervento edilizio ormai ultimato. Alla data del 6.6.2011, quindi, risultava cessata la permanenza dei reati di cui ai capi A, B, C e D, sicché, in aderenza al sopracitato orientamento, si ritiene dalla difesa interamente decorso il termine massimo di prescrizione delle contravvenzioni il quale, tenuto conto pur delle sospensioni per giorni 322, risulterebbe maturato alla data del 24.04.2017 (data ultimazione opere 06.06.2011 + 5 anni = 06.06.2016 + 322 giorni di sospensione, prescritto al 24.4.17, ossia in data antecedente alla sentenza di primo grado, intervenuta in data 16.05.2018).
8. L’eccezione di intervenuta prescrizione dei reati contravvenzionali è fondata.
Occorre, sul punto, operare alcune precisazioni, al fine meglio lumeggiare l’approdo cui è pervenuto il Collegio. Come è noto, è stato più volte affermato da questa Corte che il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva (v. Sez. U, n. 17178 del 27/2/2002, Cavallaro, Rv. 221398). Si è poi precisato (ex plurimis: Sez. 3, n. 38136 del 25/9/2001, Triassi, Rv. 220351) che la cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale) o con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio (v. anche Sez. 3, n. 29974 del 6/5/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498).
Orbene, nel caso in esame, è pacifico che i lavori fossero in corso alla data del primo sopralluogo, coincidente con il sequestro dell’immobile, ed è altrettanto pacifico che alla data del secondo sopralluogo, ossia al 6.6.2011, la P.G. operante aveva accertato l’esecuzione di ulteriori interventi di rifinitura (apposizione di rivestimenti in marmo e di ringhiera in ferro della scala interna; apposizione di arredi igienici al locale wc; apposizione di arredi in muratura al locale cucina del p.t.; tinteggiatura di tutte le pareti interne e di parte del cortile).
Sul punto si è chiarito che l'ultimazione dell'opera coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 32969 del 8/7/2005, Amadori, non massimata sul punto ed altre prec. conf., nella stessa richiamate. V. anche Sez. 3, n. 48002 del 7/09/2014, Surano, Rv. 261153). Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio concretamente funzionale, che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell'art. 25 del TU dell'edilizia, che fissa "entro quindici giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il termine per la presentazione, allo sportello unico, della domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 4048 del 6/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365; Sez. 3 n. 34876 del 23/6/2009, Anselmo, non massimata; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125). Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell'abitazione (Sez. 3, n. 8172 del 27/1/2010, Vitali, Rv. 246221), donde ad esempio, la circostanza che la tinteggiatura al 6.06.2011 avesse riguardato solo parzialmente il cortile dimostra che ancora le opere non potessero considerarsi come ultimate.
9. Tale ultima circostanza, tuttavia, non è sufficiente per poter ritenere corretta la soluzione cui è pervenuto il giudice di merito che ha identificato la cessazione dell'attività illecita con la sentenza di primo grado, essendo i lavori continuati dopo l'accertamento del reato (v. Sez. 3, n. 29974 del 6/5/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498). Si tratta certo di affermazione che si fonda su un orientamento che affonda le sue radici in una risalente pronuncia di questa Corte, secondo la quale la permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, quando la condotta antigiuridica dell'agente prosegua fino all'ultimazione dell'opera, ivi comprese le rifiniture, ovvero al momento della cessazione dei lavori, quando vi sia stata l'effettiva interruzione dell'attività costruttiva, sia essa volontaria, da provare rigorosamente, o dovuta a provvedimento autoritativo (Sez. 3, n. 8352 del 5/7/1994, Cesaro, Rv. 198703).
Si tratta di un principio indubbiamente ancora valevole, ma che necessita di una puntualizzazione al fine di evitare che lo stesso, ove portato alle estreme conseguenze, trasformi la prova del reato urbanistico (rectius, la prova della prosecuzione dell’attività illecita, che giustifica la permanenza del reato attesa la protrazione della condotta antigiuridica) in una penalizzazione della posizione processuale dell’imputato, ove si ritenesse, sempre e comunque, che sia onere di quest’ultimo fornire elementi a sostegno della prova della sua “desistenza” dalla prosecuzione dell'intervento, che deve essere definitiva e non soltanto temporanea, e che, secondo la citata giurisprudenza, richiederebbe, necessariamente, di essere efficacemente dimostrata attraverso dati obiettivi ed inequivocabili, non potendosi basare su mere attestazioni o su asserzioni tratte da impressioni testimoniali (come sarebbero quelle richiamate dalla difesa e relative al teste Bologna che avrebbe riferito come nessuna ulteriore attività risultava in essere essendo l’intervento edilizio ormai ultimato), poiché, diversamente, ogni interruzione dei lavori, anche se dovuta a circostanze contingenti, potrebbe essere utilizzata per rappresentare una più vantaggiosa collocazione temporale dei lavori abusivi.
10. Detta puntualizzazione, si noti, è resa necessaria in quanto imposta dalla variabilità delle circostanze del caso concreto, che necessitano un’attenta valutazione della situazione rappresentata negli atti processuali, ai fini di verificare il decorso o meno del termine di estinzione del reato. Orbene, sul punto, il Collegio non può fare a meno di rilevare come nel caso di specie, tra l’ultimo accertamento intervenuto in data 6.6.2011 (in cui la P.G. operante accertava l’esecuzione di ulteriori interventi di rifinitura e che nessuna ulteriore attività risultava in essere essendo l’intervento edilizio ormai ultimato), e la decisione di primo grado – assunta quale momento di cessazione della permanenza dell’illecito, nella prospettazione accusatoria accolta dalla sentenza impugnata – fossero intercorsi quasi sette anni (la sentenza del tribunale risulta emessa in data 16.05.2018), senza che sia desumibile aliunde dagli atti processuali valutabili da questa Corte una sicura prova della protrazione della condotta antigiuridica, anzi risultando contrariamente dalla stessa sentenza che alla data del 6.6.2011 nessuna ulteriore attività risultava in essere essendo l’intervento edilizio ormai ultimato. Risulta, quindi, poco comprensibile giuridicamente, e ancor prima logicamente, ritenere che l’attività illecita, cessata – salve opere modeste di rifinitura, non in corso al momento del secondo sopralluogo - alla data del 6 giugno 2011, possa essersi presuntivamente protratta per ben sette anni, ossia sino alla data della sentenza del tribunale intervenuta, come detto, il 16 maggio 2018, senza che emerga dalle risultanze processuali alcun elemento a sostegno di tale “presunzione di permanenza” dell’illecito.
11. Né, osserva il Collegio, è possibile porre rimedio a tale deficit probatorio (che, come è noto, deve essere offerto dalla Pubblica Accusa), ponendo a carico dell’imputato l’onere di provare la sua “desistenza” dalla prosecuzione dell'intervento, soprattutto a fronte della contestazione di un illecito edilizio, sicuramente permanente, come detto, ma con una formulazione non descrittiva della permanenza della condotta antigiuridica.
L’imputazione infatti è stata contestata nella seguente forma: “accertato in Caserta – loc. Casertavecchia – il…”. Orbene, a tal proposito merita di essere ricordato come nei reati permanenti, la formulazione dell'imputazione segna in ogni caso il momento temporale ultimo della contestazione del reato ed ogni slittamento del termine di cessazione della permanenza necessita di una formale contestazione integrativa da parte dell'accusa, indipendentemente dal fatto che nel capo d'imputazione sia stata indicata la data di cessazione della permanenza o lasciata aperta la relativa contestazione. Fissare nel secondo caso il momento della cessazione della permanenza in coincidenza con la pronuncia della sentenza, violerebbe l'esclusiva attribuzione al Pm dell'esercizio dell'azione penale e l'obbligo di descrizione del fatto nel decreto che dispone il giudizio, da cui discende quello dell'indicazione precisa della collocazione temporale della condotta, per i rilevantissimi riflessi giuridici che tale indicazione ha, non solo diritto di difesa, ma anche sulla prescrizione e sulla successione temporale delle norme. Spetta inoltre all'accusa individuare la data di cessazione della permanenza dovendosi, in caso contrario, ritenere che essa coincida con quella della contestazione della violazione (si veda, sul punto: Sez. 3, n. 11221 del 18/09/1997 - dep. 06/12/1997, Rv. 209983 – 01, che nell'affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto estinto per prescrizione un reato di violazione edilizia per il quale, nel decreto di citazione a giudizio, veniva indicata solo la data della constatazione della violazione e non quella della cessazione della permanenza). Trattasi del resto, di un principio che non risulta contraddetto ma, anzi, del tutto conforme all’autorevole insegnamento delle Sezioni Unite penali di questa Corte le quali hanno sul punto precisato che nell'ipotesi in cui il capo di imputazione contenuto nel decreto di rinvio a giudizio indichi esclusivamente la data di accertamento di un reato permanente, senza nessun riferimento a quella di cessazione della permanenza (come, appunto, avvenuto nel caso di specie), il giudice del dibattimento deve appurare, attraverso l'interpretazione di detto capo, considerato nel suo complesso, se esso riguardi una fattispecie concreta la quale, così come descritta, sia già esaurita prima o contestualmente all'accertamento medesimo, ovvero una condotta ancora in atto; in tal caso, poiché il capo di imputazione ascrive all'imputato una condotta che, lungi dall'essersi già esaurita, è ancora perdurante alla data in esso indicata, deve ritenersi che la contestazione comprenda anche l'ulteriore eventuale protrazione della permanenza, di cui pertanto può tenere conto il giudice del dibattimento ad ogni effetto penale, senza che sia richiesta a tal fine un'ulteriore contestazione da parte del pubblico ministero (Fattispecie in tema di accertamento della decorrenza del termine utile per il maturarsi della prescrizione: Sez. U, n. 11930 dell’11/11/1994 - dep. 26/11/1994, P.M. in proc. Polizzi, Rv. 199170 – 01).
Il che, evidentemente, comporta, come appunto puntualizzano le Sezioni Unite, che il giudice del dibattimento appuri, attraverso l'interpretazione del capo di imputazione, considerato nel suo complesso, se esso riguardi una fattispecie concreta la quale, così come descritta, sia già esaurita prima o contestualmente all'accertamento medesimo, ovvero una condotta ancora in atto. Nel caso di specie, diversamente, la stessa articolazione del capo di imputazione sub a), nella sua estrema genericità ed onnicomprensività, contestava alla ricorrente di aver “iniziato, continuato ed eseguito” la realizzazione delle opere meglio descritte, peraltro indicando quale data dell’accertamento solo quella del primo sopralluogo (27 gennaio 2011, data del commesso reato che viene apposta in calce al capo d), ed evidentemente riferentesi a tutti i precedenti illeciti contravvenzionali), laddove l’indicazione della data del 6 giugno 2011 (quella relativa al secondo accertamento, è riferita al solo capo e), in cui è contestato il delitto di violazione di sigilli.
Quanto sopra, quindi, rende ragione dell’impossibilità per il giudice di merito di poter appurare dallo stesso tenore dell’imputazione, se il fatto contestato riguardasse una condotta antigiuridica cessata o una condotta ancora in atto alla data di accertamento (27.01.2011). Quand’anche, infatti, si volesse ritenere che il giudice possa considerare ai fini di tale valutazione la seconda data, pur riferita al delitto di cui all’art. 349, c.p., ossia quella del 6 giugno 2011, non vi sarebbero tuttavia elementi oggettivi ricavabili dagli atti che consentano di ritenere provata, nemmeno presuntivamente, la protrazione della condotta antigiuridica oltre la data del secondo accertamento, e, quindi di individuare il termine di cessazione nella sentenza di primo grado, a meno di non ritenere possibile un inammissibile aggravio della posizione processuale dell’imputato, onerandolo di fornire una dimostrazione ex post della “desistenza” volontaria dalla prosecuzione dell’illecito rispetto alla data dell’ultimo accertamento.
12. In definitiva, il principio di diritto cui si è richiamato il giudice di merito deve essere rettamente inteso nel senso che ogniqualvolta intercorra uno iato tra la data di accertamento e quella della sentenza di primo grado, occorre un quid pluris al fine di poter desumere che l’attività illecita si è protratta in epoca successiva all’accertamento, così da dimostrare la non intervenuta cessazione della condotta antigiuridica. Se è ben vero che deve assegnarsi valore esclusivamente processuale e non di inversione dell'onere della prova alla regola secondo cui, qualora la contestazione di un reato permanente sia formulata con il semplice richiamo alla data di accertamento dell'illecito, non occorre che vengano specificati gli ulteriori momenti di verifica della violazione, di talché, in base a detta regola, qualora dagli atti emerga la prova che la condotta illecita è proseguita anche dopo la data dell'accertamento, il giudice può tenerne conto, anche in assenza di ulteriore contestazione, è tuttavia altrettanto vero che lo stesso giudice non può, invece, mancando la suddetta prova, assegnare all'imputato il compito di dimostrare che egli non ha perseverato nell'illecito ma deve piuttosto ritenere, per il principio "in dubio pro reo", che vi sia stata desistenza, assumendo quindi, come data di consumazione del reato, anche ai fini della prescrizione, quella dell'accertamento (Sez. 3, n. 10640 del 03/09/1999 - dep. 15/09/1999, Rv. 214039 – 01; Sez. 1, n. 13265 del 08/03/2002 - dep. 08/04/2002, Gambardella, Rv. 221223 – 01; Sez. 3, n. 4273 del 04/12/2002 - dep. 30/01/2003, Nasca, Rv. 223556 – 01; Sez. 1, n. 46583 del 17/11/2005 - dep. 20/12/2005, Rv. 232966 – 01; Sez. 5, n. 25578 del 15/05/2007 - dep. 04/07/2007, Rv. 237707 – 01; Sez. 1, n. 39221 del 26/02/2014 - dep. 24/09/2014, Rv. 260511 – 01; Sez. 1, n. 37335 del 26/09/2007 - dep. 10/10/2007, Rv. 237506 – 01; Sez. 1, n. 33053 del 12/07/2011 - dep. 02/09/2011, Rv. 250828 – 01; Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016 - dep. 06/06/2016, Rv. 267080 – 01; Sez. 1, n. 20158 del 22/03/2017 -dep. 27/04/2017, Rv. 270118 – 01).
La regola di "natura processuale" per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale dunque a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all'accusa l'onere di fornire la prova a carico dell'imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all'indicato ultimo limite processuale.
13. Alla stregua delle considerazioni che precedono, l’impugnata sentenza dev’essere pertanto annullata senza rinvio, limitatatamente agli illeciti contravvenzionali contestati ai capi a), b), c) e d) della rubrica, perché estinti per prescrizione. Diversamente, non essendo stato attinto dal ricorso il delitto di cui all’art. 349, cpv, c.p., non rileva l’intervenuto decorso per prescrizione di tale delitto alla data del 24 ottobre 2019, trovando applicazione il principio, già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016 - dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966 – 01).
14. A seguito dell’intervenuta declaratoria di prescrizione dei reati satelliti, deve quindi procedersi ex art. 620, lett. l), cod. proc. pen. alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, eliminando gli aumenti inflitti a titolo di continuazione dal giudice di merito, così rideterminandosi la pena per il residuo capo e) (art. 349, c.p.) in mesi 6 di reclusione ed 11.000 euro di multa, così indicata dal giudice di primo grado, con revoca dell’ordine di demolizione e dell’ordine di rimessione in pristino stato dei luoghi a spese del condannato, previsto dall’art. 181, d. lgs. n. 42 del 2004.
L’intervenuta revoca dell’ordine demolitorio, consente peraltro di eliminare la condizione apposta al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena, già concesso dal giudice di merito.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente ai reati contravvenzionali di cui ai capi a), b), c), d) perché estinti per prescrizione.
Ridetermina la pena per il residuo capo e) (art. 349 c.p.) in mesi sei di reclusione ed euro 11.000,00 di multa, pena sospesa con revoca dell'ordine di demolizione e di rimessione in pristino.
Così deciso, il 21 gennaio 2021